Ambigram, o dell’eterna disputa tra prog e punk

Gli Ambigram sanno suonare da Dio e la loro scrittura è tale da rendere il loro essere virtuosi, qualcosa di davvero avvincente da ascoltare


INTERAZIONI: 901

Giorni fa ho avuto una mezza discussione con mia figlia grande, Lucia, la ragazza che avete imparato a conoscere attraverso le pagelle di X Factor Padre e Figlia.

Con quattro figli in casa è facile avere discussioni, specie in un periodo stressante come questo, stressante per loro, sicuramente, la dad, le incertezze sul futuro, lei deve dare l’esame di maturità e ancora non è che ci sia grande certezza a riguardo, le incertezze sul futuro più in generale, che vita li attende, che scenario si presenterà loro di fronte dopo la pandemia, la assenza di contatti sociali, l’impossibilità di essere spensierati, e stressanti per noi, inutile stia qui a farvi l’elenco, già sapete, e in genere le discussioni variano da figlio in figlio, e che a farle sia io o mia moglie.

Anzi, per questioni concernenti più che altro il carattere, va detto che le discussioni me le becco quasi tutte io, e che spesso proprio su di me sono tarate, cucite su misura. A volte, raramente, va detto, sono io a accenderle, più come esperimento antropologico, ma non capita quasi mai, lo giuro.

Con mia figlia Lucia, diciannove anni. quasi sempre, è scontro generazionale, “noi vs voi”, con ovviamente ampi spazi dedicati al patriarcato, di cui io sarei esponente, e femminismo.

Con mio figlio Tommaso, sedici anni a giugno, lo scontro è molto più violento, verbalmente parlando, lui sa che certi discorsi mi mandano fuori di testa, visioni di mondo para-fasciste, maschiliste, ottuse, e non fa che propinarmele, con il solo scopo di provocarmi, scopo che per altro raggiunge perfettamente, perché in dieci secondi mi incendio. So bene che è una strategia e che buona parte delle cose che dice le dice a mio beneficio, perché poi vedo come si comporta e sento i discorsi che fa quando non è sul piede di guerra, ma confesso che nel farmi girare i coglioni è un maestro assoluto. Del resto, è mio figlio.

Coi gemelli è tutto più elementare, ovviamente, hanno nove anni, si tratta più che altro di capricci, incartamenti da bambini, e lì la faccenda si chiude sempre velocemente.

Io, per parte mia, sono il polemista che conoscete, non mi tiro mai indietro, anzi, spesso ci metto del mio. Quando mio figlio mi attacca, nel tentativo di “uccidermi” metaforicamente per trovare il proprio spazio nel mondo e la propria identità, uso a mia volta strategie, colpendolo là dove so i miei colpi sono più efficaci, sempre e solo a scopo educativo.

Con mia figlia è diverso, perché lei è un po’ più grande, e difficilmente si iniziano discussioni che partano da cazzate quali quelle che mio figlio usa per scatenare l’insurrezionalista che è in me, solo che difficilmente io riesco a dire una frase di senso compiuto, perché alla terza parola mi interrompe e, starnazzando con la tipica voce stridula da adolescente, mi parla sopra, col risultato che se riesco a dire due parole messe in croce è giù un mezzo miracolo.

La discussione dell’altra sera, e sia chiaro che quando parlo di “discussioni” non intendo certo liti, ma le discussioni che si fanno in famiglia, magari anche animate, ma sempre nei limiti del decente, e modo unico di poter comunicare quando intorno a un tavolo si è seduti in sette, verteva prevalentemente su Tik Tok.

Ora, ho parlato di discussioni in famiglia, di figli che provano a uccidere i padri, di scontri generazionali, capisco che ora, avendo io citato Tik Tok qualcuno di voi mi avrà neanche troppo bonariamente mandato a cagare, perché  Tik Tok, è evidente, non è argomento che possa essere preso troppo sul serio.

Che poi questo, senza tanti giri di parole, era esattamente l’oggetto della mia tesi, Tik Tok non può essere preso sul serio, motivo per cui io, personalmente, su Tik Tok non ci sono.

