Tornerò mai a fare il lavoro strano di prima, lo scrittore?

Credo non mi capitasse da non so quanti anni di starmene così in disparte dal mondo nel quale lavoro; anzi, non è mai capitato


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Faccio un lavoro strano.

Parecchio.

Quando qualcuno  mi chiede che lavoro faccio, e questa è davvero una domanda molesta, lo dico a chi non conosco di persona, o conosco solo superficialmente, così magari nel caso avesse modo di approfondire si guarderà bene dal farlo, dal chiedermi che lavoro faccio, o se lo farà sarà appunto per essere molesto, gli stronzi non li ho mica inventati io, ecco, quando qualcuno mi chiede che lavoro faccio fatico sempre a rispondere, così, in poche parole. Tendenzialmente sarei portato a dire “Sono uno scrittore”, ma so che dire “Sono uno scrittore”, in Italia, equivale a dire sono esattamente come te che mi stai di fronte e mi poni questa domanda, non sta certo a me dire che il nostro Bel Paese ospita più scrittori che lettori, solo che io sono davvero uno scrittore, non faccio lo scrittore, e scrivendo libri ci campo, da un bel numero di anni.

Ma siccome il nostro Bel Paese è un paese che ospita più scrittori che lettori, non è difficile intuirlo, non campo facendo solo questo, devo aggiungere al lavoro di scrittore sempre altro, altro che intorno al lavoro di scrittore si muove, scrivo per radio e tv, certo, scrivo di musica, come accade da anni qui, parlo di musica in radio e tv, tengo corsi, insegno a scrivere a gente cui un giorno verrà chiesto “che lavoro fai?” e che con buona probabilità non potrà rispondere “sono uno scrittore”, ma questa è altra faccenda, rispondere a chi ti chiede “che lavoro fai?” con un semplice “Sono uno scrittore” è troppo complicato, quindi spesso opto per un “Sono un critico musicale”, lavoro che in realtà, se possibile, è anche più rischioso da esibire come credenziali che il dire “Sono uno scrittore”, perché magari a chi ti chiede che lavoro fai e rispondi “Sono uno scrittore” qualche libro per le mani è pure passato, magari non lo sa e non lo sai, ma anche un tuo libro, ma se chi te lo domanda non è un appassionato di musica e tu gli rispondi “Sono un critico musicale”, beh, mio Dio, è davvero il caso che ti metta comodo, perché dovrai poi passare del tempo a spiegargli nel dettaglio cosa significa, e non è affatto cosa facile.

Lui penserà inizialmente che tu sia uno che si occupa di musica classica, nessuno prende in considerazione la musica leggera come qualcosa che implichi un lavoro serio. Non che a vedermi io evochi qualcosa di attinente al lavoro serio, men che meno alla musica classica, va detto. Quando però gli spiegherai che il critico musicale scrive di musica, musica leggera, e scrive di musica leggera per magazine e giornali e anche libri, beh, allora sarà tutto un “che bello, quindi tu di lavoro ascolti canzoni, vai ai concerti, conosci i cantanti”, il che è come dire a un ginecologo che per lavoro sta tutto il giorno a guardare fighe, fatto in sé anche abbastanza vero, ma che coglie davvero marginalmente il mio lavoro.

Per questo, lo confesso, a volte taglio corto e dico che sono un giornalista, anche se io non sono un giornalista, ripudio l’idea di essere chiamato giornalista e se qualcuno mi chiama così, tendenzialmente, mi offendo.

Ma dire giornalista è facile, e soprattutto capire cosa fa un giornalista, anche se poi mi tocca sempre spiegare che mi occupo, come giornalista, di musica, e quindi torniamo al punto di partenza.

Per altro, di questi tempi, dire che sei un giornalista è quasi più rischioso che dire che vai a rubare le catenine d’oro ai morti nelle veglie funebri, passare da giornalista a giornalaio è un attimo, quindi a volte, ma raramente, taglio corto e dico che sono un ginecologo, così almeno tutti capiscono che non mi devono rompere i coglioni e se c’è qualcosa di cui invidiarmi è comunque frutto di anni e anni di studio.

