Il villain villano contro i villani e il discorso sulle tribute band dei critici musicali

Sono diventato il villain, il cattivo, quello che demolisce i BIG, usando anche l’ironia, il giullare, il Joker, quello che uccide il re e che ha poche riverenze per il sistema


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Torno a parlare di brand. Non per mancanza di argomenti, direi che a fantasia tengo botta, ma più che altro perché ritengo si un argomento centrale, nella narrazione, oggi come oggi. Mettiamola così, se fino a qualche tempo fa era lo storytelling il cuore, oggi è la brand identity. L’ho già scritto, ma vorrei tornarci su, quindi lo ripeto e parto da qui.

Siamo chiusi in casa da molto, troppo tempo. Non dico niente di nuovo, temo. La rete è la nostra finestra più luminosa, o almeno quella a cui stiamo affacciati più tempo, i nostri smartphone, volendo, possono impietosamente certificarci quante ore la settimana.

Io passo parte di questo tempo, quello affacciato a questa finestra, lavorando ancor più di quanto non avesse con veemenza sottolineato Josephe Conrad, a spulciare siti e magazine online, alla ricerca di qualcosa che so molto probabilmente non troverò. Non sono mai interessato alle notizie, non alle notizie in sé, per quelle vanno già bene i social, mi interessa di più incrociare penne che siano in grado di trasmettermi qualcosa, la forma, più che la sostanza. Sono intimamente prog, ve ne parlavo giorni fa, non fatemici tornare su. Cerco lo stile per lo stile, la forma per la forma, poi i contenuti, se ci sono, ben vengano, ma già essere appagato dal punto di vista estetico mi sembrerebbe gran cosa. Cerco e vengo puntualmente deluso. Le occasioni in cui ciò non accade sono talmente poche da non fare neanche statistica, numeri risibili, irrilevanti.

Niente e nessuno sembra in grado di stupirmi, non che questo sia il problema più centrale oggi come oggi, ma di questo sto parlando, al momento, e questo mi sembra importante sottolineare. È tutto piuttosto omologato, anche quando non vuole essere omologato, anzi, vuole mostrarsi eccentrico.

Avete visto tutti, prima o poi, uno di quei servizi di Costume e Società, quelli che sui quotidiani online un tempo occupavano il colonnino di destra, ma che oggi spesso finiscono a piena pagina, quei servizi, chiamarli articoli mi sembrerebbe vagamente cinico, dedicati a due star, quasi sempre hollywoodiane, che si presentano a un determinato evento con il medesimo identico vestito. Non sto parlando degli ultimi mesi, evidentemente, gli eventi mondani ridotti a zero, al massimo le star hollywoodiane possono esibire le medesime ciabatte, nei loro collegamenti su zoom, sedute sul divano. Un tempo esistevano premiere, kermesse, vernissage o altri eventi coi nomi naif come questi, roba da fare sbroccare la Crusca, e capitava non dico sempre ma con una cadenza almeno bimensile che a quegli eventi si presentassero almeno un paio di star, sempre donne, col medesimo abito. Stesso taglio, stessi colori, proprio lo stesso taglio. Colpa degli stylist, evidentemente, e dei marchi che quegli abiti avevano concessi, roba da coprirsi il volto dall’imbarazzo.

Come fare nello stesso momento lo stesso post sui social, sintomo in quel caso di un social media manager comune piuttosto distratto e pigro, si finisce per fare figuracce che spesso diventano virali.

Nessuno vorrebbe essere identificato come uno che pecca in originalità, in qualsiasi campo, seppur poi ci sia chi inneggia alla Very Normal People, e la normalità è indubbiamente il tratto distintivo dell’uomo.

Tutti ci riteniamo unici, quindi come tali vogliamo essere identificati. Se poi ci si trova a fare un qualsiasi mestiere che prevede che il nostro nome, sia esso associato a una penna, a una faccia, una voce, un corpo, quel che è, sia parte integrante dei nostri ferri del mestiere, ovvio che sottolinearne l’unicità diventa fondamentale, la brand identity, torniamo sempre lì.

