Fenomenologia di una saudade hardcore, in compagnia dei Pixies

La musica non sempre è in grado di salvarci la vita, ma già il fatto che ci aiuti a pensare ad altro mi sembra abbastanza


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Ho più volte esternato il pensiero che aver reso la mia scrittura collegabile a una voce, la mia voce, sia stato un errore. Non che potessi immaginare che ci fosse un Roberto Pedicini a darle colore, intendiamoci, non sono Jack Folla, un personaggio slegato a una persona, seppur Diego Cugia sia a sua volta persona reale, ma proprio perché credo fortemente, e lo credo anche adesso, mentre sto scrivendo, che la parola scritta abbia di suo una potenza anche maggiore di quella pronunciata a voce, fosse anche recitata.
Per altro, ai tempi di Monina Against the Machine, il mio programma serale a Rtl 102,5, programma che a breve entrerà in scena più pesantemente, Pedicini è arrivato in studio, lui è uno degli speaker di Radio Freccia e anche la voce ufficiali degli spot del network di Lorenzo Suraci, dicendomi, con la stessa voce di Jack Folla, di George Clooney e dei tanti altri attori che è solito doppiare nei film, che era un mio fan, fatto che ha reso la cosa quanto mai surreale, ma questo è un dettaglio irrilevante per quel che vi sto raccontando, mi volevo giusto vantare un po’, alla Maurizio Milani.
Ho esternato questo pensiero perché la mia voce non è molto associabile alla mia penna, il che fa piuttosto ridere, suppongo, visto che la mia voce è la mia voce tanto quanto la mia penna è la mia penna.
Credo sia come vedere uno alto due metri, spalle larghe, fisico tornito da anni di palestra, qualche cicatrice sul volto, e sul corpo, lo sguardo di chi ti ucciderebbe anche solo per il gusto di farlo, insomma, un incrocio tra un wrestler e un killer, e poi, una volta che apre bocca, sentire che ha la voce di Mario Giordano, e so che dire questo potrebbe suonare come un atto di body shaming, ma onestamente se pensate che usare la reale voce di una persona come esempio di una voce che difficilmente assocereste a una tipologia di fisico per voi è body shaming a fare body shaming siete solo voi, che ritenete che il fisico da me descritto sia in qualche modo più “importante” della voce di Mario Giordano (dubito qualcuno di voi abbia pensato io stessi facendo in caso body shaming al fisico palestrato).
Insomma, ho una voce che non è riconducibile alla mia penna, ho una cadenza marchigiana, quindi poco spigolosa, volendo anche dolce, parlo in maniera pacata, senza osticità, penna e voce sono davvero due cose diverse.
Ciò nonostante, mentre ero in radio, ma anche quando raramente mi capita di andare in televisione, e soprattutto nei video che faccio sui social e più in generale quando faccio eventi che contemplino in qualche modo la presenza di un pubblico, badate bene, di pubblico, non di lettori, tendo a usare la mia voce per dire quello che scrivo, associandola quindi a quello che è il mio pensiero.
Il che è come dire che è la mia voce a essere in caso inappropriata, non certo la mia penna. Certo, la faccenda è un po’ più complicata di così, già a partire dal fatto che ho imparato a parlare prima che a scrivere, e perché spesso mi è stato rinfacciato di non essere altrettanto veemente di persona, parlo di quando appunto ho di fronte un pubblico, virtuale, quando cioè il pubblico è dall’altra parte di un qualche media, radio, tv o social che sia, o reale, quando cioè parlo dal vivo, di quanto io non sia mentre scrivo, ma converrete che scrittura e oralità non sono la medesima cosa.
Fare una battuta, ricorro spesso all’ironia, credo di poter dire che in alcuni casi anche alla satira, sono canoni disponibili per chi comunica, non vedo perché non dovrei farlo, e che cazzo, per iscritto non è la medesima cosa che farla a voce alta, e spesso la comunicazione richiede una precisa applicazione alla modalità in cui la si pratica.
