Close, le ferite dell’adolescenza e una società che non sa accoglierla

Dopo l’acclamato “Girl”, il giovane regista belga Lukas Dhont racconta l’amicizia tra due ragazzini che scoprono le leggi non scritte della società. Già premiato a Cannes, otterrà probabilmente anche la nomination all’Oscar

Close

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Close, seconda regia del 31enne belga Lukas Dhont, arriva nelle sale dal 4 gennaio gravido di notevoli aspettative, stante il sorprendente successo dell’esordio del 2018 Girl, storia di una ballerina adolescente che, nata maschio, decide di intraprendere il percorso di transizione verso la sua autentica identità femminile. Un film che, grazie alla riflessione franca e non banale sul tema del corpo e all’analisi delle forti pressioni sociali legate alla scelta della protagonista, ottenne un apprezzamento generalizzato, con la partecipazione alla sezione Un Certain Regard a Cannes, numerosi premi (a Dhont e all’eccezionale protagonista Victor Polster) e la nomination per il miglior film straniero ai Golden Globes (tra l’altro, in questi giorni la piattaforma MioCinema offre al pubblico la visione gratuita del film in streaming in occasione dell’uscita di Close).

Anche questa seconda prova, che Dhont ha scritto insieme ad Angelo Tijssens, ha immediatamente catalizzato l’attenzione, ottenendo il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, dove era nel concorso principale, ed entrando nella shortlist dei migliori film internazionali agli Oscar, anticamera di una quasi certa nomination. Dhont si focalizza, seppure in una chiave più sfumata, sulle medesime tematiche dell’esordio, concentrandosi sull’ingrata età dell’adolescenza. Protagonisti di Close sono due tredicenni, Léo e Rémi (Eden Dambrine e Gustav De Waele, entrambi bravissimi in ruoli che chiedono loro molto), “migliori amici” che vivono la felicità di un rapporto perfetto, con corse sfiancanti tra i campi, la complicità dei giochi infantili, la vita serena in due famiglie sane e comprensive. Sembrano quasi i buoni selvaggi di Rousseau, ritratti in un originario, quieto scenario pastorale – la campagna in cui lavorano i genitori di Léo, imprenditori agricoli, è infatti di bellezza intoccata –, prima che intervenga la rottura dell’Eden.

Che nel caso di Léo e Rémi consiste nel passaggio alla scuola superiore. In cui, quasi subito, i due devono fare i conti con le leggi non scritte ma crudeli della società. Delle compagne di classe chiedono innocentemente ai due se stanno insieme, e qualche ragazzino abbozza un malevolo “femminucce”. Apparentemente nulla di trascendentale, nessun caso di bullismo esasperato: ma tanto basta a far capire l’aria che tira. Soprattutto Léo, molto infastidito, ha una reazione istantanea e dimostrativa: si iscrive a un “virile” corso di hockey su ghiaccio e raffredda un po’ i rapporti con Rémi. Il quale, più introverso continua a cercare insistentemente le attenzioni dell’amico, non riuscendo a comprenderne il comportamento. E come sempre accade, i più sensibili pagano il prezzo più alto.

Close è un film diviso in due, tra il prima della vita libera e semplice e la seconda età in cui l’originaria naturalezza viene irreggimentata attraverso un processo di civilizzazione che pretende la regolamentazione degli istinti innocenti, così da attenersi a precise norme sociali, molte delle quali implicite ma non meno cogenti, come appunto sono già in grado di comprendere dei tredicenni, che alla loro età le hanno già ampiamente interiorizzate.

Le qualità del film e della messinscena di Dhont sono innegabili, a partire dalla fluidità narrativa di un racconto che, senza bisogno di conflitti troppo esibiti, descrive la barriera invisibile di conformismo contro il quale vanno a sbattere i due “ragazzi selvaggi”, restituita in un montaggio elegante e senza soluzione di continuità, nel pedinamento discreto ma continuo dei protagonisti, in particolare di Léo, di cui radiografa sussulti e impercettibili turbamenti.

Ed è sensibile la rappresentazione del piccolo mondo degli affetti che attornia i due protagonisti. Come in Girl, in cui il padre amorevole supportava sempre saldamente le scelte della figlia, anche in Close i genitori (tra cui segnaliamo la madre di Rémi, interpretata da Émilie Dequenne, storica Rosetta del capolavoro dei fratelli Dardenne) sono accanto ai loro bambini, non trovando nulla di morboso nell’intensità del loro rapporto esclusivo.

Allo stesso tempo Close però esibisce una struttura didascalica e semplificata, proprio nella dialettica irrigidita, anzi nella contrapposizione netta tra il prima e il dopo, tra quel pacifico mondo naturale – con troppe esaltanti corse a perdifiato, una campagna dai colori troppo squillanti, delle famiglie di serenità integrale, senza mai l’ombra di un conflitto – e dall’altro lato il mostro sociale che rompe quel cristallo di felicità perenne.

Col che, quando deflagra la tragedia, Close non sa bene come maneggiarla: e si ferma alla descrizione letterale di un dolore lancinante, umanissimo e coinvolgente, dentro e dietro il quale però Dhont non sembra in grado di leggere altro restando, al netto dello stile già maturo e visivamente calibrato, alla superficie del dramma che intende raccontare. E il film, sigillato dentro un patetismo tanto comprensibile quanto impotente, non riesce a risalire più lucidamente dalla sofferenza alle cause che vi sono a monte.

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