Dico questo perché, navigando alla ricerca del Sacro Graal, dell’Eldorado, di Atlantide, non trovo quasi mai, diciamo proprio mai qualcosa di interessante, passando da un sito all’altro, da un articolo all’altro con quella velocità che è la morte nera di chi i siti li gestisce, stare quattro secondi in un link non è considerato cool, è evidente, starci meno di venti diventa comune, ma comunque abbastanza imbarazzante. Quel che però spesso trovo, diciamo almeno una volta a sito o magazine, parlo adesso dei siti e magazine che si occupano in qualche modo di musica, sia esso il core business o anche uno degli argomenti trattati con una certa costanza e attenzione, è chi mi fa il verso, miei piccoli e goffi cloni.

Non credo serva io faccia un piccolo riassunto dei tratti salienti della mia cifra, mi state leggendo, ve li trovate tutti spiattellati qui, come negli altri miei pezzi, ma vedere tanti mini-me che provano a farmi il verso, irriverenti, scanzonati, ironici, cattivi ma di una cattiveria che vuole essere intelligente, ficcante, pieni di citazioni, tra alto e basso, più spesso basso, uno stile poco canonico che prevede non la classica struttura dei pezzi stessi, parlare di qualcosa in apparenza fuori tema per poi fare inversione a U e mostrare che si stava parlando d’altro, insomma, ci siamo capiti. Mini-me, ripeto, non c’è oggi sito che non abbia un “Cattivissimo Me”, un “Guarda mamma come sono bravo, senza mani”, un “attacco il sistema e i BIG della canzone, così mi metto in evidenza”.

Ora, so che aver catalogato in quel modo coloro che, cito Dalla, bevono alla mia fontana, sappiate che è una metafora a sfondo sessuale e sessista, questa, non involontaria, è proprio alla mia fontana che vi dovete chinare a bere, stolti, potrebbe suonare all’orecchio dei più maliziosi e pignoli, come una sorta di ammissione di colpa, io sarei quello che gioca la carta del cattivo, che vuole stupire mostrandosi talentuoso e che attacca sistema musica e BIG per stare al centro dell’attenzione, che sono per altro gli atti d’accusa che più spesso ricevo, ma nei fatti, non fatemi così sciocco, dai, se ho stigmatizzato i cloni usando proprio quelle caratteristiche è perché, a voler copiare chi ha uno stile specifico e una poetica specifica, questo è, si finisce per ricalcarne malamente solo i tratti più marchiani, perdendo del tutto di vista il resto, il cuore. Questo a prescindere dal fatto che, poi magari sarò io che sono strano e non capisco, dubito che qualcuno, potendo ai tempi scegliere, avrebbe deciso di andare a sentire un concerto del tipo che da sempre staziona davanti all’Ariston durante i giorni del Festival col solo scopo di farsi riprendere e fotografare, in quanto sosia di Pavarotti, invece che andare a teatro a ascoltare Pavarotti stesso, oh, magari a qualcuno piace più una Tribute Band di Tizio che Tizio stesso, il mondo è bello perché vario.

Siccome però, in fondo, o mini-me che infestate il mondo, a volte anche sedendo su poltrone di prestigio, mi fate profondamente tenerezza, e siccome ho deciso da tempo di occuparmi di brand identity, direi che oggi potete mettervi comodi, vi spiego perché esiste una differenza notevole da chi si crea i colori da soli, mescolando materiali presenti in natura, magari anche ricorrendo alla chimica, ci mancherebbe, ma comunque non usando quelli base, che si trovano a pochi spicci al supermercato, e chi, appunto, volendo dipingere un panorama, una natura morta, un ritratto, non sa far meglio che stare nello standard. Poi, ovvio, si può fare del gran bene anche usando lo standard, il pop è spesso basico in partenza, ma non rompete e provate a seguirmi nelle mie congetture senza star lì a alzare ogni due minuti il ditino per fare una domanda.

