Quarant’anni di Mr Fantasy, la rivoluzione a volte passa dalla tv

Mr Fantasy è stato un programma rivoluzionario per la televisione, veicolo di cultura pop e di musica rock


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Quarant’anni fa, di oggi, andava in onda dentro le nostre televisioni un programma destinato a fare storia, Mr Fantasy, con un giovane e assai moderno Carlo Massarini. Un programma per certi versi assai futuribile, con quella scenografia così bianca e sparata, le scritte digitali, il proporre video in un’epoca pre-Mtv, quindi in qualche modo indicando una strada nei fatti già indicata, la rete principe dei videoclip sarebbe andata in onda solo tre mesi scarsi dopo, il primo agosto del 1981, proponendo quindi una idea di musica in televisione assai innovativa, le band residenti, gli artisti anomali che altrimenti col cavolo avremmo conosciuto.

Io, ai tempi, avevo undici anni, e di musica mi interessavo assai poco. Non era ancora arrivata l’idea che a undici anni si potesse essere uno specifico target di mercato, quindi mi limitavo a ascoltare quel che passava in casa, complici un fratello e una sorella più grandi, e quel che passava in radio e appunto alla tv.

Oggi per altro mio fratello, quello che, parlando di musica, mi ha introdotto al prog, col suo amore per Le Orme e la PFM, al sound della West Coast e a certo cantautorato, Lucio Dalla su tutti, Marco, questo il suo nome, compie sessant’anni, compleanno importante che, lo confesso, mi fa piuttosto impressione, perché anche io come tutti tendo a pensarmi sempre giovane e di conseguenza a pensare anche coloro che sono cresciuti con me tali.

Comunque, tornando a Mr Fantasy, anche se non è di Mr Fantasy che andrò poi a parlare, Massarini svolgerà, nelle quattro stagioni del programma ideato da Paolo Giaccio, con tra gli ospiti fissi un improbabile Mario Luzzatto Fegiz, improbabile perché, diciamolo apertamente, Fegiz è una delle più grandi anomali del giornalismo e della critica musicale italiana, un compito importante, porterà in Italia una nuova forma di comunicazione, a cui forse neanche era ancora stato dato un nome preciso, il videoclip, prima di VideoMusic, che sarebbe stata poi la concorrente europea e quindi italiana a MTV, e prima di Deejay Television, che però ne sarebbe state versione pop e smart, introducendo a un pubblico mainstream una musica rock e alternativa assai poco mainstream, almeno da queste parti.

Faccio un salto in avanti. Di un paio di anni. Arriva in televisione appunto Deejay Television, prima su Canale 5 e poi su Italia 1. Il programma, ideato da quella fucina di idee di nome Claudio Cecchetto, è di fare un contenitore quotidiano della musica che del resto Cecchetto stava contribuendo a divulgare e produrre con Radio Deejay, una sorta di Factory che chiudeva un cerchio e riassumeva l’intera filiera musicale.

Io sono appena più grande, mi accingo a finire le medie e, seppur non sia ancora ascrivibile a un target commerciale comincio a formare il mio personale gusto musicale. Ho abbandonato la musica classica, e di questo ho scritto già anche troppe volte, e comincio a guardare con crescente interesse sia al pop che al rock. Ora farò una sorta di minitrattato spiccio di sociologia, facendo immagino inorridire chi di questi argomenti si occupa seriamente, magari di mestiere. Metto da parte la musica, in quanto genere artistico, mi concentro sull’estetica, o sulle pose che si legano alla musica in quanto genere, all’estetica che chi veicola quella musica produce e di conseguenza finiscono per diventare in qualche modo parte del modo in cui chi ascolta si presenta all’esterno.

