Patrizia Laquidara, la cantautrice scalza

Patrizia, quando canta, ma anche quando guarda, quando si muove, quando sta ferma, evoca


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Avete presente Grey’s Anatomy?

Ecco, non ricordo in che puntata mentre stanno facendo un’operazione a cuore aperto succede uno di quelle catastrofi che, fortunatamente, succedono in un unico ospedale soltanto nelle serie televisive. Succede questa catastrofe e di colpo va via la luce. Non fossimo in Grey’s Anatomy probabilmente il paziente, lì sul tavolo operatorio col torace spalancato, lo sterno e le costole segate e il sangue tutto intorno, sarebbe spacciato. Ma la televisione è la televisione per cui ecco che uno dei medici del serial ambientato a Seattle prende il cuore in mano e comincia a stringerlo ritmicamente, simulando il normale battito cardiaco. Questo finché non torna la luce, l’operazione può riprendere e il paziente salvarsi.

Ecco. Quel paziente siamo noi, oggi, in Italia. Il cuore fermo è il nostro, intorno l’apocalisse. A stringerci il cuore con una mano ferma ma al tempo stesso dolce, capace di farlo battere ma non di rovinarlo irreparabilmente arriva dopo tanto tempo una artista e le sue canzoni. Anche stavolta ce la faremo.

Ricomincio.

Parto da lontano.

Perché da lontano si deve partire per raccontare questa storia che da lontano arriva e lontano, spero, ci porterà.

Tempo fa sono incappato per i miei studi sul femminile in un video. Si tratta di un TedX di Veronica Benini dal titolo Come farla finita col femminismo. Se vi capita andate a guardarvelo, è interessante. Nel video, tra le altre cose, la speaker ci racconta come l’indossare i tacchi alti cambi la postura di chi li indossa, si parla di donne, nello specifico, andando così in qualche modo a influire anche nell’attitudine con cui chi porta i tacchi si pone dinanzi al mondo. Sintetizzo con parole mie.

L’uomo ha il cazzo e le palle.

Niente di nuovo. Ma nello specifico, nell’usare una terminologia che ha dato vita a tutta una serie di modi di dire con chiara valenza sessuale che però sconfinano altrove, va specificato come l’uomo abbia un apparato sessuale esterno, appunto.

La donna no. Ha la figa.

Parola meno declinabile, perché l’uso dei sostantivi legati all’apparato sessuale femminile sono quasi esclusivamente a vantaggio dell’uomo, se ci pensate, della sua visione del mondo (sempre che si possa parlare di visione in questo caso). Ma non è questo il punto del discorso della Benini. Il fatto è che nell’indossare i tacchi la donna è costretta a cambiare postura, perché il corpo si alza, certo, ma soprattutto perché il tallone non ha più un contatto diretto col terreno, introducendo una variazione su uno standard per noi naturale. Quindi avviene una sorta di compressione a livello lombare, con il petto che va in avanti e i glutei che vanno indietro. In sostanza, esteticamente, i tacchi rendono il fisico femminile più sinuoso. E questo è un fatto. Ma i tacchi fanno altro, costringendo il corpo femminile a cambiare postura, costringono anche l’apparato femminile a spostarsi. Questo, ovviamente, all’esterno non si vede. Di fatto però l’apparato femminile si sposta di circa quattro centimetri all’indietro, con un dischiudimento delle labbra. Quindi, di colpo, portando i tacchi, la donna ha una percezione fisica costante di avere un apparato sessuale. Un po’ quello che agli uomini succede nel momento in cui hanno le erezioni, fatto che, ci spiega sempre la Benini, avviene in media undici volte al giorno. Quindi la donna, coi tacchi, diventa in qualche modo sessuata, o più sessuata (in un altro speech, sempre della Benini, ci viene spiegato che la donna, a differenza dell’uomo, non ha limiti di orgasmi quotidiani, limiti invece fisiologicamente all’uomo, fatto che, a suo dire, in qualche modo ha spinto l’uomo a “demonizzare” la sessualità per le donne, come per invidia).

Questo fa cambiare, ci dice lo speech in questione, l’attitudine con cui la donna sta al mondo, nella società. Non che ci sia una forma di aggressività paragonabile a quella maschile, ma sicuramente c’è una maggiore coscienza di sé, una maggiore sicurezza.

Women empowerment, sintetizza e sintetizzo.

Perché vi racconto tutto questo nell’introdurvi quello che al momento è ancora l’ultimo album di una artista nei cui confronti ho una stima infinita?

Semplice, perché le canzoni che compongono questo lavoro di Patrizia Laquidara, ormai uscito nel 2018, è lei l’artista tornata con un album di canzoni inedite in italiano dopo undici anni da Funambola con C’è qui qualcosa che ti riguarda, queste dodici canzoni più due interludi, sono esattamente il corrispettivo di quell’apertura di labbra di cui ci parla Veronica Benini, e so di essere disturbante nel dire ciò.

O meglio, sono il racconto poetico di quel cambio di postura.