Sia chiaro, non è che ora mi metterò qui a spiegare come faccio l’impasto della mia pizza, e non certo per quella faccenda dei maghi che non svelano i loro trucchi né quelli dei colleghi, non sono un mago e faccio corsi di scrittura creativa da così tanto tempo che ho perso il conto, non lo faccio perché solo a pensarci mi è venuta noia, e perché questo non è un corso di scrittura creativa, appunto, ma un pezzo che vuole affrontare un tema come la brand identity, partendo da un brand, il mio.

Sono marchigiano.

No, non è vero.

Sono di Ancona.

Eh, ma Ancona è il capoluogo delle Marche, stai pensando.

Vero, ma se lo stai pensando non sei di Ancona, e non sei marchigiano. Altrimenti avresti colto al volo, e assentito, in entrambi i casi.

Ora dirò una cosa che mi farà arrampicare velocemente come si vede a volte fare in certe feste patronali di piazza su per l’albero della Cuccagna, solo che io mi sto per arrampicare sul vostro glande, metaforico, perché è lì che finirò, sulla punta del vostro glande, come uno di quei nidi di cicogna che si vedono in certi paesi dell’Est lungo la strada, e vi starò sulla punta del glande perché, da anconetano, sto per azzardare un paragone davvero odioso.

Per altro non vero, perché Ancona è la città da cui sono scappato a gambe levate, nelle note biografiche dei miei libri sta spesso scritto “è in esilio a Milano”, mica è una battuta.

Solo che avete sentito tutti quei discorsi su come un conto è l’America, intendendo con l’America gli Stati Uniti d’America, e un conto New York, discorsi che spesso si fanno magari per giustificare che un Donald Trump vinca le elezioni, valido volendo anche a Milano, il Pd vince al centro e perde le periferie, gli operai ormai votano tutti Lega, ci siamo capiti, discorsi tesi esclusivamente a rivendicare una qualche diversità, morale, essenzialmente, ma anche culturale, di attitudine, tra un posto e il resto del circondario. Ecco, tra Ancona e le Marche la faccenda sta così. Credo per altro in maniera binaria, ma a questo arriverò poi.

Se parli con un qualsiasi anconetano del resto della regione di cui Ancona è capoluogo sentirai parlarne in termini spesso denigratori, e se i termini non fossero tali, sarebbero comunque bonari, di chi guarda a qualcuno che considera inferiore con accondiscendenza, senza magari voler far pesare il proprio status, ma ben consapevole di esso.

La definizione Marche sporche, sempre atta a indicare tutto ciò che succede a sud del Conero credo non sia originaria di Ancona, quanto piuttosto del pesarese, è noto a tutti, credo, come i pesaresi si considerino nei fatti più romagnoli che marchigiani, anni fa alcuni comuni della parte collinare hanno indetto un referendum per essere annessi all’Emilia-Romagna, referendum ovviamente passato con una grande maggioranza di sì, quindi credo che stia alla loro spocchia di nordisti con la puzza sotto il naso l’idea di indicare come Marche sporche quelle degli scarpari, leggi alla voce province di Macerata, Fermo e Ascoli Piceno, dove un tempo prosperava il terzo settore, quello dei piccoli produttori di scarpe e pellami, appunto, gente che magari di giorno coltivava i campi e di notte fabbricava cinte e scarpe, piccole imprese familiari di cui la Tod’s è espressione più nota, Dio mio, dalle Marche sporche arrivano le Hogan, tutta farina del sacco dei pesaresi, quindi, ma come si sarà già intuito da quel mio usare il termine “scarpari”, assolutamente sposato da me, che sono anconetano, e da tutto il resto dei miei concittadini, sempre pronti a guardare a ciò che avviene fuori dal perimetro dorico, fosse anche alle vicinissime Falconara Marittima o Camerano, come a roba di contadini e villici.

