Le conseguenze dell’umore, perché Jingle Bells dei tre virologi è il Male

Ci sono momenti, e questo è uno di quei momenti, nei quali si deve essere grevi, pesanti, granitici, monolitici, e si deve rifuggire la leggerezza


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Funziona così. Mi metto davanti al PC, perché tranne rari casi, tipo quando sono al mare, inteso come proprio in spiaggia, o quando a volte sono in giro e succede qualcosa di davvero impellente da raccontare, muore un nome fondamentale, più che altro, mi metto quindi davanti al PC e apro un nuovo documento word. Non uso Office, per scrivere, ma Libre, anche se questo immagino sia un dettaglio irrilevante, giusto buono per indicare sfumature antagoniste del mio profilo. Una volta aperto il foglio word, chiamiamolo così, sempre impostato su Liberation Serif, imposto il carattere sulla cifra quindici, con lo zoom al 100%, così che io possa leggere bene, senza sforzarmi, ma che al tempo stesso sia piuttosto evidente che porzione di pagina ho già occupato con quello che ho scritto, strada facendo. Quando poi sarò andato abbastanza avanti, seppur ormai io sia in grado di capire quanto ho scritto così, a occhio, arriverà in mio soccorso il numero di parole e caratteri, indicato sul foglio, in basso a sinistra.

A questo punto, in teoria, non mi resta che iniziare a scrivere. Questo è il mio mestiere, preparare la tavola, mettiamola così, è, immagino, il corrispettivo di chi, arrivato in un qualche ufficio, predisponga sulla scrivania faldoni e affini, così che poi possa svolgere agevolmente i suoi compiti senza difficoltà.

Negli ultimi anni, da che ho cambiato casa, la mia scrivania era dentro il nostro studio, una stanza studiata appunto per fungere da ufficio. Nella stanza si trovano due scrivanie, una per me e una per mia moglie, un comò, dove si trovano documenti, libri, materiale per la scuola e un po’ di quelle stranezze che mia moglie mi imputa sempre come vezzo, nello specifico le squadre di Subbuteo di quando ero giovanissimo, quelle sopravvissute all’incedere del tempo e all’incuria di mio nipote Davide, ora usate molto saltuariamente da mio figlio Francesco, poste in una busta di carta che contiene anche il campo da gioco, verde, in panno, piegato con precisione, le porte, a loro volta riposte dentro una scatolina di cartone, e le palline. C’è poi una scatola da vini riadattata a contenitore di CD, forse più che da vini da superalcolici, dove c’è la mia scorta dei CD delle Bikinirama, la fake band femminile che ha inciso il mio disco per Universal nel 2016, un microscopio, anch’esso eredità della mia gioventù, e qualche vocabolario. Poi c’è un grande armadio, che contiene buona parte della mia collezione di CD, qualche migliaio, riposti in un ordine che solo io, ovviamente, so riconoscere, oltre che qualche scatolone di quelli che si comprano dai cinesi e si montano poi in casa, dentro i quali si trovano vestiti lasciati lì per un utilizzo in un futuro prossimo, roba per quando i gemelli avranno qualche anno in più, cose così. Ci sono anche quattro cassetti, sotto l’armadio, dove si trovano tutti i documenti di casa, le bollette, quelli notarili, i contratti delle varie utenze, i carteggi con l’amministratore di condominio, i miei tanti contratti editoriali. In altri ci sono altri materiali scolastici, scorte di matite colorate, di penne, di quadernoni, roba così, con quattro figli non è mai abbastanza questa scorta. Le scatole dei vari device di casa, qualche cavo, qualche presa strana, le penne stilografiche ricevute a cresime e prime comunioni, una sorta di dispensa di facezie. Nei vari scaffali dell’armadio tutta la collezione di miei pupetti, supereroi, ufolotti, personaggi di qualche cartoon, ricordi di viaggio in giro per il mondo, gadget di qualche disco uscito quando ancora i dischi uscivano, la mia collezione di occhiali da sole buffi, quelli da mosca rosa, quelli arcobaleno, le spillette da attaccare ai giubbotti di jeans. Questo doveva essere il mi studio, quasi tutto quel che si trova in questa stanza rimanda a me. Ci sono i disegni che mi hanno fatto i miei figli, sulla scrivania, oltre che qualche porta matite particolari, uno a forma di boccale con su attaccata una chitarra elettrica, preso all’Hard Rock Café di Bucarest, uno a forma di donuts glassato e morso, uno con scritto su una frase amorevole rivolta al papà, regalatami da Lucia, mia figlia maggiore, ci sono un po’ di foto, un manichino, viola, tutta roba mia. Come è roba mia quella che si trova in parte delle mensole, il premio Mr Blogger, vinto a Sanremo nel 2017, la medaglia in ceramica del Circolo delle Dodici Lune, la clessidra ricordo dell’ultimo album di Red Canzian, un orologio di design che Marina mi ha regalato quando ancora eravamo ragazzi, il mio ukulele, la chitarra si trova a fianco a una delle due porte dello studio, il quadro fatto con la locandina del film Vasco Non Stop Live 018-019, di cui sono autore. Questo doveva essere il mio studio, e qui ho scritto  per un po’, almeno finché la pandemia non ha cambiato la nostra routine familiare. Marina è entrata in smart working, marzo 2020, e necessitando di un posto che somigliasse in qualche modo a un ufficio, buona connessione, il modem è sulla mia scrivania, silenzio, lo studio è chiuso e isolato dal resto della casa, la possibilità di fare infinite call senza che qualcuno in pantaloni corti e t-shirt passasse sullo sfondo, anche involontariamente, io sono tornato a lavorare in sala, come era successo per buona parte della mia vita professionale, in fondo per scrivere mi basta un tavolo su cui appoggiare il PC, no?