La fotografia, o meglio il quadro, a volte astratto a volte, più spesso, descritto nei minimi dettagli, seppur con la lingua della poesia che per sua natura non è destinata tanto a raccontare quanto a evocare, il quadro di quella presa di coscienza che avviene nel momento esatto in cui la donna infila dodici centimetri di tacco.

E si badi bene che nel caso specifico, come nello speech in questione, non si intende dire che la donna può prendere coscienza di sé solo attraverso un oggetto esterno come un paio di scarpe, non fatemi così maschilista e stupido. Prova ne è che i piedi esibiti e l’essere costantemente scalza è la maniera con cui Patrizia Laquidara è solita porsi di fronte al mondo, intendendo con mondo l’altro. Il suo modo, assai compiuto, di indossare tacchi immaginari. O forse, meglio, il suo modo di dirci che non c’è affatto bisogno di quei tacchi, si decida poi di indossarli o meno.

C’è qui qualcosa che ti riguarda è un lavoro fondamentale, non solo e non tanto per la carriera di una artista unica, in bilico da sempre tra canzone tradizionale, pop, teatro, poesia e narrazione, quanto per quelli che di fronte a Patrizia Laquidara si trovano, noi, il mondo, nello specifico il mondo della musica italiana. E è un lavoro fondamentale perché ci dimostra come oggi, in un’epoca apocalitticamente votata alla semplificazione spiccia e sciatta, non confondete semplificazione e semplicità, semplificazione spiccia e sciatta, si veda il successo (o il successo raccontato) della trap, con canzoni tutte simili per composizione e poetica, complice lo streaming che della musica è oggi principale media, si può essere complessi.

Ci dice come la forma canzone, anche quella che guarda appunto al pop, possa partire dalle radici, usando tutta la tavolozza di colori che la musica prevederebbe per sua natura, non lasciandosi quindi soggiogare dalle maglie strette di quella che a tutti gli effetti sembra una catena. E nel flirtare con la nostra musica leggera, da Bindi a Battisti, così come con la musica tradizionale dei paesi che da sempre la affascinano, Italia, ovviamente, e Portogallo in testa, cercando una via alla modernità che non parta solo dall’elettronica, presente ma mai in primo piano, invasiva o distraente, ma dall’uso di strumenti classici. O più che altro, strumenti (magari non nati per essere suonati ma diventati tali sotto la guida dell’arrangiatore Alfonso Santimone, applausi a scena aperta). A partire dalla voce.

Patrizia Laquidara, quando canta, ma anche quando guarda, quando si muove, quando sta ferma, evoca. Riesce nell’impresa, apparentemente naturale ma, ritorniamo allo speech iniziale, evidentemente non così diffusa, di essere donna nelle sue mille sfaccettature. Complessa più che complicata, non ce ne voglia l’amico Ruggeri.

Che si tratti di cadere, di rialzarsi, di dimostrare potenza, di esternare dolcezza, di muovere i propri passi dentro situazioni familiari, quotidiane, come di compiere gesti epici o così carichi di eros da imporporare le guance, Patrizia Laquidara se ne sta lì piantata su dodici centimetri di tacchi, seppur costantemente scalza. E i suoi dodici centimetri di tacchi, quelli raccontati dalla Benino, sono le sue canzoni, e il suo scrivere quelle canzoni e cantare quelle canzoni, e metterci quei suoni, in buona compagnia di Alfonso Santimone, si diceva.

Le parole, poi, fanno il resto.

Perché Patrizia Laquidara è dotata del dono della poesia, non solo nel modulare note. Le parole che compongono le liriche di C’è qui qualcosa che ti riguarda, il titolo non si trova mica lì per caso, sono parole desuete, ricercate, anche quelle, familiari e quotidiane, ma non certo quella manciata di brutte parole che riecheggiano oggi nelle brutte canzoni che circondano la nostra carovana nella notte.

Ecco, è un’immagine che ho già usato, ma è come se ci trovassimo dietro la diligenza rovesciata, i cavalli scappati, il fuoco da mantenere vivo, in attesa che i cattivi che vogliono mettere le mani sul nostro bottino, se ne vadano alle prime luci dell’alba. C’è qui qualcosa che ti riguarda è quella diligenza, è la prima luce dell’alba.

La musica, quando è buona musica, quando è bella musica, può essere salvifica, non sono certo il primo a dirlo. Al punto che a volte ci aggrappiamo a canzoni, purtroppo anche a canzoni che lucidamente ci guarderemmo bene dall’ascoltare, per tenerci a galla.

Qui siamo di fronte alla bellezza in una delle sue espressioni musicali più alte, non solo nel nostro paese. Qualcosa che Patrizia Laquidara ci ha fatto attendere per una infinità di anni, ma che valeva la pena di attendere.

Passate dall’urgenza manifesta di Marciapiedi, singolo che ci ha raccontato del suo ritorno, scontratevi con la modernità sensuale di Sopravvissuti, lasciatevi cadere in ginocchio di fronte alla levità tutta bindiana, con suoni che richiamano alla mente anche il Battisti di Una donna per amico, l’album, di di Amanti di passaggio, incocciate nella rocciosa presa di coscienza di Acciaio, quadro casalingo malinconicamente perfetto, antico e senza tempo, spalancate la bocca di fronte a un brano come Preziosa, che potrebbe svettare nella tracklist del prossimo lavoro di un gigante come Nitin Sawhney. Mi fermo, perché star qui a fare l’elenco delle canzoni è davvero superfluo, di tante perle si tratta, tutte perfette, tutte altissime, tutte a loro modo leggere.