Faccio un lavoro strano, quindi, è assodato, al punto che mia madre stessa fatica a capire esattamente in cosa consista, figuriamoci gli altri. Non gliel’ho mai detto, lo faccio ora, lei legge sempre cosa scrivo, ma ho molto riso, qualche anno fa, proprio per questa faccenda del “che lavoro fai?”. Mia madre è settima di otto fratelli, e se dico otto fratelli lo faccio per una mera faccenda di patriarcato, perché nei fatti erano sette sorelle e un solo fratello. Uso il passato perché alcune sorelle sono morte, ma non è questo il punto, non sto facendo un racconto tipo saga familiare. Di fatto ho avuto molte zie e zii, e un sacco di cugini. E immagino che, tra sorelle, ci sia stata una sorta di competizione non detta, cosa va a fare mio figlio o mia figlia, gara che ha visto escluse le due sorelle non sposate. Io, lo dico senza problemi, me la sono abbastanza cavata, anche se credo che un mondo più giusto mi avrebbe riconosciuto più meriti, ora, per intendersi, starei sulla Torre di Portonovo in vestaglia di seta, non a Milano, ma me la sono cavata. Ho fatto cose che mi sono piaciute, altre meno, ma mi sono comunque fatto valere. Lei, mia madre, immagino abbia un po’ faticato però a far capire alle sorelle cosa io stessi facendo. Scrivevo libri, sì, e articoli, anche, facevo comparsate in tv, raramente, insomma, vagli a spiegare come campavo. Poi succede che conosco Suraci e lui mi propone di essere la voce di Rtl 102.5 a Sanremo 2017. Questo dopo che già l’anno precedente sono stato ospite fisso del DopoFestival. Certo, il DopoFestival è a notte tarda, nessuna delle zie lo ha potuto vedere, e dubito anche dei cugini, ma Rtl 102.5 ha la radiovisione, stavolta la faccenda è diversa. Io condurrò il programma di prima serata, con Pio e Amedeo, tutti potranno vedermi. Già immagino abbiano sentito lo spot, che mi presenta come L’Anticonformista, ma vedermi in tv, a fianco dei cantanti del Festival è altra cosa. Mi immagino lei, mia madre, che lo dice a tutte e tutti, e la sera di inizio Sanremo me li immagino tutti e tutte davanti alla tv, pronti e pronte finalmente a capire che diamine di lavoro faccio.

Succede questo, inizia il programma. Io sono a Sanremo, in una villetta che abbiamo affittato, seduto al mio fianco c’è Francesco Baccini, che firma la sigla di tutti i miei interventi, Ave Maria, una canzone in cui percula Maria De Filippi, che presenta il Festival con Carlo Conti. In collegamento da Cologno ci sono Pio e Amedeo, e con loro Gigio D’Ambrosio e Laura Ghislandi, incaricati di dare i tempi radiofonici. Durante la serata è previsto che mi vengano a trovare un po’ di cantanti in gara, io sono a Sanremo e di sera la villetta in questione diventa la sede sanremese del network. Pochi minuti, giusto il tempo di prendere le misure, e arriva il primo ospite in gara, Gigi D’Alessio. Io e Gigi non ci siamo mai visti di persona, anche se ci siamo scritti e sentiti da tempo. C’è quella strana forma di confidenza di questa epoca social, ci si conosce pur non essendosi mai realmente conosciuti. Gigi è in gara con la canzone La prima stella, dedicata a sua madre, scomparsa quando lui era un ragazzo. Ci presentiamo, in diretta radio, abbracciandoci, come si faceva un tempo nel mondo dello spettacolo, ci si dà tutti del tu, si è tutti in sintonia.