Mia figlia, ovviamente, la vedeva in maniera totalmente contraria, se no non ci sarebbe stata la discussione, e usando il suo classico stile oratorio, ricorrendo a istanze molto in voga tra i giovani, le usavo anche io ai miei tempi, ha iniziato a dire che “tutti sono su Tik Tok”, e soprattutto “tutti lo usano per veicolare messagggi, non per fare balletti”.

L’argomento Tik Tok, va detto, era stato introdotto da Tommaso, il parricida, il quale mi aveva comunicato, così, ad cazzum, che c’era un ragazzo che in un giorno era passato da un milione di followers a dieci milioni di followers, al punto da aver ingaggiato il manager di Dybala per seguire i suoi affari. Il tutto, aveva aggiunto, facendo un video in cui, vado a memoria, beveva un bicchiere d’acqua. Mia figlia, a quel punto, era entrata, provando a spiegare cosa in realtà avvenisse in quel video, che in sostanza prendeva in giro quelli che usando delle azioni apparentemente comuni provavano a fare discorsi profondi, col che, va sempre detto, non è che l’argomento mi fosse diventato più caro.

A quel punto, giusto per chiuderla lì, povero ingenuo che sono, ho ribadito che Tik Tok era una cosa da ragazzini, e che per questo non ci sarei mai entrato. Apriti cielo.

Lucia, mia figlia, ha iniziato a farmi esempi di gente che segue lei, le nostre discussioni vertono sempre su questo, lei parla di quelli che segue, non solo sui social, anche quelli che legge, di cui apprezza le opere, dicendo frasei come “tutti dicono che”, salvo poi rivendicare di essere diversa dagli altri, e quindi di seguire solo quelli che sono meritevoli, volendo col che dire che chi segue è sì autorevole, seppur non banale, e che la sua bolla, lei non userebbe mai questa parola vetusta, è in realtà una bolla adulta e colta, profonda.

Mi ha detto frasi tipo, “tutte le femministe” sono su Tik Tok, cosa che mi ha lasciato indifferente, e a cui ho comunque ribattuto che alcune femministe ci stanno, e che comunque non è certo con video di quindici secondi su Tik Tok che si può comunicare.

Apriti di nuovo cielo.

Lucia ha detto che i video possono durare anche un minuto, e che uno di video di quindici secondi ne può fare tanti, di fila, andando a fare un discorso più lungo, solo che frammentato. Tutto vero, immagino, ma, le ho detto, mi sfugge perché dovrei stare su un social nel quale per parlare tocca frammentare il discorso e comunque farlo in mezzo a balletti scemi.

La roba dei balletti scemi, lo so, è una mia porcata, un modo per dare dei cretini a tutti quanti sono lì, giocando su uno stereotipo, stereotipo però appoggiato a sua volta su dati certi, evidenti. Lei ha detto che nella sua timeline non c’erano balletti, che l’algoritmo di Tik Tok è meglio di quello degli altri social, evidentemente, e per dimostrarlo mi ha fatto vedere la sua timeline, che su Tik Tok immagino abbia un altro nome, dove in effetti di balletti ce n’erano pochini, anche se alcuni ce n’erano, poi, per convincermi, mi ha fatto vedere il video di un ragazzo che parlava di argomenti seri come il bullismo, ma per stare nel minuto, limite massimo, parlava come le voci delle pubblicità dei farmaci quando alla fine dicono di leggere il foglietto informativo.

Ho ripetuto che a me di correre o di sentire gente che corre non interessa, che io preferisco altri ritmi e altri modi.

Ovviamente non me la sono cavata, mi ha accusato di non essere al passo coi tempi, mi ha detto che non so fare il mio mestiere perché non sono curioso, mi ha addirittura paventato un futuro incerto, dicendo una frase tipo “ricordati che i gemelli hanno solo nove anni, non metterti nelle condizioni di porre a rischio il tuo lavoro per non voler andare su Tik Tok”.

