L’unico che non ha i Brividi

Durante il recente Festival di Sanremo ho sbolognato con sufficienza, se non con palese disprezzo, il brano che poi ha vinto questa settantaduesima edizione


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Torno a parlare di unicità. Senza stare a tirare in ballo il monologo di Drusilla Foer a Sanremo, discorso perfetto per quel tipo di uditorio, va detto, ma andando in altra direzione, con un’altra cifra. Se ne è parlato più volte, da queste parti, del come non essere parte del “tutti”, non necessariamente distinguendosi, magari semplicemente essendo se stessi, lungi dall’idea di omologarsi, di voler appartenere alla maggioranza, più o meno caciarona, in fondo sia esattamente l’attestazione, la certificazione, la cristallizzazione del nostro essere unici, non tanto il nostro essere diversi dagli altri, quanto l’essere tutti uguali da parte loro. Esatto, questo il preciso inciso: non sei tu a essere diverso da loro, sono loro a essere tutti uguali. Il che, è vero, sottintende un certo essere o ritenersi speciali, dando quindi a quell’unicità un valore di merito, più che un valore in sé, ma la celebrazione di uno stare altrove meriterà pur una qualche forzatura della narrazione, non si può sempre pretendere una linearità, specie da chi balla da solo.

Essere fuori dal coro, pur presentando una serie di criticità, l’isolamento, il dover trovare costantemente nuove risorse, l’aver contro correnti assai più potenti di te, presenta ovviamente una serie di indubbi vantaggi, negarlo sarebbe da ipocriti. La pecora nera di nota in mezzo al gregge di pecore bianche, a farla semplice. Essere più visibili non equivale certo a essere più credibili, quello è un cammino che va intrapreso collateraleìmente, fatico e comunque costante, ma resta che avere un faro puntato su, a prescindere da quel che si andrà a fare, consente la libertà di spostare, con cautela e dosando bene gli ingredienti, l’attenzione su quel che si vuole rendere evidente, parto dal presupposto che il discorso sia scivolato giocoforza sul mio mestiere, sono io a parlare, qui, ovvio che stessi parlando a suocera perché nuora intendesse. Traduco, visto che ho scoperto le carte, tante rotture di palle, ostacoli, opportunità negate, il nome in talmente tante liste nere da rischiare di diventare inflazionato, e per contro, un’autostrada deserta da percorrere anche andando a zig-zag, tanto non c’è traffico, non ci sono autovelox, niente e nessuno, il che si traduce nel poter andare a destra o sinistra, o stare nel mezzo, parlo di corsie, affrontando temi mainstream, occupandomi di musica di qualità, anche se dentro l’alveo delle nicchie, e sempre e comunque farlo esibendo uno stile personale, inusuale, anche eccentrico, tutti fattori per altro che contribuiscono ulteriormente a rendere il tuo essere pecora nera in mezzo al gregge di pecore bianche ancor più palese, sempre più nero, tu, sempre più bianche, loro. Uno di quei serpenti che si mangiano la coda in certe immagini esoteriche che arredano i nostri palazzi d’epoca, spesso dando vita al simbolo dell’infinito, vai a capire da che parte lo si debba guardare correttamente.

