Tu da che parte stai, dalla parte di chi ruba le hit o di chi le ha scritte

Ermal Meta si è dichiarato vicino agli artisti "derubati": lo esorto ad iniziare a fare i nomi e mi propongo come amplificatore


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Certo che la gente è strana forte, eh. Sì, parlo di voi. Di voi che leggete, e fin qui niente di particolarmente preoccupante, anche se nell’epoca frammentata che viviamo il fatto di leggere suppongo potrebbe essere serenamente catalogato come stranezza, ma soprattutto di voi che, dopo aver letto, mi venite a cercare per dirmi cose, per commentare, certo, ma anche per rimproverarmi con aria di questura, per suggerire, potremmo dire, ma col tono minaccioso di chi non è stato messo al corrente di quella quisquilia del libero arbitrio.

Sono anni che ho messo da parte quello che sarebbe il core business del mio lavoro, parlo del mio lavoro di critico musicale, siete qui, non davanti alle pagine di un libro, quindi il parlare specificatamente di musica, dissertare, più o meno vagamente, di melodia, armonia, ritmo, dinamica, e il tutto per vestire i panni del Savonarola della musica, sfoderare il dito indice e mettermi da qualche parte, il viso accigliato, il ghigno storto di chi è abbastanza schifato da quel che vede, il monito moralizzatore sempre pronto da far esplodere. Al punto che è stato un attimo che passassi dal ruolo di Savonarola a quello di Cassandra, il mio indicare che le cose andavano male, che mentre si stava tutti ai banchetti a ubriacarci e mangiare succulenze, nel mentre, i barbari erano entrati e stavano devastando tutto, di più, che mentre eravamo distratti dai banchetti, gli stessi che pensavamo essere i commensali stavano devastando tutto, lasciando macerie laddove sarebbero dovute esserci palazzi e costruzioni, so che sto confondendo episodi storici, ma so anche che tocca essere elementari negli esempi, la frammentazione, i pochi secondi di attenzioni, per dire, se a questo punto non sparo un “porco cazzo” è facile che ve ne andiate, e il fatto che io abbia detto “porco cazzo”, se ora non cito il Jean Genet di Querelle de Brest, ripreso dal cineasta tedesco Rainer Werner Fassbinder, magari andando poi a dire che, però, in fondo, credo che a riguardo abbia detto cose più interessanti John Waters, senza meglio specificare, mica è un saggio sulla cinematografia della seconda metà del Novecento, questa, ecco, non avessi distratto il lettore colto con citazioni fatte anche un po’ ad minchiam, citazione questa del Professore, e per Professore intendo ovviamente il Professore Franco Scoglio, il solo e unico, ecco, se non avessi messo in fila, uno dopo l’altro quel “porco cazzo”, Jean Genet, Rainer Werner Fassbinder, John Waters e Franco Scoglio, immagino, vi avrei perso strada facendo, quella col gancio in mezzo al cielo, ecco che cito pure Baglioni, avanti il prossimo, pensate che vita stressante che conduce uno che, nei fatti, si potrebbe e dovrebbe limitare a fare recensioni di album, album che ovviamente non stanno uscendo, perché è arrivato il Covid, e il Covid ha bloccato il paese mondo, certo, ma è arrivato e ha trovato una situazione nel mondo della musica, quello il paese mondo nel quale mi trovo, che era già disastrosa di suo, al punto che passare dall’essere Savonarola, il moralizzatore, e essere Cassandra, lì a gridare la fine imminente, lì ci eravamo incartati, qualche riga fa, è stato un attimo, anche meno di un attimo, e il passare dall’essere Cassandra, lì a gridare la fine imminente, all’essere Plinio il Giovane, lì a cantare la fine di tutto, già avvenuta, la nume di cenere, i lapilli, la lava che sovrasta tutto, rendendo plastica la devastazione, a futura memoria, le recensioni, il core business, ricordate?, ormai andate a farsi benedire, non dico per sempre ma quasi. Ho deciso, coscientemente o meno, di passare dall’essere un critico musicale all’essere un critico musicale che provava a ridisegnare il proprio mestiere, volendo anche a beneficio di colleghi un po’ meno attenti alla contingenza, e anche un po’ più saldati, con dadi e viti belle spessi, alla sedia alla quale avevano incollati il culo. Così mi sono trovato a spostare l’attenzione dalla musica al sistema musica, e nel farlo mi sono accorto, non che la cosa non fosse già piuttosto evidente prima, che era tutto marcio, cadente, morente. Ho iniziato a indicare la crepa, anzi, le tante crepe, sostenendo che, a differenza di quel che si dice facciano i giapponesi, è nota la storiella delle crepe dei vasi evidenziate e non nascoste, con l’utilizzo dell’oro, da noi si era provato, in maniera ambigua, a nascondere le crepe, usando al posto della colla la merda, finendo per rendere il tutto ancora più posticcio e traballante, oltre che sporco e maleodorante.