Avessi avuto modo di dire qualcosa di più di due parole di fila, continuamente interrotto, avrei detto che io da anni, in rete, in un ambito veloce, smart, frammentato, vado a passo d’uomo, scrivo articoli o pezzi, sapete che non amo chiamare articoli i miei scritti, lunghissimi, dieci volte, a volte anche quindici un articolo normale, con continue relative, parentesi, difficile da scrivere ma decisamente più difficile da leggere, roba che richiede almeno dieci minuti di tempo, a fronte di un tempo medio di lettura in rete che si aggira intorno ai ventotto secondi, perché mai dovrei di colpo mettermi a usare la sintesi, con video di quindici secondi per gente che, se vede un ragazzo che beve un bicchiere d’acqua, si esalta e lo segue, non è che i dieci milioni di followers ce l’avesse una femminista o un intellettuale, ho concluso, ma un video scemo, video scemo che ha fatto cento milioni di views, fanculo Tik Tok. Il ragazzo che parlava veloce di bullismo, per dire, ha fatto ventisettemila views, non cento milioni.

Ovviamente ognuno di noi è rimasto sulla propria posizione, io con la mia lentezza complicata e cervellotica, lei con i video veloci e frammentati.

A questo punto dovrei esibire il mio essere tornato sui miei passi, essermi scaricato Tik Tok, averlo trovato interessante e via discorrendo. Ma non è successo niente di tutto questo.

Continuo a pensare sia un social rivolto ai ragazzini, e stare su Facebook, Instagram, Twitter, Twice e Clubhouse mi sembra già anche troppo per uno che nella vita avrebbe solo voluto scrivere senza troppe rotture di coglioni.

Se sono partito dalla discussione con Lucia riguardo Tik Tok è per un motivo molto semplice, volevo parlare proprio di scrittura, la mia scrittura, e di comunicazione, e di come la scrittura, non solo la mia, e la comunicazione sia sì un argomento che mi sta molto a cuore, non perché è il mio lavoro, non credo che chiunque svolga un determinato lavoro poi se ne stia lì a ragionarci su e a ragionarci su pubblicamente, lavora e basta, quanto piuttosto perché il mio lavoro, la scrittura, e una porzione rilevante del mio lavoro nello specifico, la scrittura riferita alla critica musicale, proprio con la forma del linguaggio è andata oggi a impattare, fatto che mi ha suggerito di partire da lì, me e Lucia che parliamo di Tik Tok, sicuramente pretestuosamente, ma porco cazzo fatto con tanto stile.

Mi definisco da sempre punk, credo lo sappiano anche i sassi. Ho un linguaggio crudo, sporco, volgare, che spesso ricorre all’invettiva, a tratti quasi violento. L’ironia è parte fondante della mia poetica, certo, ma vengo quasi sempre descritto come “cattivo”, “temibile”, “temuto”, e chissà quanta gente mi definisce più semplicemente “stronzo”.

Sono punk, quindi, iconoclasta, irriverente, eversivo, uno che attacca i grossi, i Big, le mie querelle con Laura Pausini, Biagio Antonacci e tanti altri sono leggenda, ma anche il sistema, le inchieste sulla triade, prima, su Friends and Partners, sui conflitti di interessi di Baglioni e di Amadeus, sempre in maniera schietta e strafottente, anche definirmi come mi sto definendo è spavaldo e iconoclasta, sono un cazzone che si crogiola nel suo essere cazzone, un punk, appunto, che per di più fa continuo ricordo a un gergo parlato, poco istituzionale, assolutamente informale.

Tutto vero, lo sto scrivendo io, come potrei mai negarlo.

Ma in realtà la mia scrittura è tutto fuorché punk.

A meno che non si voglia pensare che il punk sia attitudine, e non forma, o attitudine a prescindere dalla forma.

Del resto, Elvis Costello è punk, su questo credo si siano espressi già in molti, come da noi lo è Enrico Ruggeri, ma in entrambi i casi il passare dai brani ruvidi e veloci, apparentemente grezzi a quelli con orchestra sinfonica e armonie complesse è un attimo, i riferimenti alla musica francese, a Burt Bacharach, i beatlesismi, le citazioni letterarie, le liriche forbite, un linguaggio desueto per il rock, al punto da reclamare paragoni con la musica colta, alta, tutto sembra andare in altra direzione da quella che in genere associamo ai punk, gente che sa suonare poco e male, che parte da un’urgenza e che su quella si concentra.

Ecco, forse sono davvero punk, allora.

Almeno a volerla vedere così.

Vaglielo a dire tu a Patti Smith che è una grezza e rozza, o vallo a dire tu dell’opera di Lou Reed.