A fronte di questo, poi, mettiamoci anche che raramente mi capita di parlare a voce alta con chi in genere stronco, quello è il punto focale, credo, di chi mi rinfaccia il mio essere morbido, io non mi sottrarrei certo al confronto ma suppongo la controparte non abbia gran voglia di avere a che fare con me, e poi c’è anche questa faccenda della buona educazione.
Sì, sono ben educato, quindi se ho di fronte chicchessia tendo a salutarlo, a rapportarmici in maniera civile, e solo un cretino potrebbe pensare che questa modalità non sia rispettata nella mia scrittura, perché lì non è certo l’educazione a mancare, non parlo praticamente mai di persone, ma di opere, della serie, se anche la tua musica mi fa profondamente cagare non è che per questo io non ti debba salutare o ti debba mettere le mani in faccia.
Poi, è ovvio, ci sono situazioni in cui anche di persona sono veemente, sbrocco, ma è capitato di rado nelle mie comparsate pubbliche, perché fortunatamente ho sempre avuto con me partner che sanno gestire le varie situazioni, anche quelle che scivolano verso la tensione.
A volte mi capita di diventare un po’ più irriverente, certo, specie quando sono particolarmente stanco, tendo a fare un uso spericolato del politicamente scorretto, ma quando scrivo sono affilato più di quanto parlo, non ho momenti di stanchezza, sono più lucido, perché la parola scritta è il mio mestiere di partenza, quella parlata lo è diventato nel tempo, mio malgrado, aggiungo.
Mi capita infatti spesso di pensare che aver associato la mia voce alla mia penna sia stato un errore, cosa che invece non posso dire dell’aver associato la mia penna alla mia faccia, decisamente più spigolosa e dura della mia voce, su questo confesso di aver un pochino lavorato, ma avendolo ormai io fatto, è praticamente impossibile tornare indietro.
Per intendersi, volessi ora io scomparire, come un Salinger o un Pynchon, per rimanere alla parola scritta, o come un Daft Punk redivivo, sarebbe impossibile. Ormai ci sono centinaia di ore n rete di me che parlo, in radio, in tv, sui social, anche volendo provare a rimuoverle spunterebbero di nuovo fuori.
Anche per questo, non solo per questo ma sicuramente anche per questo, mi capita a volte di sentirmi dire, succede in realtà quotidianamente, da chi mi legge e si sente di commentarmi, spesso in chat private, cui raramente rispondo non per maleducazione ma per oggettiva mancanza di tempo, a volte anche di persona, quando ancora esisteva una vita sociale o quando mi capita di incontrare o sentire qualcuno che conosco nella vita non virtuale, che leggendomi è facile immaginare le mie parole lette con la mia voce.
Ora, non so che idea si abbia di me, uno che in effetti ha scritto così tanti libri, ottanta e entro l’anno arriveremo a ottantaquattro, che scrive in maniera così bulimica e quotidiana, ma leggere a voce alta quel che scrivo è praticamente impossibile. Non credo ci riuscirebbe neanche Pedicini, per capirsi, se vuole provarci ben felice di ascoltarlo.
Scrivo frasi lunghissime, piene di incisi, di relative, con periodi che spesso superano la mezza pagina, a volte la superano abbondantemente, senza lasciare spazio al respiro, richiedendo, in maniera forse arrogante, che chi mi legge debba a volte tornare indietro, per ricordarsi da dove sono partito, per ricongiungere fili che dopo un po’ si perdono nei meandri del discorso, già quest’ultima frase, in versione mignon, credo renda bene l’idea, come cavolo potrei mai saper leggere tutto questo a voce alta?
Mica sono un attore?
Sono uno che scrive, e che scrive complicato, volutamente complicato, non sono uno che scrive monologhi.
O meglio, ne scrivo, ma quando scrivo monologhi scrivo monologhi, non quando scrivo questi miei pezzi, i capitoli del diario del lock down, oggi, ma più in generale quando scrivo in questa mia maniera così personale.