Gigi si siede, di fianco a me e Baccini. Saluta gli altri a Cologno, calorosamente. Poi dice questa frase, che diventerà a suo modo “mitologica”. Dice “Ciao Pio, ciao Amedeo, bentrovati… a proposito, sapete chi vi saluta?”. Loro, Pio e Amedeo, che sono due animali da palco, ma che stranamente lì a Rtl 102,5, fino a quel momento, sono stati sottotraccia, chiedono: “Chi?”, e Gigi sfodera un poderosissimo “Stocazzo!!!” che lascia tutti di stucco. Due secondi di silenzio e inizia il circo. Ridiamo tutti, e da quel momento, per una settimana, tutti verranno colpiti da questa battuta, vagamente da gita di terza media. Sai chi ti saluta? Stocazzo. A tutti, ma anche a gente insospettabile, tipo Fiorella Mannoia. Al punto che uscirà da quel programma, la Cortellesi così apostroferà Savino, al DopoFestival, e Gigi, eliminato ingiustamente dalla gara, così saluterà il Festival, in un video pubblicato sui social nel quale si farà accompagnare dal maestro Pennino, dalla Tatangelo e da tutto il suo entourage. Sai chi ti saluta?

Stocazzo.

Ecco, mamma, non te l’ho mai detto, ma l’idea che tu abbia detto a qualche zia di seguirmi in radio, così da far capire cosa faccio di lavoro e il mio lavoro per una settimana si sia trasformato in questo mi fa ancora oggi ridere parecchio, non credo serva spiegare perché.

Resta che faccio un lavoro strano, a prescindere da quest’ultimo episodio.

Ma non è per la difficoltà di descriverlo agli altri che è strano, suppongo che anche il linotipista viva in una condizione simile alla mia, a parte l’essere lui finito citato in Come è profondo il mare di Lucio Dalla, io, in frasi stucchevoli associate indebitamente a Frank Zappa, frasi che evocano architetti e ballerini, o, iconicamente, in L’avvelenata di Francesco Guccini.

È strano perché, prima che tutto cambiasse, vai a sapere se momentaneamente o per sempre, col Covid e quel che il Covid ha comportato, passavo la stragrande maggioranza del mio tempo a fare altro che scrivere, pur essendo io uno scrittore particolarmente prolifico, forse anche bulimico, ottanta libri pubblicati, a fine anno saranno ottantaquattro, a cinquantuno anni, avendo per di più iniziato a scrivere a venticinque, direi che sono prova provata di ciò.

Ero costantemente immerso in un flusso che mi portava, giuro, a passare almeno quattro, cinque ore al giorno al telefono, con un numero imprecisato di persone. E quando non ero al telefono ero spesso in giro, riunioni, meeting, visite a studi di registrazione, sale prove. Incontravo gente del settore, artisti, addetti ai lavori, pur essendo io uno che ha sempre disertato gli eventi mondani, le conferenze stampe, le presentazioni. Certo, mi capitava di presentare alcuni dischi, almeno una volta al mese, alla Feltrinelli di Piazza Piemonte, alla Mondadori di via Marghera, alla Fnac di via Torino, quando ancora c’era, ma per il resto anche ai concerti, ne vedevo almeno uno, due la settimana, ho sempre cercato di evitare le tribune stampa, per ragioni che ho raccontato anche troppe volte.

Non c’ero mai, pur essendoci, al punto che quando poi, raramente, decidevo di palesarmi mi sentivo sempre dire “ma tu cosa ci fai, qui?”, frase che mi spingeva ancora più verso questa mia strana forma di misantropia. Ero quello che non c’era mai, un vezzo, un marchio di fabbrica.

Nonostante questo ero sempre in mezzo alla gente, e quando poi ero a casa, da solo, lì scrivevo, tanto, velocemente, perché sono molto veloce a scrivere. Compulsivamente, anche.

