C’Era Una Volta A… Hollywood, il film di Quentin Tarantino è un atto d’amore per il cinema

Una storia ambientata nel 1969 del tramonto della vecchia Hollywood. Un film che trasuda cinefilia da ogni fotogramma. Con Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Al Pacino

C’Era Una Volta A… Hollywood

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C’Era Una Volta A… Hollywood, quasi banale dirlo, è l’atto d’amore definitivo al cinema intonato dal cinefilo integrale Quentin Tarantino. Un atto d’amore talmente sentito e totalizzante che il regista e sceneggiatore ha sentito il bisogno, dopo averlo filmato, anche di trasferirlo su pagina, trasformandolo in un romanzo (in Italia pubblicato da La Nave di Teseo).

Il nono lungometraggio di Quentin Tarantino trasuda cinema da ogni suo fotogramma, a partire dal décor sontuoso (quello per la scenografia è uno dei due premi Oscar vinti dal film, l’altro è per il non protagonista Brad Pitt), le locandine finto autentiche di film mai esistiti, i volti fantasmatici della Hollywood del tempo (Steve McQueen, Sam Wanamaker, Bruce Lee), spezzoni di vecchi film talvolta manipolati, in cui il protagonista Leonardo DiCaprio-Rick Dalton è infilato dentro La Grande Fuga o in film italiani (quando viene a lavorare in Europa con “il secondo migliore regista di spaghetti western, Sergio Corbucci”).

La tentazione di Tarantino in C’Era Una Volta A… Hollywood è quella di perdersi in quel tramonto degli anni Sessanta – il film è ambientato nel 1969 – che coincide col canto del cigno del cinema che lui ha più amato, col quale vorrebbe letteralmente fondersi, appunto attraverso quei brani di film ricreati con gusto calligrafico. È un Tarantino regista, ma anche in un certo senso un Tarantino spettatore, che si siede idealmente insieme a noi a godersi lo spettacolo smagliante di quel mondo osservato con l’occhio della nostalgia.

Infatti una delle sequenze più rivelatrici del tono del film è quella in cui Sharon Tate (Margot Robbie), attrice e e neomoglie del lanciatissimo regista Roman Polański, va a vedere in sala un film in cui recita accanto a Dean Martin, The Wrecking Crew (in italiano Missione Compiuta Stop. Bacioni Matt Helm). Così c’è una moltiplicazione di sguardi, con noi spettatori a guardare in sala il doppio cinematografico della Tate, Margot Robbie, che osserva in un cinema la vera Sharon Tate sullo schermo. Un gioco orchestrato da Tarantino, che ci invita, lui per primo, a perderci in questa proliferazione di sale, schermi, specchi.

Ed è esattamente ciò che accade lungo le quasi tre ore di durata di un film in cui la storia conta fino a un certo punto, a tratti sfilacciata, ondivaga, traballante, mentre ciò che più risalta è il piacere del testo e degli occhi per le immagini implacabilmente croccanti che ci sfilano davanti. La vicenda segue il lento ma inesorabile declino di Rick Dalton, un tempo star televisiva d’una serie western degli anni Cinquanta, che ora annaspa facendo il cattivo in film di serie b in cui finisce invariabilmente ammazzato – glielo fa notare un produttore scafato (Al Pacino), che lo invita a tentare l’avventura italiana.

Accanto a lui c’è l’inseparabile Cliff Booth (Brad Pitt), amico, controfigura, factotum, un uomo dal passato torbido ma dall’aria incredibilmente rilassata, l’esatto opposto di Rick. Il quale, vuole il caso, abita in una bella casa hollywoodiana accanto alla coppia del momento Polański-Tate. Rick desidererebbe tanto farsi amico quel regista polacco in ascesa che potrebbe fargli svoltare la carriera. Ma siamo, appunto, nel 1969. E il 9 agosto di quell’anno, la storia vera (non quella del film) ci ricorda che Sharon Tate insieme a quattro amici venne barbaramente uccisa nella sua villa di Beverly Hills, all’ottavo mese di gravidanza, dagli adepti del folle Charles Manson. Chiaramente il terzo atto di C’Era Una Volta A… Hollywood si svolge in quella notte. Ma sappiamo, da Inglourious Basterds in poi, che a Tarantino la storia interessa fino a un certo punto, perché è nella natura dell’arte cinematografica ribellarsi alla prosaicità dei nudi fatti, manipolandoli, riscrivendoli, reimmaginandoli, cosa che accadrà, con non poche sorprese, anche qui.

Il regista gioca con la consapevolezza dello spettatore che sa in partenza, appunto, della tragedia sempre sullo sfondo che è lì ad attenderlo, come inevitabile finale – in quale forma, però, non può prevederlo. E allora, lavorando su questa tensione latente continuamente procrastinata, nel frattempo Tarantino immerge il pubblico nella pura gioia della visione. Di cosa? In gran parte, potremmo dire, di nulla, se quel che ci interessa è la linea narrativa, che è impalpabile, periclitante, spesso inesistente. Però se invece ci concentriamo sulla bellezza della messinscena, sui dettagli del trovarobato da collezionista cinefilo, sul piacere di osservare la pura presenza fisica dei corpi attoriali che attraversano il film – l’eterea, impalpabile Tate di Margot Robbie e il supercool Cliff-Pitt sembrano essere messi lì solo per essere mostrati –, allora C’Era Una Volta A… Hollywood diventa un’esperienza immersiva quasi ipnotica.

Tutto in questo film ha la consistenza, si sarebbe detto una volta, della celluloide. Puro cinema. Ecco cosa interessa a Tarantino: mostrare il cinema nella sua purezza, un’apparizione che, da spettatori, guardiamo stupefatti, riscaldati da un calore che rimanda all’epoca in cui il cinema (quindi la vita) aveva un altro sapore. E allora semplicemente si piazza la macchina da presa e si seguono gli attori nel loro “esserci”. Soprattutto Brad Pitt, seguito mentre scorrazza in auto per la città, rimorchia una ragazzina, porta a passeggio il cane, le dà di santa ragione a un Bruce Lee fanfarone. Non serve che accada qualcosa di specifico.

Quel che importa è osservare – e filmare – la continua epifania del cinema, che riporta in vita miracolosamente questo mondo di sconfinato fascino. Poi certo, ci attende sempre il terzo atto, con le accelerazioni brutali della Storia con la S maiuscola. L’autentico significato del film, però, viene prima. C’Era Una Volta A… Hollywood è come un lunghissimo preambolo divagante e inconcludente. Questo è il suo fascino. Questo anche il suo limite, di cui in un certo senso lo stesso Tarantino è consapevole, percependo anche l’ossessività di questo amore narcisistico del cinema per sé stesso.

Narcisista è la Tate che si osserva al cinema, ovviamente. E lo è il tormentato Dalton: che si guarda allo specchio e si minaccia per spronarsi a recitare meglio; che ascolta i nastri registrati con la sua voce per imparare la parte (insomma parla continuamente da solo): che davanti alla sua villa ha una gigantografia di sé stesso. Tutto ciò è anche allarmante. Un po’ come l’amore per il cinema. Avvincente, e morboso. Perché preferendo la sala buia alla realtà, si corre il rischio di pensare che quel mondo proiettato sul fondo della caverna sia l’unico che esiste davvero.

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