Mi sto confondendo. E sicuramente sto confondendo anche voi.

Sono punk, ma non sono punk.

In realtà, provo a togliere dal campo visivo l’attitudine, mi concentro sullo stile, sono prog. Il prog, da progressive rock, è quanto di più lontano dal punk, per certi versi, la musica alta, ipertecnica, quasi versione rock della classica, che ha ispirato la rivoluzione punk, contro la quale i punk si sono messi a far casino. Sì, sono prog.

Un mio pezzo qualsiasi, anche questo che state leggendo, è costruito come un insieme di pezzi che si intrecciano, come certe suite e interludi dei dischi prog.

Sono partito parlando della mia famiglia, descrivendo una tipica discussione postprandiale, poi sono passato a parlare di scontri padre-figli, arrivando infine a parlare di Tik Tok, più pezzi che si trovano uno a fianco all’altro, con continui ritorni, come certi riff, certi giri, poi sono passato a parlare di musica, di punk e di prog, e siamo ancora lì, facendo citazioni, alcune alte e alcune basse, alla mia maniera, postmodernismo a gogo, e anche questa è una citazione, un linguaggio sporco e gergale, il mio, qualche parolaccia qua e là, ma inserito in una scatola complessa, difficile da gestire, segno di una padronanza della lingua e di un virtuosismo solo apparentemente grezzo, in realtà tutt’altro.

Questo mio scriverne, poi, citarmi, è una sorta di replica, di mimesi, di quegli assoli lunghissimi che nel prog erano assolutamente di casa, lo sono ancora, alla faccia dei tre accordi e le melodie elementari del punk.

Eh, va beh, ma tu sei quello con le felpe del West Ham o della Svezia, con la mazza da baseball di Negan, con gli occhialoni rosa e i codini alla Frank Zappa, cosa c’entri con la musica prog, presumibilmente andandola a identificare tout-court con i doppiopetti esibiti ultimamente sui famosi video in compagnia di sua moglie Toyah da Robert Fripp?

Ecco, lasciamo da parte Fripp, un attimo, concentriamoci su Frank Zappa. Tranquilli, non intendo dilungarmi, ho già messo talmente tanta carne al fuoco che mi sarebbe impossibile, forse, spostare il discorso su Zappa senza scivolare nell’ovvio, o, peggio, nello sciatto, come inserire un giro di Do dentro un pezzo di dodici minuti, gesto imperdonabile, converrete con me.

A vedere i suoi baffoni neri, i capelli raccolti nei su menzionati codini, i pantaloni fluo e le magliette larghe, le maniche tagliate alla bene e meglio, tutto si sarebbe potuto pensare di Zappa tranne che fosse un grande compositore, capace di passare con estrema naturalezza da un rock quasi classico, non nel senso progressive di vicino alla musica classica, ma classico nel senso di rivolto alla tradizione del rock medesimo, quanto di scrivere partiture per orchestre sinfoniche, album strumentali quasi in odor di fusion, vere e proprie opere di musica contemporanea, quelle sì con riferimento alla musica che viene solitamente chiamata “classica”, quella, per intendersi che si studia nei Conservatori, luoghi, i nomi non si trovano lì per caso, non esattamente bendisposti nei confronti del nuovo, nei fatti, però, questo era Zappa, un artista coltissimo, un intellettuale prestato solo in apparenza al rock ‘n’ roll, nei fatti complesso e ostico, alto più che basso.

Attenzione, non sto azzardando un paragone tra la mia scrittura e la musica di Zappa, sono sì un cazzone spavaldo, ma non sono un cazzone spavaldo e suicida, sto semplicemente dicendo che non è certo l’abito a fare il monaco, e che se in qualche modo lo fa, l’abito il monaco, lo fa proprio perché certi riferimenti, le felpe delle squadre di calcio, gli occhialoni e i codini, lo fa perché l’estetica è più facilmente fruibile della letteratura, e citazione per citazione mi andava di giocare anche nel mostrarmi, se proprio dobbiamo esserci che almeno ci si possa permettere di giocare, e che cazzo.

Sono quindi punk, ok, ma sono anche progressive.