Quindi fatico anche solo a pensare che qualcuno riesca a immaginarsi ciò, mentre scrivo io non lo faccio mai, ma siccome mi viene detto praticamente tutti i giorni, “Quando ti leggo mi immagino la tua voce che legge quello che hai scritto”, provo a dare per assodato che tutto ciò risponda al vero, e che chi mi legge tenda, immagino per eccesso di stima, a supporre che io saprei fare una cosa che in realtà supera le mie capacità personali, lo dico serenamente. È anche vero che quando parlo tendo a usare uno stile simile, molte parentesi, molte relative, incastri dentro i quali difficilmente c’è spazio per l’inserimento di un’altra voce, ma fidatevi, siete troppo buoni con me se pensate ciò.
Dando però ciò per assodato, oggi vi invito a fare questo esperimento, e converrete che aver fatto un cappello di millequattrocento parole per arrivare a dire che oggi vorrei che voi facciate un esperimento con me è qualcosa che non solo rende quanto su detto fisicamente tangibile, ma che potrebbe serenamente essere usato da un esperto per farmi internare, interdire dai pubblici uffici e forse anche togliere la patria potestà.
L’esperimento che dovete provare a fare è semplice, col che non sto certo dicendovi che se fosse complesso non ci riuscireste, in alcuni casi è così, ma non mi piace star troppo a bullizzare chi comunque passa del tempo in mia compagnia, è proprio una constatazione elementare, quel che vi sto per proporre è semplice, tant’è, dovete immaginare che quello che sto scrivendo, direi a questo punto a partire da qui, a meno che non abbiate un cazzo da fare e vogliate tornare indietro applicando questa mia richiesta anche alle a questo punto oltre millecinquecento parole fin qui scritte, dovete immaginare che quello che sto scrivendo sia letto magari sempre dalla mia voce, so che altrimenti vi chiederei davvero troppo, ma con una cadenza vagamente portoghese.
Lo so, qualcuno avrà sghignazzato, perché esiste una simpatica gag di Neri Marcorè, che della mia regione, le Marche, è uno dei personaggi più noti, a lungo usato dalle amministrazioni locali come testimonial, chissà ora che c’è la destra a chi ricorreranno?, esiste questa gag nella quale Neri Marcorè, in compagnia di Luca Barbarossa, col quale da anni lavora in radio, rappresenta in maniera veloce, come fosse una carrellata, tutte le cadenze della regione, una dopo l’altra.
Le Marche sono una regione strana, il nome plurale già lo attesta, con tante cadenze diverse, spesso simili alle regioni confinanti. Pesaro sembra romagnolo, pensate a Valentino Rossi, marchigiano di Tavullia, Ascoli sembra abruzzese, Macerata sembra umbro o ciociaro, Ancona, questa l’idea di Neri, sembra portoghese, una cadenza musicale, slabbrata, roba da fado o bossanova. Se cercate in rete lo trovate facilmente, non ho voglia di farlo io per voi, già sto scrivendo, mica volete anche una fetta di culo?
Visto? Bene. Tutto vero, immagino, anche se alle orecchie di chi marchigiano non è credo che tutti i dialetti suonino abbastanza simili, ai primi tempi milanesi anche per me bresciano e bergamasco sembravano simili, oggi ne colgo tutte le differenze, quello che però vi vorrei chiedere è di calcare su questo fronte, pensarmi come fossi Josè Altafini che parla alla Domenica Sportiva, e qui, immagino, ho sostanzialmente tagliato fuori dal discorso chiunque non sia un boomer o un Generazione X, amen, andate a cercarvelo su Youtube, bimbiminkia del cazzo.
Se posso, e a questo punto direi che anche un lettore casuale, che non abbia idea di chi io sia (non sto dicendo che io sia qualcuno, nel senso di “stocazzo”, intendo proprio letteralmente che non mi abbia semplicemente mai letto, è pieno il mondo di gente come voi, lo so bene) e quindi di come io scriva, se è arrivato fin qui si sarà in qualche modo accomodato su questo divano, avrà dato per buono uno stile personale, avrà trovato un qualche punto di interesse, magari non necessariamente positivo, ma ciò nonostante è qui, ti voglio bene fratello (inteso in senso patriarcale, quindi sia sorella che fratello), anche un lettore casuale può seguire in maniera totalmente fiduciosa ogni mia bizzarra indicazione, a questo punto vi chiederei di fare un ulteriore passaggio, provate a immaginare che la mia voce, quella che vi sta sostanzialmente recitando nelle orecchie queste mie parole, sia in realtà quella di Marisa Monte.
