Monica Vitti, i novant’anni della donna più moderna (e divertente) del cinema italiano

Oggi è il compleanno della Vitti, icona amatissima lontana dalle scene da vent’anni. Attrice dai tanti registri, ha dato vita a una femminilità contemporanea, oltre gli stereotipi. Fragile e divertente, seducente e malinconica, introversa e spiritosa

Monica Vitti

INTERAZIONI: 3035

Tu mi cominci facendo l’attrice comica, mi continui facendo l’attrice impegnata, mi continui ancora facendo la Monroe a teatro, mi finisci per fare 007Monica mia, ma tu, chi sei?!“. Questo si chiede, scherzosamente ma fino a un certo punto, Lelio Luttazzi, in una puntata del 1966 del varietà televisivo Studio Uno, cui prende parte come ospite Monica Vitti. Nello specifico, il riferimento a 007 riguardava Modesty Blaise di Joseph Losey, escursione nel cinema inglese che la Vitti girò quell’anno, un film di stravagante gusto pop in cui incarnava una invincibile James Bond in gonnella.

Più in generale, è da quasi sessant’anni che ci si domanda incessantemente che tipo di donna sia Monica Vitti, l’una nessuna e centomila del cinema italiano, di cui il 3 novembre si festeggiano i novant’anni – è nata a Roma nel 1931 –, anche se ormai da molto tempo è lontana dalle scene e dalla vita pubblica per una malattia degenerativa – “Ci capiamo con gli occhi”, disse con pudore esattamente un anno fa il marito Roberto Russo in una intervista al Corriere della Sera.

Monica Vitti, una nessuna e centomila

Monica Vitti nasce come Maria Luisa Ceciarelli – “che è un po’ burino”, commentava autoironica – e assume lo pseudonimo che l’ha resa celebre mettendo insieme il nome scovato in un romanzo con la metà del cognome della madre, Vittiglia. Da bambina vive in Sicilia, ne parlerà nel libro autobiografico del 1993 Sette Sottane: “Da piccola mi chiamavano Sette Sottane, perché in Sicilia, dove vivevamo noi, non c’era il riscaldamento d’inverno e mia madre mi copriva di maglie, magliette, sottanine, vestitini e grembiulini. […] Quando veniva qualcuno a trovarci, dicevo ‘Vede, io ho sette sottane: una, due, tre, quattro…’, mia madre non mi faceva mai arrivare alla settima perché diceva che era una vergogna tirarsi su le gonnelline”.

Modesty Blaise: Monica “pop diva”

La formazione è di scuola, all’Accademia d’Arte drammatica, anche se la madre detestava l’idea d’una figlia attrice: “Le tavole del palcoscenico corrodono anima e corpo. Dovrai passare sul mio cadavere”. Studia con maestri come Sergio Tofano, accanto ai quali costruisce il suo mestiere puntiglioso e rigoroso. Nonostante tutto, però è rimasta sempre un’eccezione eterodossa, musa della proverbiale incomunicabilità nella quadrilogia di Michelangelo Antonioni ma anche “fatalona comica”, come la definì Mario Monicelli, nella commedia all’italiana di cui è stata l’unica colonnella accanto a tutti maschi, Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi. Ed è anche fisicamente eterodossa Monica Vitti, appartenente a una generazione differente da quella delle maggiorate Lollobrigida Pampanini Mangano Loren, che negli anni Cinquanta dovevano trasmettere l’immagine florida di un paese in ripresa e in salute dopo gli stenti bellici e postbellici.

Più moderna di loro la Vitti, con la sua figura filiforme, i capelli biondi che rimandano subito a una realtà più cosmopolita sintonizzata sulle sirene della rapinosità della società dei consumi che col boom economico aveva baciato anche il Belpaese, e dove quindi erano necessari volti e attrici che potessero incarnarlo. Nessuno poteva farlo anche somaticamente meglio di Monica Vitti, il naso importante – ma capace infallibilmente di trovare il profilo giusto quando viene inquadrata –, e il marchio di fabbrica di quella voce nasale, roca – le amiche della mamma si chiedevano preoccupate se la ragazzina a 12 anni già fumasse – che la rendeva immediatamente altra, nuova, spiazzante.