Il che potrebbe generare un corto circuito, come di un cattivo che in realtà è buono, toh, ma chi l’ha visto mai, o di un buono che in fondo tanto buono non è, anche qui, inaudito e inedito.

Lo so, a questo punto vi stareste chiedendo se intendo andare a parlare di uno di quei geni assoluti che risponde al nome di Mike Patton, o Les Claypool, ma quel “stareste” invece di un “starete” dice ai più distratti, spettatori passivi e non attivi di questo passaggio, quel che il titolo avrebbe già dovuto dire più che chiaramente, perché di artisti che sono punk, come attitudine, e prog, come capacità tecnica e filologica, nel rock contemporaneo ce ne sono e anche di notevoli.

Ma appunto, i titoli sono lì per quello, tutto questo mio parlare, simulare, imitare, ricreare uno stile, prog, è atto a incuriosirvi e spingervi a ascoltare il lavoro di una band che ha nel rock progressive la sua musica di riferimento, e che risponde al nome di Ambigram.

Un gruppo che ha da poco dato alle stampe l’album d’esordio, eponimo, ma che vede nelle sue fila volti che chi, come me, segue la musica, ben conosce, e da tempo.

Gli Ambigram, infatti, sono in realtà quattro teste pensanti della nostra musica, Francesco Rapaccioli alla voce, e che voce, Beppe Lombardo alle chitarre, Gigi Cavalli Cocchi alla batteria e Max Marchini al basso.

Quattro grandi professionisti della musica, spesso a fianco di nomi noti della nostra musica leggera, quattro artisti che finalmente, verrebbe da dire, si ritrovano per dar sfogo alla propria passione per un rock cerebrale e complesso, che però ha l’incredibile dono di fluire liquido e leggero che è un piacere, con i cambi di ritmi e di melodia, gli arditi giri armonici, le prove di forza, si tratti di voce, mai arzigogolata anche se il genere potrebbe portare a strafare, o alla chitarra solista, il miracolo di suonare come un’orchestra pur essendo solo in quattro (tre soli sono gli ospiti, Paola Folli, grandissima voce, ospite in Sailing Home, Paolo Tofani, ex Area, mica pizza e fichi, le cui chitarre impreziosiscono coi propri assoli L’Absinthe e Patchwork, e Camillo Mozzoni, ex primo oboista della Scala presente nei brani Cerberus Reise e la già citata Patchwork).

La presenza di Greg Lake, quel Greg Lake lì, dei King Crimson e di Emerson, Lake and Palmer, alla co-produzione di A Meditteranean Tale, con la band, è, servisse, prova di una credibilità che di suo scaturisce da ogni singola nota di questo lavoro, un lavoro solo in apparenza fuori dal tempo, nel senso di antico, ma che appunto fuori dal tempo in quanto capace di astrarsi e farsi eterna è.

Saper suonare, saper scrivere non basta a rendere l’opera di chi suona e scrive qualcosa di pregevole, è evidente, il mestiere senza talento può essere sterile, tanto quanto essere dotati di organi sessuali e farne un uso congruo alla riproduzione non necessariamente genera figli, ma sicuramente non saper suonare e non saper scrivere, come non avere il cazzo, per dire, non porta da nessuna parte.

Gli Ambigram sanno suonare da Dio, provare per credere, e la loro scrittura è tale da rendere il loro essere virtuosi, attenzione, virtuosi, non leziosi, qualcosa di davvero avvincente da ascoltare.

Volessi a questo punto passare per un vecchio brontolone che si compiace dell’esserci stato quando la musica non veniva concepita per finire in quindici secondi di video su Tik Tok potrei dire che questo primo, mi auguro, album omonimo è un lavoro di altri tempi, di quando la musica veniva suonata e cantata come Dio comanda, e che aveva lo scopo di aprirci la mente a viaggi dove solo la fantasia, pilotata dall’ispirazione, può portarci.

Ma se lo facessi poi mi figlia mi direbbe che non ho a cuore il futuro dei gemelli, e che col mio scrivere sono volutamente ostile alle nuove generazioni. Quindi mi limito a suggerirvi di ascoltare gli Ambigram e di farlo per voi, per me, o anche solo per non darla vinta a quei cento milioni di bimbiminkia che hanno visto il video di un ragazzo che beve un bicchier d’acqua facendone una star.