Due brevi digressioni, stavolta necessarie più che compiaciute.
Primo, se non sapete chi sia Marisa Monte iniziate col vergognarvi pesantemente, roba da provare rossore alle guance, un groppo allo stomaco, magari anche un senso di repulsione verso voi stessi, abbastanza da ricorrere a una qualche forma di autolesionismo non spinto, Marisa Monte è una delle più grandi artiste brasiliane, nonché mondiali.
Magari avete presente i Tribalistas, che ormai una vita fa hanno sfornato una hit globale, Ja sei namorar, ma capre come siete facile che neanche questo nome e questo titolo vi dica qualcosa, andatevela a cercare, cazzo, siamo nel 2021, avete tutti un device a portata di mano. Secondo, una volta che avete capito chi è Marisa Monte, sempre che sia possibile capirlo in un lasso di tempo così breve, magari ne avete appena intuito la grandiosità, appuntatevi mentalmente questo nome e fatene buon uso negli anni a venire, provate a applicare quella voce, e volendo anche quella faccia alle mie parole, ho anche io lunghi capelli mossi.
Certo, l’effetto sulle prime potrebbe suonare come certe imitazioni sceme dei trans che si trovano lungo certe strade statali di notte, anche qui, fermi e buoni, non sto lasciandomi andare a derive leghiste o razziste (che poi sono la medesima cosa), sto facendo un racconto e per fare un racconto devo contestualizzare, ricorrendo a una immagine presente nell’immaginario comune, magari macchiettistica, certo, ma con un buon appiglio alla realtà, quando ero giovane la strada Statale 16, superata la raffineria dell’Api di Falconara e andando verso nord, era una sorta di lunga colonna di auto ferme per contrattare con prostitute che rispondono esattamente a questa descrizione, se ciò è sufficiente per bollarmi di razzismo, farmi dichiarare guerra da Bolsonaro o mettere al bando da chiunque sia appassionato di Brasile, beh, andate a cagare e provate a farvi curare da qualcuno in grado di spiegarvi la differenza tra vostre proiezioni personali e ciò che avete di fronte.
Quindi, ribadisco, pensatemi letto dalla voce di Marisa Monte, in sottofondo, suggerimento non richiesto, la melodia malinconicissima di O que me importa, terza traccia di quel capolavoro assoluto, e non sto circoscrivendo l’area della discografia della sola Marisa Monte, con quel “assoluto”, parlo in termini universali, dal titolo Memorias, Cornica e Delcaraci, prodotto da quell’altro genio assoluto di Arto Lindsay con la stessa cantautrice.
Ci siamo.
Ci state riuscendo?
Spero di sì, sforzatevi in caso contrario.
Adesso giuro che parto, ma devo fare una precisazione. Necessaria. Ho provato a indurvi a associare la mia scrittura a una voce bellissima, in qualche modo innalzando quel che faccio a qualcosa di inarrivabile. Non era mia intenzione fare paragoni, non perché io ecceda in modestia, semplicemente non era proprio questa la mia intenzione. Non credo ci sia bisogno di portare prove a mio favore, tra lettore e scrittore c’è di base un rapporto di fiducia, prendere o lasciare. Ho fatto una richiesta a chi mi legge, in qualche modo sovvertendo a quel patto fiduciario, perché già chi scrive chiede cieca fiducia, ogni surplus è appunto un di più. Nel farlo, però, e nel chiedere di associare la mia penna, che ho descritto come irriverente e ostica a una voce e una musica, O que me importa, decisamente dolce e aulica, malinconica, anche, ho infarcito il mio scritto di improperi rivolti a una parte di chi mi stava leggendo, dando loro delle capre, degli ignoranti, degli incapaci. Certo, ora, parlandovene a cuore aperto, ho parlato di un non meglio specificato “loro”, non di un “voi”, giocando la carta del paraculo che prova a tirare il lettore dalla sua parte, non è di voi che sto parlando, ma di altri, il sottotesto, ma resta la bizzarria di insultare colui che ti legge e insultarlo mentre gli stai anche chiedendo qualcosa di non canonico.
