Decision To Leave, Park Chan-wook firma un capolavoro, teso tra noir e mélo romantico

Dal maestro sudcoreano un film imperdibile, una struggente vicenda di passione amorosa tra un detective e una sospettata di omicidio. Con uno stile vertiginoso pieno di atmosfere hitchcockiane. Dal 2 febbraio in sala

Decision To Leave

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Negli ultimi 402 giorni non ho pensato che a te”: così dice, trascorse ormai due ore di film, il detective Hae-joon (Park Hae-il) alla sospettata Seo-rae (la Tang Wei di Lussuria), ossessione che lo perseguita dal primo minuto di Decision To Leave, l’ultimo lavoro di Park Chan-wook, vincitore di un meritato premio della regia a Cannes 2022. Il grande regista coreano mette da parte l’alto tasso di violenza che ha segnato i titoli più celebri della sua carriera come Old Boy e Lady Vendetta per costruire un rompicapo dallo stile visivo prezioso e ricercato, un noir nutrito di un romanticismo insieme sfrenato e compresso, dal quale tracima un desiderio continuamente rinviato e dolorosamente inappagato, a segnare un’opera in cui il mistero della passione amorosa è raccontato con un tono da romanzo adulto, destinato a imprimersi a lungo negli occhi e nella memoria dello spettatore.

Decision To Leave mostra prima di ogni altra cosa quanto Park Chan-wook abbia saputo far sua la lezione hitchcockiana, sia per una colonna sonora calda e insinuante che fa pensare alle partiture al calor bianco di Bernard Herrmann (Vertigo su tutte, dato che questa è una variazione sul tema di una donna che ritorna due volte), sia per la forte componente di voyerismo – e di riflessione quindi sull’amore come sguardo che torna continuamente sull’oggetto del desiderio – che permea il racconto, nel quale il meticoloso Hae-joon conduce l’indagine che gli ribalterà la vita sulla vedova Seo-rae, principale sospettata per la morte del marito, precipitato in un burrone durante un’escursione in montagna.

He-joon si apposta fuori dell’appartamento della donna scrutandola da lontano con un binocolo. A quel punto è già completamente avvinto a un sentimento incontrollabile, e nel delirio amoroso – distillato attraverso una totale, trattenuta degnazione orientale – s’immagina di essere accanto a lei, nella stanza, a radiografarne e condividere ogni gesto e sospiro.

Decision To Leave è un dispositivo narrativo complesso e stratificato, in cui ogni dettaglio restituisce la dialettica tra attrazione e distanziamento che scandisce la relazione tra i protagonisti, separati anche dall’uso della lingua, perché la cinese Seo-rae non capisce le sfumature più sottili del coreano e ha bisogno che certe espressioni le vengano tradotte. Ma il linguaggio della passione che li lega è e resta inequivocabile.

La linea narrativa compie un giro lunghissimo di deviazioni, vicende secondarie, ripetizioni che differiscono la realizzazione del desiderio, intensificando tanto la forza degli impulsi che il senso di frustrazione. E quando il detective s’illude di essere guarito dal morbo rappresentato da questa donna, ricostruendo in un’altra città il rapporto sereno con sua moglie, è destinato a essere riattratto nelle sue spire – il destino che dispone a suo piacimento dei personaggi è una cifra costitutiva della grammatica noir. Ma non si pensi che Seo-rae sia una dark lady semplicemente manipolatoria, perché alle regole della seduzione entrambi i protagonisti sono costretti loro malgrado a soggiacere. E soccombere.

Nel frattempo la regia di Decision To Leave si concede divagazioni soltanto apparenti, come un altro caso seguito dal detective nel quale il criminale braccato è un assassino talmente innamorato della donna che l’ha tradito da decidere di togliersi la vita. E nel confronto con lui, in un dialogo paradossale alla fine di un lungo inseguimento, Hae-joon realizza di trovarsi di fronte a una impotenza speculare alla sua. La quale è forse una delle ragioni della sua insonnia perenne, cui purtroppo non può offrire alcuna soluzione la benevola ed equilibrata compagnia dell’assennata moglie, e che si acquieta invece solo quando il ritmo del suo respiro e dei suoi pensieri incontra quelli di Seo-rae.

È difficile restituire la ricchezza espressiva, il sottile equilibrio di Decision To Leave, tessuto di una stoffa rarefatta e allusiva in cui lo splendore formale visivo non si risolve mai in sterile formalismo, e ogni fotogramma si fa vettore di quella passione amorosa che è il filo costantemente teso tra i protagonisti. I quali si sfiorano per la prima volta dopo un lunghissimo, estenuante gioco di adescamento e tentazioni reciproche, in cui persino i dispositivi tecnologici, i messaggi e i vocali inviati col cellulare si tingono d’una dolcezza imprevedibile – restando allo stesso tempo tracce determinanti per l’indagine poliziesca, col noir che va a braccetto col melodramma.

Decision To Leave consegna allo spettatore il peso dolente di un piacere inappagato, nella coesistenza di tensioni che non possono collimare, il che rende il film ancora più intenso e struggente. “Nel momento in cui hai detto di amarmi il tuo amore ha avuto fine, e il mio ha avuto inizio”. Così dice Seo-rae. E queste parole spiegano, insieme a un finale coraggiosamente incendiario, la natura stessa dell’amore, la sua consistenza di sabbia, con i minuscoli granelli che da un lato sfuggono tra le mani, dall’altro si compattano in un solido strato di terra sotto il quale il sentimento viene sigillato e l’oggetto del desiderio, letteralmente, svanisce.  Privando l’amante, “annientato” come dice Hae-joon, del suo nutrimento essenziale: la visione di quella donna. Sua malattia e sua unica cura.

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