In questo, va detto, lo sguardo è quantomeno democratico, perché fosse per noi le Marche sporche sarebbero semplicemente il resto delle Marche, tutte, compresa Urbino e la nostra provincia, in effetti Fabriano, che è il punto più lontano da Ancona, è sicuramente qualcosa che ha più a che fare coi campi che con l’idea di città. Siamo spocchiosi, questo il punto, odiosamente spocchiosi, consapevoli di abitare nell’unica città che dirsi tale possa in regione, anche se città di soli centomila abitanti, quindi vista dal resto del mondo come una caccola, e per questo tendiamo a guardare gli altri dall’alto in basso, spesso con i toni sferzanti e strafottenti di chi comunque alla fine vince.

Chiunque non affacci sul mare, per capirsi, è dell’entroterra, cioè è trattato come un nobile protagonista di un romanzo di Jane Austen tratterebbe uno dei suoi fattori, con in più l’aggravante dell’imitarne il dialetto slabbrato, “da cuntadì”. Anche chi si affaccia sul mare non è esente da sguardi snob e atteggiamenti al limite dell’hating, perché a parte Portonovo e il Conero, è noto, tutto il resto dell’Adriatico fa cagare, non si salva neanche il Gargano o la parte adriatica del salento, per noi. Siamo la New York del centro Italia, lo ripeto, o tali ci sentiamo, il che ha col tempo coltivato un clima di odio omogeneamente sparso per tutto il territorio, roba che gira su concetti atavici tipo “ha parlato Dio”. Anche per questo, non solo per questo ma anche, gli anconetani sono universalmente riconosciuti come chiusissimi, chiunque capiti in città, magari per studiare, faticherà non poco a aprirsi un varco in gruppi che sono più inaccessibili di certe confraternite da film americano, quelle a cui puoi accedere solo dopo aver bevuto due litri di piscio misto a sangue, essere andato in giro per il campus completamente nudo e con una coda di saggina infilata nel culo e aver cantato ininterrottamente tutta la discografia di Dolly Parton.

Ovviamente, chiunque sia nato in zona e verrà interpellato a riguardo negherà, sto per farlo anche io, adducendo tutta una serie di scuse che va dalla conformazione ostile della città, il mare tutto intorno, le colline alle spalle, o parlando di scarso spirito integrativo da parte degli altri. In alcuni casi si arriva anche a citare un qualche antico amico straniero, spesso greco, con cui si giocava a calcetto il giovedì sera, ma  nei fatti gli anconetani sono prevalentemente stanziali e assolutamente disinteressati a mescolare i propri geni con quelli di appartenenti a altre etnie (sì, gli ascolani sono Piceni, per dire, noi Dori).

Tanto per non voler far passare l’idea che l’anconetano sia solo un misantropo disinteressato a aprirsi al mondo, porta sui Balcani per elezione naturale quale è, va aggiunto al quadro d’insieme il fatto che tanti anni di papato, le Marche erano sotto lo stato pontificio, hanno forgiato caratteri coriacei, da noi si dice che siamo come “le crocette”, un frutto di mare col guscio assai duro, difficile da rompere, ma con dentro un cuore tenero e buonissimo, e anche uno spirito anarchico piuttosto elevato, non a caso la prima e sola rivoluzione anarchica in Italia, la Settimana Rossa, è partita da qui, Malatesta a guidare la faccenda, motivo che spinge i cittadini a usare il medesimo atteggiamento strafottente e ostile che in genere rivolge a un più generico “altro”, al resto dei marchigiani in modo particolare, anche verso “il potere”, in città niente e nessuno può ambire al ruolo di divinità, ci sarà sempre qualcuno pronto a bestemmiarlo.

Io sono anconetano, quindi.