Tenendo un ritmo tutto mio, e cercando di fare di necessità virtù, essendo insonne mi alzavo la mattina che avevo già in mente cosa scrivere, e anche come scrivere, non dico che avessi in mente parola per parola quello che avrei fermato su pagina, ma quasi, ho una mente molto selettiva quando si tratta di ricordare. Per non dire della gente, tanta, che incontravo virtualmente, sui social, alcuni dei quali ho poi conosciuto di persona, almeno un paio delle persone cui voglio più bene le ho conosciute lì, fatto, questo, che andando in giro, quasi sempre a piedi, per Milano, mi ha fatto conoscere tanta altra gente, non saprei neanche dire quante volte mi capitava di essere fermato da gente che mi diceva “Michele? Siamo amici su Facebook”, o anche “Michele? Mi hai mandato a cagare su Facebook”.

Intorno a tutto questo c’era la mia vita non professionale, quella sociale. Ho quattro figli, di cui due gemelli che frequentano le elementari, quindi c’era il portarli a scuola, il fare chiacchiere coi genitori, a volte andarli a prendere, portarli in piscina o a un altro sport o attività, nel weekend portarli alle feste di compleanno dei compagni di classe, e poi gli amici, i miei e di mia moglie, da incontrare, coi quali fare cene, a volte anche gite nel weekend.

La vita, baby.

Per questo dico che faccio un mestiere strano, perché ho scelto di farlo pensando che avrei vissuto una vita appartata, quando ho iniziato non esistevano i social, e scrivere era una attività che si faceva da soli in casa, senza incontrare i lettori se non occasionalmente, alle presentazioni, se non si era di quegli scrittori che rifuggono le presentazioni, e io da anni sono uno di quegli scrittori lì, ritenendo inutile lo sforzo di incontrare qualche decina di lettori, se va bene, fisicamente, quando già mi ci intrattengo tutti i giorni virtualmente, e consapevole che è vero che presentare i libri è parte del lavoro di scrittore, ma economicamente non è una parte rilevante, e la vita professionale, credo, va calcolata anche in quella maniera lì, economicamente, ho scelto di fare lo scrittore, certo partendo da quello che ritenevo, così mi avevano detto, fosse un mio talento personale, pensando che avrei vissuto una vita appartata, e per il fatto di essere uno scrittore mi sono ritrovato ben presto a lavorare come critico musicale e reporter, quindi immerso costantemente tra la gente, spesso anche gente che parlava lingue diverse dalla mia, finendo per relegare i momenti di solitudine, quelli cui in genere si associa il lavoro di scrittore, la luce fioca, i blocchi di appunti sparsi sul tavolo, un gatto, vai a sapere perché se scrivi dovresti avere un gatto, gatto che ovviamente non ho, una tazza piena di caffè bollente (sì, sto citando quella vecchia e famosa pubblicità, oscena), a orari anomali, la mattina presto, quando ancora nessuno in casa si è alzato, la sera tardi, quando sono andati a dormire, qualche ora rubata tra un “vai a fare la spesa” e un “porta X a calcio”.

Oggi tutto è cambiato.

Non so se in via definitiva, non ho la sfera di vetro, ma è cambiato.

Passo le giornate in casa, davanti al computer, a scrivere, e quando non scrivo leggo, o guardo una serie tv. Ascolto musica, e la musica che ascolto è prevalentemente musica del passato, perché il mercato, nonostante quel che qualcuno si ostina a raccontarci, si sta fermando, escono molte canzoni ma pochi album, e i pochi album che escono sono spesso indegni di essere ascoltati, perché tirati fuori frettolosamente, come a voler colmare un vuoto di mercato nella convinzione che per finire nel mercato, ora, basti essere fuori, nel senso di esserci.