Il timbro nei primi anni della carriera l’aveva fatta penare, prima col medico dell’Accademia che sentenziò che “con quella voce non diventerà mai un’attrice”, poi perché, quando passò al doppiaggio, le toccavano solo prostitute, emarginate, insomma donne perdute consumate dalla vita. Persino l’incontro con Michelangelo Antonioni avviene così, scelta per dare la voce alla benzinaia Dorian Gray ne Il Grido (1957): “Lei ha una bella nuca, potrebbe fare del cinema” dice lui. “Ho anche una faccia, o mi vuole inquadrare solo di spalle?”, risponde lei.

Un’attrice moderna tra dramma e commedia

A pensarci bene, la domanda di Luttazzi da cui siamo partiti è mal posta. Il punto non è capire se Monica Vitti sia un’attrice drammatica prestata al comico o, al contrario, una commediante nata ingabbiata in austeri classici teatrali e nel cinema d’autore di Antonioni – e ricordiamo comunque che il genere brillante cominciò a frequentarlo ben prima del cinema, almeno dal 1956, quando a teatro recitò con grande successo di pubblico e critica le Sei storie da ridere, atti unici da Feydeau, Ionesco, Roussin, accanto ad Alberto Bonucci, Bice Valori, Gianrico Tedeschi.

Il punto è, più semplicemente, che Monica Vitti è una donna (e un’attrice), moderna, capace di prendere il centro della ribalta col suo modo d’essere a tutto tondo, complesso e privo di etichette. E se resta la sensazione di qualcosa di inconciliabile in quest’attrice dall’anima duplice anzi multipla, la cosa non è da addebitare ai ruoli, ma alla sua natura di donna, cosa che lei ha sempre ammesso: «Sono fatta non solo di contraddizioni, ma di caratteri opposti. Sono una persona estremamente angosciata, triste, e nello stesso tempo allegra, trascinante, vitale. E tutto questo in modo molto estremo».

Già all’uscita dei film di Antonioni tra il 1959 e il 1964, L’Avventura, La Notte, L’Eclisse, fino ai tormenti proverbiali del “mi fanno male i capelli” di Deserto Rosso – un verso di Amelia Rosselli ribaltatosi in battuta comica sull’eccesso di seriosità di quel cinema – i critici sottolinearono immediatamente, la modernità, la natura enigmatica e non convenzionale di Monica Vitti. Bellissima senza darci troppo peso, mai bamboleggiante, mai donna oggetto, caleidoscopica e sfuggente come quei velocissimi anni Sessanta pieni di promesse, cambiamenti ma anche inattesi tormenti esistenziali. Cui la Vitti dà un volto che suona subito esatto. D’altronde, riferendosi anche alla vicenda sentimentale che la legò ad Antonioni, l’attrice disse che «gli piacqui subito, ero la personificazione fisica e psicologica di quel che aveva sempre teorizzato: l’incomunicabilità, l’alienazione. Ero il suo ideale, lo smarrimento fatto persona».

L’Avventura: Antonioni e l’infelicità borghese

Quello smarrimento, che le era proprio sin dalla più tenera età, Monica Vitti lo ha piegato al mestiere, alla volontà di trovare una maschera attraverso la quale travestirsi e liberarsi. “Narcisismo? Esibizionismo? No, macché, il contrario. Fare l’attore è proprio una scappatoia, un modo di ridurre al minimo le responsabilità della vita. Non essere te e nemmeno l’attore, ma il personaggio“. Sarà per questo che Marcello Marchesi, per rispondere alla domanda “Chi è Monica Vitti?”, diceva che “è una matta che si crede di essere Monica Vitti“.

Però, seppur in maschera, la matrice originalissima della femminilità della Vitti emerge sempre netta. E proprio la commedia rappresenta il contenitore ideale in cui mostrarla. In primo luogo perché, per far ridere, una donna deve andare contro un immaginario consolidato che la vuole o riservata e morigerata oppure fatale e intrigante. Per essere comici bisogna essere spudorati, non ci si può nascondere dietro un alone di mistero e di bellezza”, ha detto la Vitti, aggiungendo che far ridere, per una donna, è sempre molto difficile, per mantenere il pudore, senza rinunciare alla propria femminilità, senza scadere nella volgarità”.

L’invenzione della comicità al femminile

Monica Vitti, inoltre, riesce a essere comica senza dover ricorrere all’espediente dell’imbruttirsi. Resta sé stessa, indiscutibilmente bella, e insieme spiritosissima. Forse l’unica donna capace di far ridere un uomo ed eccitarlo allo stesso tempo. E della difficoltà della sua operazione era consapevole, mancando modelli precedenti cui rifarsi: “Come attrice comica io non avrei potuto imitare nessuno. In Italia c’erano solo le bellissime e le caratteriste (Titina De Filippo, Ave Ninchi, Bice Valori). Un’attrice che fosse fisicamente normale e giovane e che sapesse recitare e far ridere, non esisteva”.