Su tutte, però, una perla, la fotografia, lasciatemi proseguire su questo crinale che potrebbe portarmi a precipizio nella malizia, la fotografia anatomica di quella postura: Il cigno (the great woman), probabilmente il manifesto di women empowerment più chiaro che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi quarantanove anni. Fragilità e fierezza, potenza e inadeguatezza, tutto in una canzone.

Una gioia inaspettata. Una gioia necessaria. Una gioia, però, che non si ripete da già tre anni, e che quindi necessiterebbe una rinfrescata.

Tradotto, un nuovo album sarebbe cosa assai gradita, oltre che utile per aiutarci a sopravvivere in quelli che credo possiamo definire i nostri giorni più oscuri.

Intanto godiamoci C’è qui qualcosa che ti riguarda, lavoro che come il vino buono, invecchiando diventa ancora più prezioso.

La ragazza nuda che se ne stava accovacciata in cerca di equilibrio sulla copertina di Funambola si è alzata, e ora se ne sta lì, piantata come una statua il seno in avanti, i glutei all’indietro, donna donna anche a piedi scalzi.

Questo pezzo si sarebbe potuto fermare qui, non fosse che giorni fa, sabato scorso per la precisione, Patrizia era in compagnia di Tony Canto, cantautore e chitarrista siciliano con cui collabora da tantissimi anni, e i due, spinti da quella voglia di suonare che è tipica di chi ha riconosciuto nella musica il proprio talento da non tenere evangelicamente nascosto sotto terra, hanno deciso di improvvisare un concertino a due attraverso una diretta su Instagram. A casa mia, il sabato sera, abbiamo una serie di abitudini di cui ci prendiamo cura come quei vezzi familiari che poi si ricordano con affetto a distanza di anni. Ceniamo immancabilmente con la pizza fatta in casa, poi si guarda un film tutti insieme. Questo accadeva, prima della pandemia, quando non ci si vedeva con amici, non si avevano impegni fuori casa, e ovviamente è un’abitudine che viene perpetuata solo a Milano, non certo quando si è al mare o in vacanza, da un anno a questa parte avvengono con una continuità che potrebbe suonare allarmante, non fosse che stare in famiglia a goderci una serata di relax è comunque assai piacevole. In genere, quindi, poco prima di iniziare la visione del film, dopo cena, io mi occupo di selezionare una serie di film appetibili per tutti, alternando commedie leggere a film più di impegno, sempre visibili a bambini di neanche dieci anni come i gemelli. Solo che sabato ho beccato subito il film giusto, quindi la ricerca è durata un secondo, quindi sono capitato per caso su Instagram e sono rimasto ammaliato da quel concertino, una pianta e un appendiabito di scena a vista, Tony alla chitarra e voce, Patrizia, un vestito a scacchi primaverile a incorniciarne la bellezza fresca e naturale, alla voce. Poco meno di un’ora durante la quale i due si sono scambiati i repertori, hanno interagito come fossimo di fronte a un concerto organizzato da tempo, dimostrando, non che ce ne fosse bisogno, come l’arte quando è arte è un medium che arriva senza filtri, per citare la stessa Patrizia, Senza pelle. Pura magia, di quelle che ti spinge, il giorno dopo, neanche troppo casualmente, a tornare sui social nella speranza che ci sia una replica, replica che ovviamente non può esserci, perché era frutto di una casualità e di una volontà di provare a assaporare almeno per qualche minuto, poco meno di un’ora, quella che un tempo era la vita di tutti i giorni, cantare, suonare, scambiarsi arte, creare arte, incontrare un pubblico, fosse anche con tutte le distinzioni del caso, perché una diretta su Instagram non è un concerto, sentirsi vivi.

Me lo sono goduto fino in fondo, quel concertino, e ho rimpianto il sapere che non ne avrei visti altri di lì a breve, seppur la formula sarebbe replicabile, e un pubblico disposto a seguirli ci sarebbe, eccome, c’è stato anche così, improvvisando.

Non dico nulla di particolarmente intelligente nell’affermare che mai come oggi il mondo, noi che il mondo abitiamo, a dirla tutta, avrebbe bisogno di bellezza. E non dico nulla di particolarmente intelligente nell’affermare che mai come oggi la musica di Patrizia Laquidara è una perfetta rappresentazione plastica di questa bellezza. Lo è nei suoi album, ahinoi, centellinati come si fa con le cose preziose, e lo è quando canta dal vivo, fosse anche in casa, davanti a una pianta e a una fila di abiti appesi.

Continua a irradiare bellezza, Nostra Signora del Canto, e torna presto a proporcene di nuova, che qui altrimenti ci tocca davvero sostituire il verso esistere con quello resistere, vivere con sopravvivere.