Ma sono un anconetano scappato ventiquattro anni fa, in esilio a Milano.

Un anconetano scappato perché la città è chiusa anche verso i suoi stessi figli, sicuramente, e perché la mentalità di provincia, non ditelo agli anconetani ma anche Ancona è provincia, e della più becera, poco mi si addiceva, spocchioso verso gli spocchiosi.

Per lavoro ho deciso di prendere queste caratteristiche caratteriali, l’essere strafottenti, poco inclini a fare comunella con gli altri, il guardare al potere e al provincialismo con ostilità, come tratti distintivi, andando in qualche modo a disegnare un personaggio, questo sono, un avatar, un nome, un brand, che fosse abbastanza originale da potersi ritagliare uno spazio nel “mercato”.

Sono diventato il villain, il cattivo, quello che demolisce i BIG, l’anarchico che attacca i re, usando anche l’ironia, il giullare, ma il giullare cattivo, il Joker, quello che uccide il re e che ha poche riverenze per il sistema, spesso dando fuoco ai soldi, e non metaforicamente.

Per poter essere un villain, la storia della letteratura e del cinema mica sta lì per niente, ho dovuto calcare la mano su certi aspetti, anche somatici. Quindi popolano, vengo da una città col porto, ma colto, noi cittadini abbiamo le scuole e l’università pubblica in una regione dove prosperano quelle private, vedi Urbino e Camerino, irriverente ma moralizzatore, vedi tu che mix tra anarchia e chiesa sono riuscito a mettere in piedi, pronto a affrontare qualsiasi avversità e al tempo stesso capace di dare fuoco alla nave prima di gettarmi in mare.

Senza girarci intorno, sapete già tutto, il linguaggio crudo, volgare, violento, le citazioni colte, pop, ricercate, le metafore animali, i gesti eversivi, minatori, provocatori, eversivi, la faccia da duro, il profilo greco su barba e capelli lunghi, le felpe delle squadre di calcio, i codini, gli occhiali rosa, la mazza da baseball.

Un villain che la Disney ci potrebbe fare una serie in men che non si dica.

Per altro un villain che ha anche un gran cuore, le parole di zucchero verso mia moglie, quelle di miele per i miei quattro adorati figli, le tante energie spese per le mie amate cantautrici, i paragoni altisonanti per gli indipendenti che fanno da contraltare alla merda buttata sui giganti addormentati. Insomma, sono cattivo, ma cattivo davvero.

Chi prova a imitarmi, ripeto, ce ne sono tanti, manca di questo background, non giocava le partite coi greci, “una faccia una razza”, non si prendeva a sassate coi fasci, non ha imparato a tuffarsi in acqua alta perché da noi il mare non prevede il bagnasciuga, non ha avuto la Democrazia Cristiana di Forlani a due passi, quel senso di rivalsa verso i pedocchi rifatti, gli arricchiti immeritatamente, la consapevolezza che il talento può in qualche modo ripagarti di uno stato sociale non all’altezza di chi ti sta intorno.

Copiare solo lo stile, provateci poi, se ci riuscite, senza tutto questo è solo un dire le parolacce, stroncare gratis qualche grande, ma niente di più.

Sparare forte, ma con una pistola a salve. Puf invece di boom.

Forma senza sostanza, e anche in quanto a forma, lasciatemelo dire, niente di originale, la matrice è ancora qui, viva e operante.

La cosa che però mi fa sorridere, e non sto certo parlando degli wannabe, quelli più che altro mi fanno immalinconire, è questa faccenda del villain che da sempre, per codice geografico, sfotte i villani, e nello sfotterli è villano.

Non credo serva un pupetto come quello dei fogli di istruzione dell’Ikea per spiegare quanto ho scritto, ma in caso, eccolo: quando scrivo sono quello cattivo, il villain, l’anconetano che sfotte quelli dell’entroterra, i villani, appunto, i villici, i contadini, i grezzi, e nel farlo sono volgare e violento, scortese e irriverente, un villano, in sostanza.

