Ho Ucciso Mia Madre, il folgorante esordio alla regia di Xavier Dolan

Per quattro lunedì Cielo propone i primi film della folgorante carriera del regista e attore canadese. Si inizia con l'esordio di "Ho Ucciso Mia Madre". Un odio insanabile tra madre e figlio raccontato con sincerità e stile sicuro

Ho Ucciso Mia Madre

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Fa impressione dire che da stasera parte un ciclo interamente dedicato alla produzione “giovanile” di Xavier Dolan. Fa impressione quel termine, giovanile, perché il regista canadese originario del Québec francofono in effetti oggi ha appena 32 anni, essendo nato nel 1989. Eppure la sua è una carriera già molto ricca, iniziata nemmeno ventenne col folgorante esordio alla regia di J’Ai Tué Ma Mère, “Ho Ucciso Mia Madre”, e conta ben 8 film diretti e diversi altri interpretati in un percorso iniziato ancora prima, come attore bambino in spot pubblicitari e poi dal 2001 l’esperienza del doppiaggio.

Tutte cose che hanno evidentemente affinato il suo sguardo squisitamente e naturalmente cinematografico. Per cui quando il suo primo film sbarcò, immediatamente, sul palcoscenico più prestigioso, a Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs (alla Croisette saranno destinati quasi tutti i suoi film), subito fu notata la maturità dello stile, certo giovane nelle tematiche e nell’irruenza dell’impaginazione formale, ma già sicuro nel mescolamento dei registri visivi, ruotanti intorno a un’idea bruciante di melodramma del ventunesimo secolo.

Per questo è davvero imperdibile l’occasione offerta dal canale tv Cielo, che programma in quattro lunedì consecutivi, dal 7 giugno fino al 28, un ciclo “Pride”, dedicato alle tematiche Lgbt e in massima parte al cinema di Xavier Dolan, con quattro prime tv consecutive di tutti i suoi primi film: Ho Ucciso Mia Madre (2009), Gli Amori Immaginari (Les Amour Immaginaires, 2010), Laurence Anyways E Il Desiderio Di Una Donna (2012), Tom À La Ferme (2013). Attraverso i quali si potrà apprezzare un’ispirazione in grado di passare dallo sguardo ostinatamente adolescente di Ho Ucciso Mia Madre alla dimensione adulta dell’amore sofferto di Laurence Anyways, e dai colori allegri e pop Gli Amori Immaginari alla cornice seria di un thriller psicologico come Tom À La Ferme.

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J'Ai Tue' Ma Mere
  • Anne Dorval, Xavier Dolan, François Arnaud (Actors)

Ho Ucciso Mia Madre, scritto da Dolan a soli sedici anni, ha al suo centro un rapporto di amore-odio assoluto, pervicace, bruciante tra una madre e un figlio. “Io penso di non essere fatto per avere una madre”, dice Hubert (lo stesso Dolan), in una delle confessioni fatte a sé stesso e filmate con una videocamera nella sua cameretta, da cui emerge certo netto lo spunto autobiografico da cui origina il film, e il narcisisismo insito in questa messinscena a più livelli di sé (perché il Dolan regista riprende il Dolan attore, che recita il personaggio Hubert che riprende sé stesso, in una vertigine potenzialmente solipsistica).

Il rapporto con la madre Chantale (Anne Dorval) – come sempre nel cinema di Dolan i padri sono assenti, qui ce n’è uno che compare fugacemente solo per recitare la parte dell’uomo assertivo – sembra irrecuperabile. Di lei Hubert odia ogni piccolo dettaglio, le chincaglierie di cattivo gusto degli arredi (quelle farfalle appese alla parete!), il modo rumoroso in cui mangia, l’abbigliamento sgargiante. La loro relazione è bloccata. Dolan lo mostra attraverso i litigi in auto tra i due: sebbene il mezzo sia in movimento l’inquadratura è fissa, lenta, mortifera, come la loro vicenda reciproca senza sbocchi.

E sempre, nel film, la natura melodrammatica della relazione è resa attraverso lo stile. In un film successivo, quello che gli ha dato la fama. Mommy, nel quale la Dorval interpreta ancora il ruolo della madre, Dolan usa un formato quadrato dell’immagine per inscatolare i personaggi dentro una gabbia. A ben vedere, questa soluzione è già tutta in Ho Ucciso Mia Madre, in cui i protagonisti vengono spesso relegati in un angolo del fotogramma, asfissiati dal mobilio opprimente della casa, fotografata oltretutto con un colorito giallastro, opaco, decadente.

Lo stesso titolo del film compare in un fotogramma nella metà buia dell’immagine – l’altra è occupata dall’uscita del tunnel presso Chantale lascia il figlio perché non ha tempo per accompagnarlo a scuola – a indicare con evidenza la frattura insanabile al cuore di quella famiglia disastrata. Così Hubert all’unica insegnante che mostra interesse per lui dirà che sua madre è morta, la stessa bugia detta da Antoine Doinel ne I 400 Colpi di Truffaut.

Lo stile di Dolan, dicevamo, è giù maturo, ma messo al servizio dell’immaturità iperbolica della vicenda e dei suoi protagonisti, tra scoppi incendiari di ira reciproca e una forma volutamente (e apparentemente) acerba che accumula piani fissi, cromatismi vivaci, l’uso epifanico del ralenti – una marca del suo cinema – accostato alla musica, per dar vita a una sorta di videoclip mélo.  “In Ho Ucciso Mia Madre – ha detto Dolan – i ralenti richiamano la solitudine dei personaggi, donano alla loro banale quotidianità il lato elegante e fluido che a loro manca”.

Il cinema di Dolan, ha scritto Stefania Rimini, possiede “una certa anarchia visuale, fatta di lampi, di rime, di una temporalità frammentata e incerta”, che però non sfocia nel formalismo, ma è il correlativo visivo delle fratture interiori dei personaggi, del loro affocato bisogno di uscire fuori dal recinto in cui la loro biografia li ha condannati. Dunque lo stile ha una funzione risarcitiva, suggerisce un altro modo di stare al mondo che lampeggia nelle immagini ricche, sature, mosse come non è la loro esistenza. Esemplare in questo senso la sequenza in cui Hubert e il fidanzato fanno l’amore dopo aver ricoperto di colori una parete dipinta alla maniera di Jackson Pollock, mentre la musica segue i movimenti dei corpi e svela lo spazio di una emozione pura.

Come Dolan ha detto in un’intervista di qualche anno fa ai Cahiers Du Cinéma, “Il cinema, per me, è ciò che mi manca. Quel che mi manca, nella vita, è la mia infanzia, il mio passato, il rapporto con mia madre, la sottile differenza che provo rispetto agli altri, alla società, al modo di pensare. Il cinema mi permette di ritrovare tutto questo”. Questa è anche la ragione per cui nei suoi film migliori Dolan non risulta, pur nell’estremismo narcisistico della messa in scena, ombelicale e autoindulgente. Perché il dolore raccontato ha una sua autenticità. E anche perché è egli stesso consapevole del narcisismo insito in quello sguardo. Basti vedere come i filmini delle sue confessioni, ripresi in bianco e nero, assomiglino agli storici scatti di James Dean che il suo fidanzato ha appesi nella sua stanza. Dolan, insomma, sa che il suo cinema è, anche, un mettersi in posa. E conoscendo il rischio, lo tiene a bada, per non smarrire quel nucleo di sincerità che è l’obiettivo da svelare sotto l’abitudine professionale della recitazione.