E poi c’è la specificità di certi suoi ruoli comici, a partire da La Ragazza Con La Pistola (1968) di Mario Monicelli, che si fa veicolo quasi didascalicamente di un discorso sulla femminilità che fa i conti coi rivolgimenti sociali dell’epoca. Un film manifesto, in cui Monica Vitti interpreta una siciliana sedotta e abbandonata che si mette sulle tracce del fedifrago che l’ha disonorata, inseguendolo nella spumeggiante Swinging London intorno al Sessantotto. Un’esperienza che parte come uno scontro di civiltà e si trasforma in un corso accelerato di autoeducazione che la catapulta in una cultura e un mondo rispetto ai quali si scopre sorprendentemente duttile e all’altezza.

Per assurdo, come non ha mancato di sottolineare qualche critico, erano più maschilisti i capolavori antonioniani. Sensibili sì nel cogliere il mutamento di costumi e consumi di una società borghese colta, affluente, cosmopolita, ma nei quali, stringi stringi, la donna ancora si modellava sulle esigenze del maschio, perdonando i suoi tradimenti (L’Avventura) o restando sempre un passo indietro rispetto a lui, in posizione accessoria (ne L’Eclisse è Delon il moderno, dinamico, e fatuo agente di cambio; e ne La Notte gli scrittori, i veri intellettuali, sono sempre uomini).

Il suo modo indipendente di essere donna, che per affermarsi come tale non ha nemmeno bisogno di dichiararsi esplicitamente femminista e contro, è attestato anche dalla sua vita affettiva, dalla scelta di rifiutare famiglia e maternità. “Mia madre – ha detto Monica Vitti – era una donna infelice e mi ha trasmesso questa sensazione che la famiglia fosse una costrizione penosa, una fatica massacrante e destinata all’insuccesso. Mi sono detta: io non ci casco, non avrò mai famiglia, non farò figli. L’ho deciso prestissimo“.

La fata Monica, seduzione e comicità

Monica Vitti e l’emancipazione della donna

Come nella più pura tradizione della commedia all’italiana, in cui la cornice ridanciana permetteva di far passare tematiche complesse e talvolta scabrose, anche rispetto a Monica Vitti è il dispositivo comico a permetterle di portare avanti, film dopo film, un discorso modernizzante sull’emancipazione e l’affermazione della donna, senza toni militanti o apertamente conflittuali, però innegabilmente efficaci. Come ha scritto Cristina Colet, con Monica Vitti giungono finalmente sullo schermo “donne non più chiamate a incarnare un modello materno come negli anni Cinquanta, o da femme fatale, volte a solleticare gli interessi di un pubblico quasi esclusivamente maschile, ma personaggi più realistici che si mostrano con i loro desideri e aspirazioni, in un periodo di completo stravolgimento sociale”.

Finisce il tempo della donna-oggetto – tra cui a suo modo pure quella introversa e intellettualizzata di Antonioni – e si apre con la Monica Vitti commediante una galleria di donne-soggetto che riflettono sulle proprie pulsioni, il rapporto con l’altro sesso, quale ruolo avere nel mondo. Ne è un precoce esempio, persino antecedente a La Ragazza Con La Pistola, l’episodio Fata Sabina dal film Le Fate (1966) di Luciano Salce, nel quale dopo essere sfuggita a degli spasimanti importuni è lei alla fine a mettersi all’inseguimento del “salvatore” Enrico Maria Salerno.

Sempre più spesso, soprattutto negli anni Settanta, pur senza mai giungere a forme di ribellione esplicita e programmatica, Monica Vitti interpreta donne che si interrogano e mettono alla prova il proprio desiderio, che non riesce più a restare nei binari ideologici e moralistici di quella monogamia cui tutta la società ha ormai smesso di credere. Ed ecco allora la versione ruspante del triangolo amoroso alla Jules E Jim di Dramma Della Gelosia (1970) di Ettore Scola, con l’indimenticabile Adelaide Ciafrocchi della Vitti in bilico tra il muratore comunista (e ammogliato) Mastroianni e il pizzaiolo Giancarlo Giannini. Un film molto divertente, in cui la cornice fotoromanzesca dà al racconto un tono originale, insieme buffo, stridente e popolaresco, che fa capire come certe pulsioni e asprirazioni non siano più solo roba per altoborghesi inquieti, ma appartengano a tutti.