Unico è bello, avrei chiosato fossimo almeno una cinquantina d’anni fa, magari ci avrei associato un qualche gesto, che so?, qualcosa da fare unendo dita delle mani, simbolismi vari, unico è bello. Io sono unico, aggiungerei non finissi dritto dritto nell’ovvio. Siamo tutti unici, è quello l’inevitabile punto di partenza. Sono unico e nello specifico sono anche l’unico, nel senso che circoscrivendo il campo d’azione all’ambito del mio lavoro, la critica musicale applicata al giornalismo musicale, sono l’unico che durante il recente Festival della Canzone Italiana di Sanremo ha sbolognato con sufficienza, se non con palese disprezzo il brano che poi ha vinto questa settantaduesima edizione. Nelle pagelle, Sanremo non lo si può prendere troppo sul serio, è un circo, ovvio che chi scrive di musica scriva poi pagelle con tanto di voti, come fossimo a scuola, nelle pagelle, quindi, sto al gioco, ho sempre dato voti piuttosto bassi, specificando giusto nell’ultima tornata che in realtà il voto basso era dovuto prevalentemente al contributo, compositivo e soprattutto interpretativo di Mahmood, la cui vocalità così caratteristica e riconoscibile, trovo fastidiosa come una ragade anale, ritenendo Blanco un talento, talento applicato a musica che non è rivolta a me, non mi interessa e penso non lascerà traccia dietro di sé, ma comunque un talento ancora non usurato. Ho calcato la mano, le pagelle che scrivo, tornando al discorso sui vantaggi di poter essere stilosi e eccentrici grazie all’essere pecora nere, sono fortemente polarizzate, dei nove, dei dieci, ma anche dei due, dei tre, ben sapendo che avrebbero vinto, l’ho scritto sin dalla prima pagella e che quindi io sarei poi passato per quello che non ci azzecca. Perché, questa la triste verità, se dici qualcosa che suona come “vinceranno sicuramente il Festival, ma sono qualitativamente pessimi”, uso il dono della sintesi, la gente leggerà “non vinceranno, sono pessimi”, vagli poi a spiegare che avevi detto non una, ma addirittura due verità, che avrebbero vinto e che sono pessimi. Ci ho azzeccato, e non era affatto difficile, ma resto comunque quello che è andato contro la stragrande maggioranza di chi ha seguito il Festival, tutti i colleghi a fare grandi inchini, il pubblico da casa a dare televoti, una sorta di unanimità conclamata. Qualcuno a rinfacciarmi la vittoria dei Maneskin arriva ancora oggi, io a dare loro voti bassissimi un anno fa. Ma io non sono un bookmaker, e anche quando azzardo previsioni, coi Maneskin come con Mahmood e Blanco l’ho fatto, nel primo caso non azzeccandoci, nel secondo sì, lo faccio comunque consapevole di non andare mai di pari passo col pensiero unico dominante, quindi se fosse per me Mahmood e Blanco sarebbero arrivati a metà classifica, non certo primi, idem i Maneskin. Li ho maltrattati perché trovo il modo di scrivere e di cantare di Mahmood fastidiosissimo, trovo la canzone una canzone molto classica, alla faccia della contemporaneità, con la contemporaneità tutta appoggiata proprio sulle parti melodiche e interpretative dei due cantanti, ognuno a fare il suo, senza mai scambiarsi i ruoli, e senza mai a ben vedere ripetersi, almeno nelle strofe e nello special. Ripeto, non trovo la canzone rilevante, e resto della mia idea, come per Fidel Castro, sarà la storia a giudicarmi, e immagino che quando la storia lo farà di Mahmood e Blanco ci saremo scordati da un pezzo.

Ma pensando a Brividi è ben altro il motivo per cui mi sono sentito in dovere di partire da questo elogio dell’unicità. Se come chi scrive, che poi sarei io, vi è capitato di passare dai social nei giorni seguenti la fine del Festival, due sono le cose che avrete notato, senza ombra di dubbio, una decisamente più positiva dell’altra. La prima è che, come per magia, di colpo non si parla quasi più di Covid. Se ne fa cenno, ma proprio poco, come se di colpo i No Vax fossero spariti all’orizzonte, per settimane erano stati praticamente solo loro a parlarne, incazzati e facinorosi, e di conseguenza non ci fossero più neanche quelli che li perculano o danno a loro le colpe di qualsiasi problema esistente al mondo, come se di colpo il Covid fosse in effetti svanito, e sia la volta buona. Poco conta che il numero di morti continui a essere piuttosto elevato, sempre tra i trecento e i quattrocento giornalieri, le centocinquantamila vittime superate in quella agghiacciante routine che vuole noi sempre meno colpiti dal constatare che questa strage non esattamente silenziosa continua, certo, un occhio alle diciotto sui siti lo buttiamo, per sapere, ma senza troppo coinvolgimento emotivo, forse anche senza coinvolgimento razionale. La seconda è che, qui la magia è assolutamente assente, tutti, ma proprio tutti tutti, artisti affermati, in cerca di fama, semplici hobbisti, passanti, tutti ma proprio tutti hanno fatto un video nel quale interpretano, in genere al pianoforte, Brividi, andando a darne una lettura che, se possibile, attesta proprio quanto da me detto, Brividi è una canzone in sé piuttosto classica, con un abuso di settime maggiore e di accordi in minore, i brividi mica li si può evocare solo con le parole, per altro incomprensibili se cantate da Mahmood e in parte Blanco, anche troppo comprensibili sui video presenti sui social.

Una canzone assolutamente media, che poggia tutto sull’interpretazione, e quindi è su quella che ci si deve confrontare, come del resto ho fatto io nelle mie pagelle, talmente coverizzata da aver già abbondantemente saturato l’aria, al punto da rendere l’atmosfera asfittica. Stavolta, poi, neanche l’illusione che sia qualcosa di momentaneo, la cavalcata imperiosa verso Eurovision è già scritta, mica si può tornare a organizzare qualcosa senza sovraccaricarlo di aspettative e di epicità, ma che, scherziamo? Per i prossimi due mesi sarà Brividi a tenerci compagnia, immagino senza ulteriori cover, le hanno già fatte tutti, con buona pace della musica che gira intorno, con buona pace mia, che continuo a ritenerla una canzone mediocre e con buona pace di chi invece avrebbe rischiato di passare da Torino con un adeguato livello di ironia (oltre che di hype), con le mani, con le gambe, con il culo, ciao ciao.l