La morte non è mai stata un argomento pop

Quello che spiazza è come ancora non si sia fatta l’abitudine a sentire tutti i giorni lo sciorinare di quei numeri, ogni numero una vita che se ne è andata

Brown-haired girl with a medical mask on a gray background.


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Ho fatto un errore, abbastanza grave. Ho gettato lo sguardo sulla scrivania di mia figlia grande, Lucia, venti anni. Se avete figli adolescenti o postadolescenti potete ben capire il grado di gravità dell’errore commesso. Se siete adolescenti o postadolescenti immagino di no, provate comunque a guardare tra le vostre cose, potreste anche intuirlo. Per tutti gli altri, che dire?, fidatevi di chi scrive, è un’esperienza violentissima, a volte, mi dicono, mortale. Ho infatti visto, affastellati vicini tra loro, senza una reale logica riconducibile alla razionalità, tutta una serie di candele profumate, di varia foggia e di vario colore, un porta penne a forma di banana, in gomma morbida, il busto di una regina africana, in avorio, regalo di mia madre, una piantina grassa, miracolosamente viva, una borraccia di alluminio, dipinta di rosa, di quelle che usano adesso tra i giovani e non interessati al futuro del pianeta e contrari all’utilizzo della plastica, evidentemente per quel che riguarda le bottiglie, non le puttanate da tenere sulla propria scrivania, un alieno verde, forse un robot, non saprei dire, immagino un semplice soprammobile, un vaso atto a accogliere un solo fiore, nello specifico un fiore finto, un mappamondo, bicchieri pieni di piume colorate, un porta lettere con dentro infilati carte colorate, la riproduzione in ceramica di un pulmino di quelli che si aggirano per il centro America, una marionetta rappresentante una guardia di sua Maestà la Regina Elisabetta, in legno, alta una trentina di centimetri buona, lo stereo lettore Cd che le abbiamo regalato non ricordo per quale compleanno, una sveglia digitale mai utilizzata, una scatola in legno, suppongo un portagioie, un ombrello portatile, di quelli da borsa, tazze varie, oggetti di varia natura, spesso provenienti da Tiger, fiocchetti di quelli che adornano pacchi regalo, segnalibro in legno lavorato, scatole da cui sono usciti, come un popup, dei fiori di carta, pinzette da manicure, forcine per capelli, qualche colore e evidenziatore, un cappello a tre punte da giullare, in pannolenci, una serie di libri che spaziano da quelli universitari a vecchi reperti presi in qualche bancarella di libri, ce n’è uno di sessuologia di Franca Rame e c’è Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, e a chiudere, si fa per dire, un numero imprecisato di teschi. No, non teschi veri, umani o animali, riproduzioni di teschi umani, decorati e colorati, alla maniera della Santa Muerte messicana, uno è un portaprofumo, uno è un fermacarte, uno, credo, un semplice ninnolo, totalmente dorato. Ce ne sono diversi, al punto che, forse per trovare un senso in quel caos calmo, pulsante, mi sono chiesto se mia figlia Lucia, in fondo, non li collezioni, tanti sono. Poi ho provato a aprire qualche cassetto, e ci ho trovato davvero qualsiasi cosa, quindi ho optato per un no abbastanza deciso, nessuna collezione, quanto piuttosto un accumulare compulsivo di oggetti che evidentemente le piacciono. Anche a me piacciono i teschi, intendendo sempre per i teschi decorati della Santa Muerte messicana, se avete visto Coco, il film della Pixar, sapete di cosa sto parlando. Ho una maschera carnevalizia a forma di teschi, su tre tinte, nero, bianco e viola, esattamente come quella che Salmo era solito indossare un tempo, credo l’ultima volta nel video di Perdonami, sta dentro l’armadio dei cd e delle puttanate, anche io ne ho parecchie, quasi tutte o parte dei miei ricordi d’infanzia, o gadget discografici di quando ancora c’erano i gadget discografici, indossata credo solo una volta per fare una storia su Instagram.