Insomma, sono stato per anni lì con la spada infuocata dell’arcangelo a cui devo il mio nome di battesimo, solo in una battaglia che ovviamente ha avuto per me anche certi vantaggi, mica sono un fariseo ipocrita e paraculo, so bene che essere il solo che indicava il meteorite che stava per colpire la Terra, mentre tutti stavano lì a farsi i selfie a beneficio di camera, mi ha reso visibile, e in quanto visibile in qualche modo influente, e in qualche modo influente mi ha reso più solido, difficile da buttare giù dal monte, essere sotto gli occhi di tutti in qualche modo ti protegge, è l’abc, nessuno ti spara, fatemi usare una metafora infelice ma attinente, mentre sei sotto gli occhi di tutti, ma è pur vero che l’essere inviso, scomodo, antipatico a molti, ha anche fatto sì che a fronte di tante occasioni costruite, a fatica, ne perdessi assai di più, sfilatemi sotto il naso da chi ha deciso di aderire a una vita comodamente a quattro zampe, la lingua fuori dalla bocca, pronta a umettare culi, i contro decisamente più dei pro, volendo provare a stilare una sorta di parallelo.

Ho fatto inchieste, io che manco sono un giornalista, ho aperto crisi, ho indicato la luna usando ovviamente il dito medio, perché è una questione di stile, per dirla con DeeMoo, di stile e necessità, eccovi un’altra citazione colta, andatevela a cercare, e poi è arrivata la pandemia e ha spazzato davvero via tutto, senza fare prigionieri, senza fare distinzioni tra buoni e cattivi. Io su quello contavo, lo confesso. No, non sulla pandemia, non diciamolo neanche per scherzo. Parlo di una distinzione.

Pensavo che ci sarebbe stata una implosione del sistema, ho provato nel mio piccolo a indurla, evidenziando in ogni modo e in ogni dove le crepe, e che da quell’implosione sarebbe scaturito un Mondo Nuovo, non certo come quello huxleyano, ci mancherebbe, qualcosa da ricostruire partendo dai valori e dai meriti, certo, valori e meriti che, entrando in contatto con un nuovo mercato si sarebbero a loro volta contaminati, ma magari facendo tesoro delle storture evidenziate fin qui. Invece è esploso tutto, e nell’esplosione sembra nessuno sia riuscito a mettersi davvero in salvo, nessuno ha trovato un bunerk nel quale passare i mesi successivi all’impatto dei meteoriti sulla terra, sì, ho visto Greenland con Gerarl Butler e nonostante ci sia Gerard Butler mi è piaciuto, guardatelo se vi capita, mica si può campare solo di cinema d’essai, fanculo a Fassbinder (Rainer Werner Fassbinder, non Michael, che in quanto a cagate hollywoodiane, a ben vedere, si è dato parecchio da fare, fanculo anche a lui, la pandemia mi ha reso particolarmente oscillatorio nei gusti).