Ora, volessi sentirmi piccato per quanto detto, qualcosa che ho semplicemente riportato, mettendo su carta digitale una vulgata piuttosto diffusa, potrei star qui a dilungarmi su come l’atto di scrivere non sia che l’ultima parte di un lavoro molto più lungo e complesso che arriva da ben lontano, da quando uno decide di scrivere, inizia a ragionare su che tema affrontare, lo studia, lo approfondisce, cerca di trovare una propria maniera di affrontare il tema, di svilupparlo, se necessario incontra qualcuno, lo intervista, salvo poi non riportare virgolettati, parlo per me, odio le interviste domanda e risposta, poi sì, si mette seduto e scrive, ma solo poi, per non dire di tutto lo studio, la preparazione, il lavoro che è stato fatto negli anni precedenti, se scrivo un testo di diecimila battute in pochi minuti è perché ho tanto lavorato prima, so come si fa, sono veloce nel farlo, procedo per meccanismi rodati e oliati nel tempo, non è che uno può quantificare il mio lavoro solo nel tempo in cui, in effetti, scrivo. I miei caporedattori, quando mi è capitato di averne a pochi passi, o quando ero ancora abbastanza debole da dover dimostrare qualcosa a qualcuno, loro a chiedermi un pezzo, anche all’ultimo minuto, e io a consegnarlo, stando però ben attento da non consegnarlo troppo in fretta, sia mai che si pensasse che ero frettoloso o, peggio, sciatto, i miei caporedattori hanno sempre lamentato il mio essere troppo veloce, come piccati dal mio non dedicare lo stesso tempo degli altri a scrivere, qualcuno anche giorni e giorni su un pezzo, io spesso a buttare giù i miei testi al fotofinish, hai voglia io a spiegare loro che quello che conta è il testo, non come io sia riuscito a tirarlo fuori. Parafrasando Conrad, il mio caporedattore non sa che anche mentre guardo dalla finestra sto lavorando, come del resto anche mia moglie, che infatti non si è fatta scrupolo di sbattermi fuori dallo studio, relegandomi in sala, forte del fatto che lì di finestre ce ne sono addirittura tre, pure porte finestre.