Non è causale. Attenzione, non è casuale.
Volevo dare di me un’idea precisa, e cioè quella di uno che è sì lucido, parla con freddezza del suo mestiere, con una analisi che per altro non fa neanche tanti sconti dettati dal narcisismo, ma volevo che si intravedessero crepe, nette, visibili a occhio nudo, come quelle dei palazzi martoriati dal terremoto su cui qualcuno, immagino un giovane geologo, ha attaccato un vetrino, tanto per vedere se si sta allargando, in tal caso il vetrino si spezzerebbe, lucido, quindi, ma sotto pressione, al limite. Crepe, quindi, uso una metafora già usata, chiedo scusa a chi l’ha già incontrata in altri miei scritti, non riparate usando l’oro, come da costume giapponese, ma più che altro dalle quali fuoriescono liquami olezzanti e putridi, crepe riparate male usando merda.


Questo mi fare, ripeto, non casuale, era atto a preparare quanto segue, dove la cadenza portoghese di Marisa Monte assume lo scopo specifico di creare appunto malinconia, la saudade, una delle poche parole che tutti suppergiù conoscono di quel vocabolario lì, a parte capoeira e Caipirinha, cocktail che per altro fa abbastanza cagare, diciamolo una volta per tutte, che tenero che sono a provare a sviare dal tema centrale della fase usando le parolacce, come un bambino che vuole attirare l’attenzione dei grandi, e volevo preparare quanto segue perché è proprio di saudade che andrò a parlare.
Non scendo nella mia terra natale, quella dove stando a quel che ci racconta Neri Marcorè si parla una lingua musicale non troppo diversa dal portoghese, quella dove sono nato e cresciuto, e nella quale ancora fortunatamente vivono i miei genitori, mio fratello e mia sorella con rispettive famiglie, i miei amici di quando ero giovane, ancora tali, quella che è comunque ancora oggi la mia terra, quella in cui ho passato più tempo nel corso della mia quasi cinquantaduennale esistenza, ventotto per la precisione, dalla quale sono partito in esilio, certo, dove non ho messo su casa, non ho trovato lavoro, non ho cresciuto i miei figli, ma comunque la mia terra, il mio mare, per altro, aspetto assolutamente non secondario, non scendo nella mia terra natale da otto mesi pieni. Ho contezza che non scenderò neanche nei prossimi mesi, o almeno nelle prossime settimane, diciamo non prima di metà luglio, la Prima Comunione dei gemelli, l’esame di maturità di nostra figlia grande, più in generale il lavoro, la vita. Mai ho passato tanto tempo lontano da quella che un tempo era casa mia, ovviamente i cari che quella casa abitavano o frequentavano a pesare assai più dei luoghi, mai avevo passato tanto tempo lontano dal mare, stavolta inteso proprio come luogo fisico, non metaforico.