Ovvio, almeno io la vedevo così, che in questo nuovo scenario, le macerie fumanti, il sole coperto da una coltre di cenere, l’azzeramento di tutti e tutto, io non abbia avuto voglia di continuare a vestire i panni di colui che grida nel deserto, deserto che per altro era arrivato per motivi diversi da quelli che io ipotizzavo e profetizzavo. Non dico che sia subentrato in me una sorta di malinconica nostalgia dei tempi andati, quelli nei quali ricevevo minacce, pressioni, perdevo posti di lavoro a causa delle medesime, quelli, in pratica, nei quali potevo permettermi di gridare alla fine imminente a causa di chi si è dimostrato portatore di istanze malvagie e malevole, ma sicuramente tra questo e star lì a fare quello che si compiace perché dopo anni che indicavo la fine poi la fine è arrivata ce ne corre, come direbbe il John Merrick interpretato da John Hurt nel lynchiano Elephant Man, “non sono un mostro”, la voce che biascica, più per l’empatica condivisione del dolore che per altro.

Quindi nell’ultimo anno, seppur a volte mi sia sentito quasi costretto a mettere dei puntini sulle i, abbia anche provato a serrare le fila, indicando alcune storture che si stavano ricreando, è noto che se ti rompi un braccio e non lo risistemi a dovere, le ossa si calcificheranno nella maniera sbagliata, così che poi per rimetterlo a posto lo si dovrà prima spezzare di nuovo, operazione non godibilissima, ma nella maggior parte dei casi, nei tanti tantissimi scritti che ho pubblicato, mi sono più occupato di musica, o quantomeno di provare a indicare soluzioni, mai soffermandomi sugli aspetti negativi, di negatività, direi, ce n’è già a sufficienza intorno a noi.

Poi però succede che negli ultimi tempi, nelle ultime settimane, forse per una spinta ottimistica a una normalità che ci viene indicata da alcune parti, ma che a occhio nudo appare ancora invisibile e inimmaginabile, alcuni di voi, voi che mi leggete, e che mi state leggendo fin qui, suppongo, ma che oltre a leggere scrivete, scrivete a me, nello specifico, ecco è successo che alcuni di voi che mi leggete avete cominciato a prendermi d’assalto, chiedendo a gran voce una mia presa di posizione riguardo temi di attualità, una attualità concernente ovviamente al mondo della musica. Così sono giorni che vivo come in un fortino, preso da assalto da chi mi chiede una presa di posizione netta riguardo la questione del sistema musica, o più in generale del mondo della cultura e dell’intrattenimento abbandonato a se stesso, presa di posizione che ho già palesato scrivendo una sorta di lettera aperta al Ministro Dario Franceschini (la trovate qui ), ma anche di esplicitare il mio pensiero riguardo altre faccende, che sempre intorno al mondo della musica si aggirano. È soprattutto la questione tirata in ballo da The Pact che mi viene quasi rinfacciata, non perché io abbia una qualche “colpa” a riguardo, ma perché, in tanto ciarlare che da noi si è fatto a riguardo, io non abbia speso neanche uno straccio di parola, non schierandomi, questo il non detto, in maniera netta e decisa dalla parte degli autori.

Sintetizzo, come un Timothy Leary d’antan, la situazione. Succede che alcuni autori di brani di grandissimo successo internazionale si espongano, dopo evidentemente un momento di riflessione legato alla situazione di emergenza che abbiamo vissuto, e rivendichino il loro essere autori di quelle hit. Hit che però portano anche la firma dei grandi interpreti internazionali cui quelle hit vengono associate, ma che nei fatti nulla hanno fatto a livello di composizione e di scrittura. Un modo abbastanza clamoroso per sottolineare una usanza assolutamente deprecabile, una sorta di ricatto da parte delle grandi star della canzone che pretendono di andare a prendere diritti d’autore laddove autori del brano che cantano non sono. Della serie, o così o nulla. Si parla di minacce, nel manifesto, di bullismo perpetrato ai danni degli autori, e in qualche modo si prova a dire basta. A guidare l’ondata di protesta autori quali Emily Warren, Tobias Jesso Jr, Talya Parx, Justin Tarner, Toss Golan, Amy Allen, Lennon Stella, Shae Jacobs, Sam Harris, Deza e Joel Little, autori di hit per nomi di prestigio quali Lady Gaga, Shawn Mendes, Selena Gomez, Lorde, One Direction e altri.