Quindi, fatta la tara che quando mi trovo davanti al foglio word già impostato sul carattere 15 di Liberation Serif io abbia già fatto parte del lavoro, non solo il bagaglio di cultura e esperienza maturato nel corso della vita, parlo anche della parte teorica applicata al pezzo, scegliere di cosa scrivere, come scriverne e studiare e approfondire la faccenda, è quando comincio a picchiettare sui tasti del mio PC, tecnicamente, che comincia il mio lavoro vero e proprio, quello che anche mia suocera, di passaggio da quelle parti, o i miei figli, potrebbero identificare come “Michele/papà sta lavorando”, salvo poi sbattersene allegramente le palle e, se serve qualcosa, chiedermelo senza indugiare né aspettare che io abbia finito di battere sui tasti, interrompendo una frase che, con buona probabilità, dovrò poi cancellare, persa dentro il mio flusso di scrittura lasciato lì, coitus interruptus.

E a questo punto funziona così. Inizio a scrivere, partendo da un incipit che ho già bello chiaro in mente. Per dire, quando ho iniziato questo pezzo sapevo già almeno le prime tre, quattro frasi. Magari non parola per parola, tendo a dilungarmi in relative e perifrasi, si sarà notato, ma comunque in buona parte vicine a come le scriverò. Le scrivo e già so, sempre a grandi linee, da che parte porterò il discorso, che tipo di agganci, di deviazioni sul percorso principale, citazioni, le citazioni occupano sempre una parte rilevante dei miei pezzi, le tre o quattro linee principali del discorso, quelle che apparentemente non sono legate tra loro, o comunque molto distanti, sempre in apparenza, col tema centrale, quello che finisce nel titolo, nella foto di accompagnamento, e che invece, tac, miracolo, alla fine si ricongiungono come in uno di quei thriller americani alla Michael Connelly, tutto torna. Nel farlo, nello scrivere seguendo questa modalità, mi affido principalmente a un paio di trucchi del mestiere, di questo si tratta, di mestiere, tendo a creare un ritmo interno, una sorta di base su cui vado a scrivere le frasi, il flusso di cui parlavo sopra. Le frasi lunghe, lunghissime, con gli incisi, le virgole, le deviazioni, servono a creare quel mood, non è che si trovano lì per caso, e questo è il primo trucchetto. L’altro, più di contenuto che di forma, anche se ho sempre ritenuto che la forma è sostanza, e su questo ho basato buona parte della mia poetica, è quel fatto di mettermi dentro il discorso, fisicamente, e di metterci anche voi, che leggete, tirandovi per la giacchetta nello spiegarvi cosa faccio, perché lo faccio, spiegarvi anche cosa andrete a fare voi, spesso compromettendo in apparenza, sempre l’apparenza, diamine, quel che è l’equilibrio del mio scrivere, voi cangianti, un po’ a fare il tifo per me, un po’ a odiarmi con tutte le forze. Questo, l’entrare fisicamente nella frase, nelle frasi, contribuisce non poco a caratterizzare l’andamento della lettura, perché in qualche modo coinvolge voi, quindi vi spinge a fermarvi, magari a tornare indietro, sempre e comunque a prendere una posizione, parteggiare, un trucco un po’ più raffinato, seppur non originalissimo, cifra distinguibile quantomeno nell’alveo di chi scrive di musica in Italia.