Il fatto è che la morte e la sua rappresentazione, oltre che il modo con cui le varie culture ci si confrontano e quindi si confrontano col lutto, mi ha sempre molto affascinato. Sin da quando ho scoperto, ero ovviamente un bambino, che molti dei canti gospel erano marci funebri, Oh when the Saints credo la più famosa. L’idea che qualcuno cantasse e ballasse per celebrare una morte, invece che piangere disperato come avevo in genere visto fare in quei pochi funerali cui avevo assistito, mi sembrava non solo bizzarro, ma affascinante, come se alcuni popoli, i neri d’America, nello specifico, sapessero qualcosa che noi, italiani, ignoravamo, e dire che eravamo e siamo il popolo che ospita il Vaticano, quindi quelli che dovrebbero guardare alla morte con più serenità. Anche per questo, in fondo, ho sempre sorriso al modo anche bigotto con cui la chiesa e molti credenti approcciano Halloween, festa pagana indubbiamente legata alla morte, come a rivendicare una seriosità e una tragicità che altrove è assente. Poi, chiaro, quando più grande ho incontrato i lutti, o almeno li ho incontrati vivendoli, perché qualche lutto immagino mi sarà capitato anche da piccolo, ho capito che l’assenza è dolorosa, anche se provi a cantarci e ballarci su, e che la speranza di un incontro in una vita altrove è un balsamo, non certo una droga pesante in grado di anestetizzarci l’anima, ma ho sempre continuato a guardare come gli altri elaborano il lutto con interesse, manco fossi un antropologo. Ricordo che anni fa, quando siamo andati con la famiglia a farci una vacanza in Romania, una terra bellissima e affascinante, quando in mezzo alla Transilvania siamo passati per un villaggio di zingari, non leggete queste parole con il sopracciglio alzato, non sono razzista, è così che viene presentato dalle guide, in virtù del fatto che sono villaggi nei quali vivono esclusivamente comunità di origine sinti e rom, siamo capitati in un ristorante piuttosto folkloristico, assolutamente non turistico, il menu era solo in rumeno, e vi garantisco che quando dicono che rumeno e italiano si assomigliano perché derivano entrambi dal latino non sanno di cosa parlano, è incomprensibile ai nostri orecchi, comunque, siamo capitati in un ristorante piuttosto folkloristico che ospitava, al piano terra, non ci siamo accomodati al piano superiore, un pranzo funerario, immagini del morto un po’ ovunque, tra cibi tradizionali e grandi bottiglie di bevande gassose, tutti a parlare e schiamazzare, qualcosa per noi di incomprensibile, e anche per questo assolutamente affascinante. Una scena incredibile che ha contribuito a rendere unico un viaggio che già di suo ci aveva regalato un sacco di suggestioni.

Alcune delle serie tv che stiamo seguendo in questo periodo, io e mia moglie, hanno rappresentato la morte di uno dei protagonisti, segue spoiler. È morta Nic a The Resident, è morta Georgia, la moglie di Max a New Amesterdam, è morto il dottor Melendez a The Good Doctor, va beh, Grey’s Anatomy ha costruito sulla morte del dottor Shepard parte della sua trama. Vedere come queste serie, tutte medical ma con una attenzione ai sentimenti costantemente in primo piano, hanno raccontato e raccontano l’elaborazione del lutto è qualcosa che mi ha letteralmente tenuto incollato allo schermo, ammirato dalla capacità degli autori delle serie americane di costruire personaggi tridimensionali, di affrontare storie e svolgimenti senza mai cadere nell’ovvio o nella retorica, al punto che i personaggi sembrano reali, nostri veri e propri conoscenti. Proprio in una delle puntate della seconda serie di New Amsterdam, Georgia muore proprio nel primo episodio, per raccontare l’elaborazione del lutto del dottor Max Goodwin viene usata la storia di una paziente arrivata in ospedale, un ragazza che è costretta a partorire il proprio figlio morto in grembo all’ottavo mese di gravidanza. Una storia dolorosa, certo, che coinvolge Max, incapace di non proiettare su quella paziente se stesso, la moglie persa per un incidente proprio nel giorno in cui ha partorito loro figlia. Questa storia mi ha colpito profondamente. Vedere che lì è previsto una specie di protocollo per aiutare le donne a affrontare situazioni come questa, una piccola culla bianca posta a fianco del letto, così che volendo ci possa essere anche un contatto fisico con il figlio perso, mi ha fatto pensare a mia madre. Come ho avuto modo di raccontare più volte, anche in questa sede, io sono un gemello, un gemello eterozigote, quindi di due sacche diverse, il solo gemello sopravvissuto al parto il giorno in cui sono nato. Questo fatto, questa tragedia, ha in qualche modo segnato i primi anni della mia vita, credo di poter dire col senno di poi, un sopravvissuto è sempre un sopravvissuto, mia madre che piange chiusa in camera il giorno del mio compleanno, i continui riferimenti a Francesco, così è stato battezzato in sala parto da una suora che aveva assistito al parto, anche una certa pressante propensione a essere estremamente protettivi nei miei confronti, credo non sia un caso che sono andato alla scuola materna un anno dopo dei miei coetanei, mi hanno sempre detto per una scelta mia, come se a tre anni fossi in grado di prendere decisioni del genere, tutto ha contribuito a farmi sentire una assenza che, penso, già in maniera inconscia avrò comunque sentito, dopo aver passato otto mesi dentro il ventre di mia madre con lui, con Francesco, dopo aver instaurato con lui quel rapporto telepatico che notoriamente i gemelli hanno, qualcosa di istintivo, quasi sovrannaturale, comunque non verbale, ecco che di colpo c’ero solo io. Ci ho pensato a lungo, ne ho anche scritto, più volte, andando a provare a azzardare parallelismi con altri scrittori gemelli, penso a John Barth, che ha raccontato più volte come dietro il suo massimalismo ci sia il suo aver praticato un linguaggio unico con la sua sorella, o Philip K. Dick, che come me ha perso la gemella durante il parto, una tomba col suo nome prontamente allestita, salvo poi rimanere vuota fino al giorno della sua morte, cinquantadue anni dopo, cinquantadue, caspita, esattamente la mia età oggi. Ho a lungo pensato alla mia elaborazione del lutto, quella istintiva fatta da piccolo, quella fatta razionalmente in età adulta. Solo che, vedendo quella puntata di New Amsterdam, ho realizzato che non ho mai concentrato l’attenzione sui miei genitori, su mia madre e mio padre che, il giorno in cui sono nato, hanno perso un figlio. Ci ho pensato, intendiamoci, non potevo non vedere mia madre addolorata, in lacrime, quando si festeggiava il mio compleanno, e al tempo stesso mio padre fingere una serenità che gli è sempre stata propria, l’ho visto piangere solo il giorno in cui è morta mia nonna Emma, in tutta la sua vita, bravo come pochi a tenere nascoste le emozioni. Ci ho pensato ma non mi ci sono mai concentrato troppo. Non credo siano stati seguire da degli specialisti, erano gli anni Sessanta, non scherziamo, nessun tipo di attenzioni come quelle messe in campo nei telefilm americani. Non so come siano riusciti a elaborare un lutto, perché la perdita di un figlio credo sia un dolore impensabile, cui si sopravvive, si sopravvive sempre al dolore, ma che immagino lasci cicatrici profonde, anche la morte di un figlio che non si ha avuto modo di conoscere, come il mio fratello gemello Francesco.