Un gioco di parole stupido, in apparenza, ma neanche tanto, perché per dirla con la scena abusata di Palombella rossa, le parole sono importanti, e non è che avevamo bisogno di Stefano Massini per farcelo raccontare.

Villain villano vs villani.

Del resto, se il villain è tale perché contrapposto ai buoni, questo il suo luogo nelle storie che finiscono nei libri e nei film, salvo poi, pensiamo a Maleficient, scoprire che la cattiva poi così cattiva non è, rovesciamento di campo telefonato ma ben raccontato, chi decide di vestire i panni del villain, come me, ma a puro scopo narrativo, in realtà con intenti eversivi e moralizzatori, ha bisogno sì di nemici riconoscibili, il sistema, i corrotti, i latori della musica risibile e ridicola, i BIG che si ostinano a perpetrare porcherie occupando militarmente il mercato, ma anche di un braccio destro, figura in genere a appannaggio dei buoni, Robin che si prende gli schiaffi da Batman credo il meme più abusato degli ultimi anni, e che Batman sia un buono, se vi va, parliamone.

Cosa di meglio, quindi, di un partner che è al tempo stesso identificabile come un bravo ragazzo, è una questione di facce, certo, e di modi, ma che per certi versi indossi anche gli abiti del villano, nel senso primario del termine, di quello che viene dall’entroterra, appunto?

Per questo, anche per questo, sono solito lavorare con Mattia Toccaceli da Castelfidardo. Perché lui ha la faccia da bravo ragazzo. Perché lui interpreta alla perfezione il ruolo dell’ingenuo e candido che si lascia bullizzare dal cattivo, cioè da me, e badate bene che ho detto interpreta, non che è. Perché lui è di un paese dell’entroterra, fatto che magari ai più può essere sfuggito, ma non a me, e neanche a lui. In realtà ci lavoro perché è un grande professionista, che sa indossare una maschera, ma se glielo dicessi pubblicamente verrebbero meno i ruoli, quindi prendete per buone solo le parole che ho scritto sopra. Io sono il cattivo e lui il buono. Una coppia di fatto.

Questo ovviamente è un discorso di forma, non di sostanza, perché quando si lavora in coppia è evidente che i ruoli siano ruoli, i personaggi personaggi, poi come nei fatti siamo realmente io e lui, beh, saranno anche fatti nostri.

E si torna sempre al punto di partenza, la brand identity.

Si lavora di cesello, si costruisce un brand e lo si supporta con una narrazione mirata, costante, lavorando sia sui dettagli, le rifiniture, che ovviamente sul corpo, sulla figura. Imitare le Adidas aggiungendo una quarta striscia in diagonale non è lavorare sulla propria brand identity, cari wannabe, è provare a racimolare qualche briciola lasciata sotto il tavolo, suonare in una tribute band è la medesima cosa, la gente che viene a sentirvi, vi veniva a sentire, dovrei dire, cerca un surrogato, ma lo cerca mentre beve birra e chiacchiera, non è certo voi che sta ascoltando con attenzione.

Non so che rapporti gli artisti abbiano con quelli che si vestono come loro, provano a imitarne il cantato e fanno serate nei pub provando a attirare il loro pubblico, per parte mia avere così tante “tribute band” in giro per giornali è qualcosa che, se possibile, mi fa più ridere dell’accento da contadini di certi villici che si incontrano al mare la domenica d’agosto, li riconosci subito, loro, sono quelli col segno della canotta e la bruciatura sulla pelata, i vincisgrassi dentro i contenitori termici e paura di entrare in acqua perché è fredda e magari ci sono le meduse. Vi guardo e da bravo newyorchese canticchio tra me e me: “la civiltà/ è bella ma/ viva la campagna/ viva la campagna”, Nino Ferrer la sapeva lunga, forse anche troppo.