Boiling Point, chef oltre l’orlo di una crisi di nervi

Un racconto costruito come un lungo piano sequenza che accede al dietro le quinte di un ristorante alla moda. Che diventa una metafora del modello sociale arrivista, disperato e frenetico in cui viviamo. Dal 10 novembre in sala

Boiling Point

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Boiling Point ha un sottotitolo italiano infelice e pure ingannevole. Perché “Il Disastro è Servito” fa pensare a toni da commedia brillante, mentre invece quello che cuoce a fuoco velocissimo e violento è un dramma in piena regola.

Secondo lungometraggio diretto da Philip Barantini, che è partito da un suo corto del 2019, Boiling Point è la vicenda tutta in una notte e in un unico pulsante piano sequenza che si consuma nei locali di uno dei ristoranti più alla moda di Londra, in una serata durante le festività natalizie che però non ha nulla di eccezionale. Nel senso che overbooking e frenesia tra i tavoli e ai fornelli sembrano essere la regola nelle vite professionali della squadra agli ordini dello chef Andy Jones (Stephen Graham).

L’organizzazione della cucina ha il tono enfatico e marziale – a base di inevitabili “Sì chef!” – cui ormai siamo tutti abituati dopo troppi anni di MasterChef e innumerevoli trasmissioni alla Hell’s Kitchen di Gordon Ramsey. Le quali hanno invaso i nostri palinsesti televisivi e mentali, trasformando la gastronomia in una metafora apprezzabilmente precisa del modello sociale in cui viviamo, frenetico, ossessionato dal successo e da una sovraesposizione mediatica che pretende ogni nostro comportamento sia accattivante e instagrammabile – in tal senso niente è più efficace del food porn, con le foto scintillanti di piatti stilisticamente arzigogolati fino all’esasperazione.

Non punta su questo però Boiling Point, che mette da parte quasi completamente i dettagli estetizzanti dei processi di cottura e del famigerato impiattamento. Quel che interessa a Barantini, autore anche della sceneggiatura insieme a James A. Cummings, è raccontare lo spazio concentrazionario del ristorante, microcosmo in cui si rispecchia il macrocosmo sociale e umano di cui è prodotto ed espressione tipica. Di qui la scelta, non particolarmente originale e però funzionale, del piano sequenza, con una camera mobilissima che spesso abbandona il protagonista seguendo e approfondendo in brevi illuminanti parentesi le vicende degli altri personaggi.

Così Boling Point diventa una piccola enciclopedia al vetriolo della miseria umana: il cliente razzista infastidito dall’essere servito da una cameriera di colore obbligata per contratto a essere gentile e sorridente, boriosi influencer che pensano una manciata di follower dia loro diritto a un trattamento speciale, l’ex socio di Andy, ora star televisiva Alistair Skye (Jason Flemyng), che fa un’imboscata presentandosi in compagnia della temutissima critica gastronomica Sara (Lourdes Faberes), per ricattare il vecchio sodale ed entrare nel business del locale. Il film poi salva pure, evitando così la gabbia del teorema che sa già tutte le risposte, certi momenti inaspettati di solidarietà, come nell’abbraccio commovente e non richiesto che la pasticciera dà al suo giovane assistente in un momento di enorme difficoltà.

La sensazione che emerge, seppur mai esplicitata, è che tutti i protagonisti restino lì a sopportare tensione, maleducazione, aspettative esagerate, non per il sacro fuoco e la vocazione all’eccellenza, di cui non c’è praticamente traccia in Boiling Point, ma molto più banalmente perché hanno disperatamente bisogno di lavorare.

La vicenda ha una struttura da pièce teatrale in cui, nonostante tiri un’aria apparente di improvvisazione perenne, tutto è calibrato e scritto fino nei particolari. Così non appena qualcuno avverte i cuochi che un avventore è allergico alle nocciole, secondo il vecchio principio cechoviano della pistola che una volta presentata in scena deve necessariamente sparare, da spettatori già sappiamo che intorno a quel dettaglio insignificante la storia finirà per deflagrare. Fornendo implicitamente una risposta, tutt’altro che ottimista, alla domanda posta a un certo punto da Sara: “Come si fa a non finire in pezzi?”.

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