Dramma Della Gelosia, un’anima divisa in due (uomini)

Un ritratto femminile attraversato da inquietudini nuove è quello di un film sottovalutato come Gli Ordini Sono Ordini (1972) di un regista sottovalutato come Franco Giraldi, in cui la Vitti è una casalinga in cerca di trasgressioni e, ancor più, di sperimentare sé stessa fuori la dimensione della coppia. E sono ruoli confezionati sulla sua misura quelli diretti negli anni Settanta dall’allora compagno di Monica Vitti, Carlo Di Palma, già direttore della fotografia di Antonioni (lo sarà poi anche di Woody Allen): Teresa La Ladra (1973), in cui è una donna fragile e fuori posto rispetto al suo tempo che attraversa guerra, vedovanza, una maternità non conciliata, galera e manicomio; e Qui Comincia L’Avventura (1975), dove Monica Vitti diventa una motociclista apparentemente totalmente emancipata, che per questo affascina la stiratrice Claudia Cardinale, coinvolgendola in una viaggio in Italia fino alla modernissima Milano (ma le delusioni son dietro l’angolo).

Anche un film come Amori Miei (1978) che Steno ricava dalla pièce di Iaia Fiastri, dietro la leggerezza da commedia di costume ripercorre lo stesso genere di insiddisfazione di donne che cercano una nuova collocazione, attraverso il ritratto di una moglie che trascurata dal marito Dorelli s’inventa una seconda identità e sposa un altro uomo, Enrico Maria Salerno. Relazioni in crisi si ritrovano un film dopo l’altro, ne L’Anatra All’Arancia (1975) di Luciano Salce e più indietro nel proverbiale Amore Mio Aiutami (1969), in cui Monica Vitti incontra per la prima volta un attore che le sarà congeniale, Alberto Sordi, col quale forma una coppia supposta aperta che frana sotto le propria ricerca di disinibizione, fino a che lui, pazzo di gelosia, la schiaffeggia in una sequenza esasperata che ha tutta l’ambiguità e il qualunquismo delle regie sordiane, in cui finisce, cosa che accade raramente, per incagliarsi anche la Vitti, cui andrà meglio con il successivo film diretto dall’attore romano Polvere Di Stelle (1973), affresco su guitti da avanspettacolo e anni di guerra che dà la possibilità alla Vitti di esibirsi in numeri comici cantati, come il celebre Ma ’n do’ … Haway?

In questa galleria soprattutto degli anni Settanta, passando dall’aristocrazia severa degli intellettuali antonioniani a personaggi più quotidiani, si riorganizza anche la recitazione di Monica Vitti, che diventa più estroversa e colorata. Il taciturno straniamento esistenziale dei ruoli precedenti si ribalta in atteggiamenti buffi, talvolta maldestri e impacciati, i quali pure sono spia di insicurezze, rese però in chiave comica, secondo un registro che invece di toglierle fascino vi aggiunge un’autoironia che la rende ancora più attraente e moderna.

L’ultimo film di Monica Vitti risale al 1990, Scandalo Segreto, sua unica incursione alla regia per un’altra storia di coppia borghese in crisi. In quel giro d’anni era tornata al teatro brillante (La Strana Coppia, 1987, con Franca Valeri; Prima Pagina, 1988), la tv (Ma Tu Mi Vuoi Bene, 1992; persino una edizione di Domenica In nel 1993), la scrittura, con due libri di sapore autobiografico (Sette Sottane, 1993; Il Letto È Una Rosa, 1995).

Nel 1995 giunge il meritato Leone d’Oro alla carriera alla Mostra di Venezia, un riconoscimento che, nel celebrarla come è giusto, fatalmente sembra anche dirci che i meccanismi attraverso cui la Vitti aveva dato vita a un nuovo modello di donna, la sua rivoluzione gentile che scandagliava la dimensione femminile tra fragilità e (tanta) ironia, non era più sufficiente per indagare rivolgimenti e conflitti di genere nell’avvicinarsi al fine secolo. Tutto ciò comunque non modifica la sostanza: e cioè che Monica Vitti resta la donna più moderna, divertente e affascinante della storia del cinema e dell’Italia del Novecento. E il suo sofferto, prolungato silenzio, pur privandoci del dono del suo umorismo, non ci ha spinto a dimenticarla. Al contrario, la Vitti è più presente che mai, segno di una grandezza autentica e irripetibile.