In realtà, e non credo che quanto sto per scrivere infici nulla di quanto detto prima, anzi, ci sono delle variabili che spesso influenzano la mia scrittura, prima in fase di teorizzazione, più spesso in fase di composizione vera e propria. Una è che magari, scrivendo, mi salgono su, come succede con qualcosa che si è digerito a fatica, esattamente, delle idee o delle suggestioni cui inizialmente non avevo pensato, e questo non può che cambiare gli equilibri del discorso, le dinamiche, magari sovvertendo del tutto le conclusioni cui volevo arrivare, scrivere è come entrare in una sorta di trance, a volte, e si finisce per scoprire cose che neanche si sapeva di conoscere o di ricordare, soprattutto di ricordare, lo dice uno che a freddo non ricorda manco cosa ha mangiato a pranzo, non fosse così scrivere sarebbe una noia mortale, e immagino che anche leggere lo sarebbe, a me, per dire, capita spesso di annoiarmi leggendo i miei colleghi, proprio perché tutto è molto telefonato, so già cosa stanno per dire e anche come lo stanno per dire, due palle così. Un’altra, e qui arriviamo al titolo di questo pezzo, è che a influenzare la mia scrittura, sempre nelle sue differenti fasi, di teorizzazione e di composizione, può essere, anzi, senz’altro è, il mio umore. Se sono incazzato, è evidente, sarò più violento, e lo sarò sia nei contenuti che nella forma, sempre lì, forma è sostanza, prenderò di mira qualcuno, qualcuno che comunque meriti le mie cure, e proverò a farlo a pezzi, so che nello scrivere questo mi sto ponendo sotto una cattiva luce, ma conto sul fatto che sappiate cogliere le sfumature che sto dando a questo discorso, come dire?, di laboratorio. Se sono malinconico, per contro, diventerò introspettivo, quasi romantico, spingerò sulle emozioni, sui ricordi di infanzia, sul legame con la mia terra d’origine e la saudade che il parlarne porta sempre con sé, finendo, è probabile, col tirare fuori un testo saturo di empatia, zero ironia, figuriamoci il sarcasmo o il cinismo che, invece, si trova in altre occasioni, spesso. Certo, è lavoro, non è che io utilizzi esattamente la scrittura come psicoanalisi, né come catarsi, ma l’umore è lì, pronto a intervenire e a incidere, sarà semmai mia premura, poi, una volta finito, se ritengo di aver calcato troppo in una determinata direzione, rivedere le cose, aggiustarle, al limite riscriverle.

No, non è vero, non riscrivo quasi mai quel che ho buttato giù. Piuttosto cestino. Ma riscrivere no, perché sarebbe come dire che ho mentito, mentre io, seppur affatto affezionato al reale, se ne è parlato a lungo, anche recentemente, sono sempre dell’idea che non si debba mai mentire, anche quando si finge, perché la scrittura è sempre finzione.

Veniamo a noi. A noi adesso.

Oggi, quindi, avevo deciso di scrivere un testo che partisse da quel che faccio abitualmente, scrivere, cioè, e scrivere a partire da un ragionamento, una teoria, e a seguire uno sviluppo, la composizione, il flusso, io che entro in scena, voi che venite invitati a partecipare. Così è stato, ma non era questo, non lo è mai, il tema cui volevo arrivare. Se un viaggio parte direttamente dalla meta, converrete, è un viaggio da fermi, uno stato in luogo al posto di un moto a luogo, al limite un rigirarsi su se stessi.