Ovviamente la notizia è arrivata anche da noi, in Italia, ripresa da buona parte della stampa specializzata, buona parte della stampa specializzata che, come in una sorta di loop, hanno riportato i nomi degli artisti che hanno interpretato le canzoni, ma quasi mai quelli degli autori che hanno protestato, come a volerli fare ulteriormente scomparire. Ognuno ha i media che si merita, mi verrebbe da chiosare.

Sono anni, ma davvero anni, che colleghi come Franco Zanetti di Rockol porta avanti una battaglia perché le canzoni vengano presentate, non solo al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, a partire da chi le ha scritte, per poi passare a chi le ha interpretate, e qualche timidissimo passo in tal senso è stato fatto, penso al fatto che ora nelle classifiche radiofoniche vengano indicati i nomi degli autori, ma va detto che la figura in realtà centralissima di chi scrive la musica e i testi delle canzoni, è quasi sempre oggetto di ghosting indotto, nessuno li cita e nessuno se li caga. Questo perché si tende a riconoscere una canzone con chi la canta, spesso l’interpretazione è fondamentale, è vero, ma senza una canzone scritta non ci potrebbe mai essere interpretazione, è un dato di fatto.

Di questo sembra non volersi accorgere chi sfrutta il peso del proprio nome per mettere firma a canzoni che nei fatti ha cantato ma non composto o scritto. Anche da noi è prassi, nota e penossima.

L’idea che un cantante di successo abbia tanta forza da potersi prendere un diritto che non ha è ovviamente una aberrazione. I cantanti hanno altro modo per monetizzare, i diritti d’autore, lo dice la parola stessa, sono relativi agli autori, che solo quel modo hanno. Immaginate di fare un lavoro importante, una ricerca, portare a casa una scoperta scientifica, o magari aver chiuso un contratto importante per la vostra azienda, e immaginate di andare dal vostro capo e sentirvi dire bravi, mi prenderò io i meriti, anche economici, del vostro lavoro. Ovvio che è cosa che succede anche fuori dal mondo della musica, capita ogni giorno a chiunque, ma è altrettanto ovvio che sia piaga da indicare con sdegno e, se e come è possibile, combattere.

Vengo dal mondo dei libri, che è ancora il mio mondo. Ho pubblicato ottanta libri, alcuni confirmandoli con nomi anche piuttosto rilevanti, su tutti Vasco Rossi, Caparezza, Cesare Cremonini, ma prima di arrivare a questo punto ho mosso i miei primi passi nel mondo dell’editoria facendo il ghost writer, quello che scrive i libri che poi firmano altri. Ero stipendiato per questo, scrivevo libri inventandomi la lingua di personaggi famosi, che avevano una lingua ma non una lingua scritta, e poi vedevo quei libri avere più o meno successo. Ne ho scritti parecchi, almeno un paio di enorme successo. Ho intervistato in almeno un paio di occasione, da critico musicale, gli artisti che stavano presentando il libro che avevo scritto io, per prassi preferivo non incontrare mai l’artista, mi facevo mandare registrazioni che sbobinavo e rielaboravo letterariamente, e in entrambi i casi mi sono trovato di fronte gente che parlava di quei libri spavaldamente, come se li avesse scritti davvero. La cosa, son fatto così, mi ha fatto sempre molto ridere, perché fare proprio il lavoro di qualcun altro è cosa talmente meschina che non potevo che ridere della piccineria di chi avevo di fronte. Poi un giorno, quando uno dei libri che avevo scritto, ha superato un numero di copie che, se io avessi avuto accesso ai diritti d’autore di quell’opera, avrei serenamente potuto comprarmi un appartamento, così, cash, ho deciso che non sarebbe più accaduta. Ho capitolato un altro paio di volte, lo ammetto, ma come si dice in questi casi, per farlo “mi hanno fatto molto ridere”.

Sono quindi ben cosciente di come The Pact sia qualcosa che andrebbe fatto brillare in cielo, come coi fuochi d’artificio nella notte di Ferragosto. Andrebbero sputtanati quanti ricorrono a questi atti di bullismo, facendo nomi e cognomi, rivendicando pubblicamente i propri diritti, e non è detto che prima o poi non lo faccia anche io, seppur di molte delle opere che ho scritto, lo confesso, mi vergognerei.