Capirete quindi bene la malinconia lancinante, l’assenza che arriva a occupare militarmente ogni anfratto dell’anima, leggi alla voce saudade, ma anche la rabbia mal repressa, come se a Marisa Monte, ogni tanto, subentrassero i Fugazi, colpi di chitarre elettriche distorte come rasoi, voci urlate. Se ci mettete che iniziano a circolare indicazioni su quel che sarà la nostra estate, stando almeno a questa gestione ridicola messa in piedi dal Governo dei Migliori, roba che risponde al nome di Pass tra Regioni, in sostanza per potersi spostare tra regioni di colori diversi, e vallo a sapere prima di che colore saranno le regioni, discorso che ovviamente riguarderà anche chi vorrà andare in vacanza da qualsiasi parte, dovrà avere un foglio di carta che attesti che è stato vaccinato, o che è stato malato nei precedenti sei mesi o che ha fatto tampone negativo nelle 48 ore precedenti il viaggio. Una vera assurdità, perché ovviamente nessuno ambisce a essere malato, ma anche ambendo io a essere vaccinato molto probabilmente non lo sarò, il Generale Figliuolo, quello del “da domani 500mila vaccini al giorno” ha stabilito che finiti i sessantenni si ripartirà a vaccinare per categorie professionali, vai a capire che lavoro faccio io, e un tampone a testa, se sei pater familias di una famiglia numerosa, ha un peso anche rilevante, fanno circa centoventi euro a spostamento, quindi fondamentalmente una decisione elitaria e discriminante, se ne vadano a fanculo tutti. Metteteci pure che ovviamente sarà tutto un “prenota il ristorante”, “prenota l’ombrellone in spiaggia”, e se sei parte di una famiglia numerosa le prenotazioni devono essere due, valle a fare se ci riesci, fenomeno, “evita gli assembramenti”, facevano prima a dirci morirete e la finivamo subito.


Intendiamoci, non è che io sia un professor Galli coi capelli lunghi, qui a dire che aprire tutto è stato una cazzata, cosa che in effetti un po’ penso, ma che è irrilevante, ma se aperture devono essere, che siano sensate, razionali, e che non prevedano discriminazioni. Io non avrei aperto le scuole, già l’ho detto, parlo delle superiori, non avrei neanche buttato lì la sciocchezza dei concerti e degli spettacoli, sempre in balia del colore delle regioni, fatto che ammazza qualsiasi tentativo di programmare e organizzare, per non dire dell’idiozia totale di chiedere il tampone negativo per poter accedere a cinema e ristoranti, chi mai spenderebbe venti euro di tampone, a andare bene, per poter andare a vedersi un film, o chi ne spenderebbe, parlo per me, centoventi per portare la famiglia a cena fuori, cena fuori che per ora è solo all’aperto, il che coi quattordici gradi giornalieri che scendono a cinque di notte, e col coprifuoco dalle 22, equivale a dire mangi fuori nel boschetto della tua fantasia. Insomma, è evidente che il Governo tecnico è in realtà un governo politico, e che a un certo punto la politica ha preso il sopravvento sul buonsenso, ma non è certo questo che mi immalinconisce, ricordate Marisa Monte?, o mi fa incazzare, ricordate i Fugazi?.
No, a me onestamente devasta l’idea che tutto questo si stia trasformando da una tragedia a una farsa, la finanza che subentra ai posti di comando, sempre che se ne sia mai andata, io che ambirei a vivere in un mondo come quello descritto nel da me più volte citato finale del film Fight Club, Ed Norton/Tyler Durden che stringe la mano di Helena Bonham Carter, lui in mutande e trench, la mascella ancora sanguinante, la chitarra di Joey Santiago dei Pixies che comincia a arpeggiare Where is My Mind mentre la City esplode in lontananza, “fidati, andrà tutto bene,” dice Ed, i palazzi che crollano, “mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita”, chiosa, mentre Frank Black, all’epoca Black Francis, comincia a cantare.
Ecco, se proprio vogliamo trovare un senso a questo mio lungo e contorto disquisire, vi ringrazio intanto per essere stati al mio fianco, non credo ci sia altra maniera che affidarsi proprio a Black Francis e soci, con ancora Kim Deal al fianco, addirittura, certo non arrabbiati alla Fugazi, ma sicuramente deliranti come mi sento in questo momento. Siccome mi piace sempre provare a tenere insieme le cose, anche trovando un senso là dove un senso non c’è, invece che i due capolavori Surfer Rosa e Doolittle, trainate rispettivamente proprio da Where is My Mind e Debaser, opto per un più coerente Bossanova, album forse ai tempi non abbastanza capito, figlio delle tensioni tra cantante e bassista, ma ascoltato oggi ancora un piccolo gioiello di rock alternativo. La musica non sempre è in grado di salvarci la vita, come pensavo da giovane, ma già il fatto che ci aiuti a pensare a altro mi sembra abbastanza, almeno in attesa che arrivi davvero l’estate.