Certo, ascolto anche musica nuova, le mie amate cantautrici, qualche progetto che coraggiosamente prova a scardinare l’apatia che ci circonda, soprattutto prova a andare contro quella logica perversa che vuole sia inutile uscire nel momento in cui non si possono poi fare presentazioni o live, ma è evidente che il sistema musica, anche quello periferico, realmente indipendente, sta rallentando, anche comprensibilmente, quindi è al passato che guardo sempre più spesso. E ci guardo da casa, vagando per casa, per altro, in ogni stanza sembra esserci sempre un mio convivente intento a fare una call, una lezione di dad, una videochiamata con un amico o una amica, io che sono quello che scrive, anche in casa si fatica a capire bene il mio lavoro, mi è chiaro, mi fermo dove trovo un minimo di silenzio, e scrivo e scrivo e scrivo, di colpo tornato a quello che era il mio lavoro all’inizio, o almeno alla proiezione mentale del mio lavoro che mi ero fatto all’inizio, prima di entrare nella girandola di cui sopra ho lavorato per qualche anno in redazione, in Mondadori, non è che sia stato poi così a lungo un asceta intento all’arte dello scrivere in solitaria.

Da che il Covid, all’epoca Coranavirus, è entrato a gamba tesa nella nostra vita, dopo la mangiata di folla di Attico Monina e di Sanremo 2020, ho cominciato, sorte condivisa con parte della nazione, non tutta, alcuni hanno sempre continuato a muoversi, a prendere la forma del mio divano, le ciabatte costantemente ai piedi, uno schermo a filtrare il rapporto tra me e il mondo, anche il mio mondo professionale.

Ho fatto la mia ultima apparizione in tv a fine febbraio, alla Repubblica delle Donne, da Piero Chiambretti, giusto prima che arrivasse il lock down e che lui si ammalasse di Covid, tutti ricordiamo come proprio in quell’occasione Chiambretti ha perso sua madre, lì, in quell’occasione, ho incontrato Bugo e Iva Zanicchi, ospiti dello show, ho fatto, tra il format #IoRestoACasaMonina, andato in onda nel primo lock down, le interviste dell’ultimo Sanremo, “Casa Monina”, in entrambi i casi col mio partner in crime Mattia Toccaceli, e qualche diretta fatta su Instagram, recentemente ho fatto una serie di interviste a cantautrice, toh, mettiamoci anche l’esperienza live di Femminile Plurale, seconda edizione del Festival che dirigo con Tosca per Officina Pasolini, e che è andata di scena sui social, qualcosa come una settantina di interviste, ma online, in remoto. Ho lavorato con Cesare Cremonini al libro Let Them Talk, uscito poi a dicembre, incontrandolo di persona una sola volta, a giugno a Bologna, altrimenti lavorando in remoto, con videoconferenze. Ho tenuto un paio di webinar, sempre su temi a me cari, il femminile, per l’Università degli Studi di Macerata, la critica musicale, per una scuola di giornalismo di Bologna, ma anche lì, da casa, in ciabatte, mentre di là mia moglie stava in smart working e i miei figli in dad.

Mi ci sono dovuto concentrare.

Ho dovuto fermarmi dallo scrivere, questo sto facendo, è il mio mestiere, per fare mente locale. Da fine febbraio 2020 a oggi, 12 aprile 2021, quasi quattordici mesi, non ho messo piede in nessuno studio radio, in nessuno studio televisivo, ho firmato contratti editoriali, ma senza andare in nessuna casa editrice, ho tenuto corsi, ma senza mettere piede in scuole o università, non sono mai andato al cinema, al teatro, ho seguito quattro spettacoli dal vivo, l’estate scorsa, Mimosa Campironi allo Sferisterio di Macerata, dove ha inaugurato credo la più anomala stagione estiva maceratese portando in scena con Laura Morante l’opera Madame Tosca, scritta appositamente per l’occasione, noi poco pubblico, era davvero uno dei primi spettacoli a andare in scena dopo la fine del lock down, seduti su sedie inchiodate a terra, direttamente sopra il palco dell’arena, a pochi passi dalle artiste, Enzo Avitabile, a Sarnano, sui Monti Sibillini, all’interno della manifestazione RisorgiMarche, ideata da Neri Marcorè per tenere accesi i riflettori sui territori marchigiani colpiti dal sisma del 2016, anche lì, sedie inchiodate a terra, poca gente e assolutamente distanziata, ho presentato, stando quindi sul palco, lo spettacolo di Tosca all’interno di Adriatico Mediterraneo, nella mia Ancona, ho assistito alla serata di semifinale di Musicultura, allo Sferisterio di Macerata, serata presentata da Enrico Ruggeri, che in precedenza avevo incontrato di persona nel suo studio milanese, per fare due chiacchiere, e in quell’occasione, allo Sferisterio, ero seduto in platea, le sedie alternate, i distanziamenti rigorosamente rispettati, le mascherine in volto.