Sono un ragazzino di provincia, vivo in Ancona. Sono irrisolto, come tutti gli adolescenti dell’universo. Non ho idea di chi io sia, né di cosa io potrei o potrò diventare. Né carne e né pesce, per citare un album che chiuderà quel decennio, la morte discografica di Terence Trent D’Arby, così, tanto per citare l’artista il cui album d’esordio sarà tra uno dei più venduti dell’epoca nonché l’album d’esordio di maggior successo di tutti i tempi, Introducing the Hardline According con Terence Trent D’Arby venderà infatti dodici milioni di copie. Quando non si è né carne né pesce non ci sono tante possibilità, tocca o mettersi a scoprire di che sostanza si è in effetti fatti, o aspettare che la questione si disbrighi da sola, manifestandosi come in una epifania.

La musica, è noto, è la forma d’arte più immediata, quella che ci arriva in maniera più diretta, che supera anche certe barriere linguistiche e culturali. Essendone io piuttosto appassionato, facile cercare proprio in chi la musica la faceva, e che finiva quotidianamente dentro la mia televisione, una qualche forma di risposta.

Tagliando giù con l’accetta, quel che ho iniziato a vedere dentro la televisione, attraverso i videoclip delle canzoni che imperversavano in quel momento, quindi la dance, il pop di matrice inglese, il pop plasticoso che provava a coniugare le precedenti categorie, la new wave e il post-punk, l’hard-rock, era qualcosa di impressionante, che in qualche modo mi rasserenava ma per certi versi mi metteva decisamente a disagio. Era infatti possibile, questo vedevo e sentivo, essere qualcosa di diverso dai modelli stereotipati che la società italiana, a partire dalla famiglia e da quel che si vedeva a scuola, metteva a nostra disposizione. Si poteva, in sostanza, essere eccentrici senza passare per matti, per strani, per disallineati, e si poteva, questa la vera notizia bomba, essere diversi. Esisteva in pratica la normalità e poi esisteva tutto un modo che ci si muoveva attorno, spesso fuori da quei recinti. Esistevano tanti canoni che non avremmo mai incontrato nella nostra quotidianità, fuori dalla nostra televisione, e che non avremmo incontrato perché non essere nei canoni era considerato, oggi forse la faccenda è un po’ meno rigida, qualcosa di sbagliato, da evitare, pena l’essere esclusi, emarginati.

Io, vuoi per il mio essere adolescente, il né carne né pesce di cui sopra, vuoi per il mio vivere in un quartiere che non era socialmente il mio, la mia famiglia dopo il terremoto del 1972, terremoto che aveva distrutto alcuni quartieri, compreso quello in cui vivevo io, era stata ospitata nella casa lasciata sfitta dal prefetto di Macerata, andando così a passare da un contesto popolare a uno decisamente altoborghese, vuoi semplicemente perché nella vita mi sarei sempre trovato, come il Nanni Moretti di Caro diario, a stare in una minoranza, mi sentivo decisamente diverso. Avevo, cioè, non tanto riconosciuto un mio luogo metaforico di appartenenza, quanto più identificato il mio non appartenere al luogo, fisico e metaforico, in cui mi trovavo. Un buon punto di partenza, non certo un punto di arrivo.

Vedere quindi dentro la televisione gente come Boy George, all’epoca ancora nei Culture Club, o Dave Stewart degli Eurythmics, o Robert Smith o Bono degli U2, vedere Mike Scott dei Waterboys o Dave Gahan dei Depeche Mode, ma anche Jonh Lydon, un tempo Johnny Rottene, nei PIL mi inquietava, come succede quando si scopre un grande segreto tenuto nascosto che ci riguarda. Cioè, è evidente che non avevo né avrei potuto avere il coraggio di andare in giro come loro, non ci ho mai pensato e anche lo avessi fatto sarei stato rimandato in camera con una certa solerzia, ma capivo che tutto ciò era non solo possibile ma in qualche modo “normale”, giusto. Poi c’era la faccenda delle donne, che dentro la televisione erano decisamente diverse, a loro volta, di come mi apparivano in classe o più in generale dal vivo, ma star qui ora a aprire la parentesi Sabrina Salerno/Samantha Fox vs Claudia Brücken/Annie Lennox, io propendevo decisamente per queste ultime, sarebbe davvero troppo complessa e fuorviante.