Sul tavolo, oggi, il menu del giorno, quello che non trova spazio nella carta e viene recitato a memoria dal cameriere, in genere non menzionando i prezzi. Quindi ecco la variante Omicron che imperversa, i numeri che si raddoppiano di giorno in giorno, l’Europa e il resto del mondo che arranca, noi un po’ meno ma non abbastanza quanto speravamo, i vaccini per i più piccoli, le terze dosi che non procedono col passo che serverebbe, le minacce dei nuovi lock down, la filiera dello spettacolo a rischio di una ennesima sepolcrale chiusura, le quarantene, i tamponi, il video dei tre virologi, Pregliasco, Bassetti e Crisanti, che intona una versione pro-vax di Jingle Bells. Ecco, credo che potrei partire, o meglio chiudere, da qui. Perché se una cosa era difficile da fare, credo, a parte il continuare a dare informazioni frammentarie e contraddittorie, un giorno a dire che i tamponi sono fondamentali, il giorno dopo a sminuirne la veridicità, i vaccini che coprono sicuramente, poi no, non coprono ma colpiscano molto meno, basta una dose, due dosi, tre dosi, per non dire del Green Pass, ecco, se una cosa era difficile da fare, a parte continuare a dare informazioni frammentarie e contraddittorie, era offrire ai No Vax, una minoranza, ricordiamolo, ma come certe zanzare capace di rompere il cazzo come nessun altro essere vivente al mondo, un assist per alzare ulteriormente la voce, colpire nel solo pezzettino di pelle rimasto scoperto dall’Autan, ronzare intorno all’orecchio tenendoti sveglio, l’inutilità elevata all’ennesima potenza. Perché, diciamolo una volta per tutte, la leggerezza è decisamente uno dei mali dei nostri tempi. Colpa di Calvino, certo, con quel cazzo di lezioni americane, si sarebbe dovuto occupare di quello David Foster Wallace, altro che di stigmatizzare l’ironia postmoderna, la leggerezza. Ci hanno fatto credere che con la scusa della leggerezza avremmo potuto vivere un’esistenza davvero in grado di schivare tutta la cupezza che ci circonda, surfare sull’abisso, la profondità in fondo è lì, sotto la superficie, sia che si tratti del bagnasciuga che del punto più distante dalla costa di un oceano, vedi che da lì a rincorrere l’evasione è un attimo. Ci sono momenti, e questo è uno di quei momenti, nei quali si deve essere grevi, pesanti, granitici, monolitici, e si deve rifuggire la leggerezza non tanto per lasciarsi andare alla disperazione, aveva sì ragione Monicelli a dire che la speranza è una trappola, ma la disperazione è comunque un lanciarsi disarmati contro il predatore di turno, quanto piuttosto per evitare che lo sconforto e il disagio abbiano il sopravvento, e sfido io chi non avrà provato sconforto e disagio a vedere tre medici, tre personaggi divenuti famosi, in teoria, per i propri studi, il proprio mestiere, il proprio ruolo, mettersi in ridicolo, così, senza un motivo supportato dalla logica, dal buon senso, anche dal cattivo senso. Vorrei, perché credo nella scienza e ritengo che non crederci sia una ipotesi impercorribile, frutto di ignoranza e arroganza, un mix mortale, che chi lavora in quel campo facesse il suo, non finendo per rincorrere le luci della ribalta, niente partite del cuore, ospitate in programmi nei quali si parla d’altro, io sarei addirittura per non invitarli proprio più in televisione, e vorrei, soprattutto, che si evitassero queste ridicole e imbarazzanti cadute di stile, per altro neanche supportate da capacità canore che almeno giustificherebbero un video così sciatto, roba da recita da oratorio, ma di quelle particolarmente scadenti. Certo, almeno in questo i tre virologi in questione, coinvolti dai conduttori di Un giorno da pecora, verso i quali indirizzo tutto il mio umano e disumano disprezzo, in questa baracconata, si sono dimostrati alquanto contemporanei, hanno capito che per finire viralizzati ovunque e finirci con una canzone non era affatto necessario avere talento o competenze, né essere supportati da uno straccio di brano di qualità, parlo della loro versione ovviamente, non dell’ever green cui si sono ispirati, bastava mettersi per qualche secondo davanti a un microfono e cantare stonati parole senza una precisa metrica e anche poco dotate di un qualsiasi senso del ritmo, tanto poi il popolo bue ci avrebbe messo pochi istanti a condividerlo, e condividerlo e condividerlo. Del resto, se fanno dischi personaggi come Elettra Lamborghini perché mai non dovrebbe cantare Pregliasco, certo, gli manca giusto un culo leopardato, ma per il resto direi che sono esattamente sulla stessa lunghezza d’onda.