Poi nient’altro, neanche un concerto in streaming, non fa per me. Ho fatto un paio di interviste in presenza, a Red Canzian, per la sua opera rock Casanova, nel suo studio milanese, a debita distanza e con mascherine, a ottobre, stessa situazione, per quel che riguarda distanziamento e mascherine che è stata adottata per intervistare nello stesso mese anche Francesco Bianconi.

Quindi, ecco, da febbraio 2020 a oggi, ho incontrato: Bugo, Iva Zanicchi, Cesare Cremonini, Mimosa Campironi, Enzo Avitabile, Tosca, Giovanni Truppi, che passava per caso da quelle parti, giuro, proprio quando stavo andando al concerto di Tosca, Enrico Ruggeri, Red Canzian, Francesco Bianconi, ho incontrato, sempre l’estate scorsa, anche Eleviole?, di cui ho scritto settimana scorsa, al secolo Eleonora Tosca, e il suo compagno, Maurizio Mangoni, in arte Il Geometra Mangoni, cantautore, ho incontrato, sempre in agosto, anche Serena Abrami e Enrico Vitali dei Leda. E basta. Nessun altro artista, di persona, e considerate che, a parte Iva Zanicchi, Bianconi, che conoscevo solo di vista, e Truppi, che avevo incontrato una volta tempo fa per un’intervista, tutti gli altri sono miei amici, li avrei incontrati a prescindere da mere faccende di lavoro.

Credo non mi capitasse da non so quanti anni di starmene così in disparte, rispetto al mondo nel quale lavoro, forse, anzi, non è mai capitato.

Del resto, a parte questa estate, non è che io abbia incontrato tanta altra gente, pochi amici, pochissimi, non vedo più i miei genitori e le famiglie di mio fratello e mia sorella da agosto, sembra quasi di essere stato sputato nella trama di una qualche film distopico nel quale il futuro vede l’uomo dentro una società solamente virtuale, tutto avviene attraverso una schermo, roba da Black Mirror.

Ora, alla lunga uno si abitua a tutto, c’è gente che da un giorno all’altro si è ritrovato a vivere senza gambe, o senza l’amore della propria vita, figuriamoci se non ci possiamo abituare a tutto questo, ma personalmente comincio davvero a chiedermi se torneremo mai alla vita di prima, quella nella quale ci si abbracciava anche con estranei, si mangiavano patatine durante un aperitivo prendendole con le mani direttamente dalle vaschette dove un barista, sempre a mani nude, le aveva poste, ci si ammassava dentro la metro per andare a vedere un concerto che ci avrebbe visti, sudati e pigiati, a cantare a squarciagola le canzoni di cantanti che avrebbero lanciato verso le prime file magliette intrise del loro sudore. Me lo chiedo per un semplice motivo, anche piuttosto facile da comprendere, e consapevole che sia un motivo che potrebbe indurvi a pensare che per essere uno scrittore ricorro un po’ troppo spesso al turpiloquio, ma in fondo vi ho già raccontato di come, con Pio e Amedeo, si sia passata la settimana più divertente degli ultimi anni a suon di “sai chi ti saluta?”, credo poco altro ci sia da aggiungere a riguardo. Me lo chiedo, e lo chiedo genericamente a voce alta, conscio che difficilmente arriva qualcuno a rispondere a questo tipo di domande, domande quindi destinate a rimanere inevase, solo il tempo, forse, potrà dirci come andrà a finire, e me lo chiedo perché di tutto questo mi sono onestamente rotto i coglioni. Quando ci vuole, signora mia, ci vuole, no?