Invece The Pact lancia accuse generiche, facile risalire a chi si stia accusando, ma non c’è una accusa diretta, tipo Tizio ha firmato il brano che ho scritto io, ma non ha partecipato alla stesura, è un sopruso, e in Italia, addirittura, nonostante proprio Franco Zanetti avesse chiamato a raccolta chi volesse unirsi a quella protesta d’oltreoceano, da noi a parte pochi sparutissimi casi, Franco Fasano, Giovanni Donzelli e Vincenzo Leomporro degli Audio 2, e Claudio Buja, dalla parte editoriale, il silenzio.

Ora, potrei dire che mi piacerebbe prendere hit per hit le canzoni che hanno dominato le classifiche negli ultimi anni, quelle interpretate dai grandi nomi, e andare a chiedere agli autori che le hanno cofirmate con gli interpreti per sapere se e come detti interpreti hanno partecipato alla stesura, e in caso in quale quantità.

Sarebbe un giochino facile facile, che porterebbe a imbarazzi, ritorsioni, belle beghe.

Ho provato a sottolineare, ma sapevo che valanga di merda mi avrebbe sommerso, e onestamente non ho le forze mentali, di questi tempi, per gli shit storming dei fanclub, come il famoso Golden Globe vinto, e la famosa candidatura agli Oscar per il brano Io sì (seen), interpretato da Laura Pausini e scritto da Niccolò Agliardi e Laura Pausini, per il testo, adattamento italiano del brano scritto e composto da Diane Warren fosse in realtà un premio, il Golden Globe, e una candidatura agli Oscar come Best Song ricevuti dal brano Io sì (seen) e non dalla Pausini, come dichiarato in ogni dove dai media italiani, e ho anche provato a dire che sì, la Pausini è stata candidata perché co-autrice delle liriche, quindi titolare di circa il 25% dei punti editoriali del brano, ma da lì a dire che era lei a aver vinto e a essere candidata, senza manco menzionare Diane Warren, titolare del 50% e Niccolò Agliardi, che immagino abbia dato un contributo fondamentale al testo, addirittura dimenticato nel sito dell’Academy, mi sembrava ci corresse in mezzo un oceano, ma ovviamente la cosa è stata letta come un mio voler attaccare la Pausini, non come il mio dire una verità inossidabile. Del resto, chi mi attacca a riguardo non fa che dire che i miei libri scritti sulla Pausini sono il mio modo per mangiare nel suo piatto, come se i libri li avesse scritti lei o se io stessi rubando un pezzo del suo successo, come potrei mai intavolare un ragionamento con tali capre.

Gli autori sono il motore primo del sistema musica. Senza canzoni non esisterebbe un sistema musica. Chi scrive canzoni, gli autori, siano essi compositori o autori dei testi, o entrambi insieme, vive di questo, di diritti d’autore. Chi prova a usurpare quei diritti è un ladro. Va detto e va detto a gran voce.

Durante la conferenza stampa pre-sanremese di Ermal Meta, a domanda relativa al brano Gli invisibili, contenuto nel suo nuovo album, Tribù urbana, domanda che chiedeva chi fossero gli invisibili di cui parlava, il cantautore ha dato una risposta che mi ha sorpreso, perché ha detto che ovviamente il brano parlava di quanti sono emarginati dalla società, gli ultimi, ma nello specifico, parlando della sua vita, non poteva che pensare a quando ancora non era divenuto un nome noto della musica, al dolore che provava nel sentire i cantanti e interpreti per i quali aveva firmato canzoni sentirne parlare senza neanche menzionarlo, come fossero canzoni scritte da loro. Non esattamente la stessa situazione descritta dal manifesto di The Pact, perché qui non si parlava di diritti d’autore rubati, ma qualcosa di limitrofo, più ambiguo ma altrettanto meschino. Anche qui, facile risalire a chi Ermal si riferisse, i brani di successo che ha scritto per altri sono parecchi, ma sono lì, sotto gli occhi di tutti, ma sarebbe un buon primo passo per questa forma di affrancamento da questa forma di schiavitù intellettuale che magari lui, che oggi è un BIG iniziasse facendo i nomi. Ermal, se serve io sono qui a farti da amplificatore.