Poi è arrivato l’air-metal, l’hard rock, insomma quella genia di artisti che portavano i capelli lunghi e spesso cotonati, vestivano in maniera piuttosto imbarazzante, un connubio di pantacollant, giubbotti di jeans e cuoio, stivali e borchie, e di colpo, parlo per me, sia chiaro, è cominciata a maturare l’idea che si potesse non solo essere diversi, nel senso di non appartenere esattamente alla massa omologata, ma anche non partendo avvantaggiati, essere fighi. Intendiamoci, lo so che i vari Jon Bon Jovi, Bret Michaels e affini erano dei gran fighi a prescindere, ma nei fatti la narrazione ci diceva altro, e cioè che loro erano marginalizzati rispetto alla vita ordinaria, e che anche per questo erano da considerare certamente degli outsider, ma dotati di grande fascino, capaci di inventarsi una lingua, musicale, di successo, alzare il volume per gridare le loro voglia di esserci, darsi al romanticismo, certo, le ballad avevano un grande peso nella loro discografia, ma al tempo stesso scatenarsi, divertirsi, gli assolo di chitarra, distorti e rumorosi, occupavano la scena. Ripeto, sto tagliando con l’accetta un tronco di sequoia secolare, sperando di tirarne fuori un ninnolo da mettere sul comodino, lo so, ma oggi è questo tipo di pensiero che sta occupando la mia mente, non è mica colpa mia.

Nel mentre ero cresciuto, va detto, avevo cominciato a frequentare parti della città che fino a quel momento mi erano precluse, non per restrizioni o divieti, ma proprio perché lontane dalla mia portata, anche se vicine da un punto di vista geografico. Ho così scoperto, wow, che anche in città c’era gente che suppergiù viveva il non sentirsi allineata col sistema, e che a mia differenza aveva le idee assai più chiare su che tipo di alternativa sposare. A piazza Cavour c’erano i punk, con le loro maglie stinte nella varichina, le loro creste da mohicano, al baretto di Ionna, lì dove si ritrovavano anche i tossici, e con loro anche i dark, vestiti di nero e con le facce tinte di bianco e bistrate di nero, a dimostrazione che certi tipi di ostilità tipicamente britanniche sulle sponde dell’Adriatico non avevano attecchito. Sotto la Galleria Dorica, lungo corso Garibaldi, c’erano i metallari, i capelli lunghissimi, i giubbotti con quelle toppe gigantesche con mostri di varia natura. Io mi muovevo da solo, come avrei continuato a fare, i capelli che iniziavano a crescere, più ispirati a Sandokan che da Steven Tyler o David Coverdale, un look tutto da definirsi, mia moglie sostiene anche oggi non del tutto risolto.

Carlo Massarini, è da lui che sono partito, e più per la precisione dal fatto che oggi sono esattamente quarant’anni dal giorno in cui per la prima volta andrà in onda Mr Fantasy, programma rivoluzionario per la televisione tutta, veicolo di cultura pop e di musica rock, innovativo nei contenuti ma anche nella forma, forse soprattutto nella forma e nel linguaggio, vestiva spesso di bianco, come bianca era la scenografia del programma, portava i capelli impercettibilmente lunghetti, sempre ordinati e lisci.

Credo che l’ultima volta che ho indossato qualcosa di totalmente bianco fosse precedente a quel giorno, per altro giorno di suo già anomalo, il giorno prima era morto Bob Marley, il successivo Alì Agca avrebbe sparato a Papa Giovanni Paolo II, ho indossato qualcosa di totalmente bianco in occasione della mia Prima Comunione, ai nostri tempi la si faceva con una tunica candida. Ciò nonostante sono consapevole che se nella vita ho capito che essere altro dal tutto, diversi dalla norma, disallineati è non solo possibile, ma decisamente bello, lo devo anche a quel ragazzo piacione di bianco vestito che è apparso dentro il nostro televisore col tubo catodico, categoricamente in bianco e nero. La rivoluzione, spiace per Gil Scott-Heron, a volte passava proprio da quelle parti.