La morte e l’elaborazione del lutto. Sono due anni che tutti i giorni si parla di morte, praticamente ovunque. ZeroCalcare, durante i suoi Rebibbia Quarantine, lungo il primo lock down, aveva ben descritto l’ansia con cui tutti attendevamo l’arrivo alle 18 del tizio della protezione civile che, durante la conferenza stampa, leggeva i dati sulle morti da Covid, scenetta che col tempo è uscita dalla nostra quotidianità, comunque sostituita dall’uscita, suppergiù alla stessa ora, dei dati su siti e quotidiani online, e nel descriverla metteva in scena personaggi lugubri, la maschera col becco lungo, le vesti nere, qualcosa che col tempo è diventata parte del nostro immaginario, almeno metaforicamente. Sono due anni che ogni giorno assistiamo alla conta dei morti. Due anni. La morte è parte della vita, non è certo una novità, ne fa parte e in certe parti del mondo arriva con una frequenza più alta rispetto che da noi, in occidente, fatto che forse contribuisce a guardarci con una sorta di disincanto, o forse dovrei dire serena rassegnazione, ma il parlare costantemente di morte non faceva da lungo tempo parte della nostra quotidianità, un lutto era qualcosa che comunque tenevamo a distanza, o cercavamo di tenere a distanza, fatto che in qualche modo salvaguardava anche la nostra sanità mentale. Abituati a un certo benessere, un tenore di vita decisamente più agiato, la sanità che ha fatto progressi impensabili, l’età media che dal dopoguerra si è alzata vertiginosamente, ci siamo disabituati a guardare alla morte come parte dell’esistenza, in qualche modo come suo ultimo atto, e quando di colpo ci è arrivata di fronte, o ci hanno raccontato che ci stava di fronte, siamo rimasti basiti, immobilizzati, come certe volpi che capita a volte di incrociare di notte, nelle strade buie di campagna, lì paralizzate di fronte ai fanali della nostra auto. Quello che nell’anomalia di questa nuova condizione spiazza, ulteriormente, è come, a due anni di distanza, ancora non si sia fatta l’abitudine a sentire tutti i giorni lo sciorinare di quei numeri, ogni numero una vita che se ne è andata, poco conta sul come e il perché, queste sono aberrazioni che lascio a chi è interessato a discutere di gestione della pandemia. Come un’abitudine che però non si è fatta meccanica, penso ai grani del rosario che accompagnano le Ave Maria, per dire, ogni giorno leggo quei dati, e ogni giorno provo un senso di dolore, una fitta al petto, perché la rappresentazione plastica della morte ha ancora scavallato il pendio che porta verso l’intorbidimento dei sensi, la pandemia mi ha regalato forse l’apatia, non è certo riuscito a sfrattare l’empatia. Aveva ragione il Luca Carboni che in Una grande festa, scritta con i miei amici Federica Camba e Daniele Coro, cantava “Parlare della sfiga proprio non si può, e la morte no, non è mai stata un argomento pop” andando poi a aggiungere “Rabbia e protesta non sono proprio al top, il dolore e l’ingiustizia no, non brillano neanche un po’”, lo so, ma credo che a volte sarebbe il caso di provare a fare i conti col fatto che questa non è più da tempo un’emergenza, e che la variante più impattante nelle nostre vite non è né la Delta né l’Omicron, quanto piuttosto questa nuova condizione che tutti ci siamo ormai ritrovati a vivere