Una gita fuori dalla porta della mia lucidità, Gotico Abruzzese

Oggi, Pasquetta, ho deciso di dissimulare normalità, portandovi a fare una gita, complici la fantasia e il fatto che siete ancora murati vivi in casa


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Avete presente tutti la scena della scalinata di Rocky.

Lo so, se comincio così, se parto includendo tutti i lettori di un pezzo che esce online, tenendo conto che, stando a quelle simpatiche statistiche che lo scrivere in rete ti pone di fronte con una parvenza di certezza scientifica, statistica che afferma che la fascia d’età più alta dei miei lettori, in lieve maggioranza maschile, ma di poco, quasi fifty fifty, è quella che va dai ventiquattro ai trentaquattro anni, ecco, se parto citando una scena, per quanto epica, di un film che però risale a un’epoca quasi preistorica, parliamo del 1976, quarantacinque anni fa, che nel cinema valgono due o tre ere geologiche, in qualche modo mi autoincludo di diritto nella categoria che loro, i giovani, a questo punto dovrei dire voi, i giovani, perché siete giovani voi che mi leggete, almeno siete la fetta più ampia dei miei lettori, questo nonostante molto di quel che scrivo venga veicolato dai social, sempre questo dicono le statistiche di cui sopra, e soprattutto su Facebook, social anche quello più rivolto, questo credevo, ai più attempati, insomma, per farla breve, se parto citando Rocky, film con Sylvester Stallone datato 1976, poi se arriva qualcuno a chiamarmi “boomer”, forse, me lo merito.

Lo dico io, così ci togliamo il dente una volta per tutte e andiamo oltre, Ok, boomer!

Anche se io, tecnicamente, questo lo dico più con l’intento dell’intellettuale che prova a veicolare contenuti culturali che con quelli di chi si sente offeso perché incluso in un gruppo di persone al quale evidentemente non può appartenere, l’anagrafe è rigorosa, io appartengo ai Gen X, la Generazione X cantata da Douglas Coupland, appunto, io appartengo quindi a coloro, cioè, che arrivano generazionalmente dopo i Baby Boomers, i Boomer dell’espressione “Ok, boomer”, coloro che sono inclusi tra questi quanti nati durante il boom economico, quindi da dopo la Seconda Guerra mondiale fino al 1964, e i secondi, i Gen X, quanti nati tra il 1965 e il 1980.

Poi, così, sempre per la cronaca, arriverebbero i Millennials, fino al 1995 e poi i Gen Z, quelli che arrivano fino al 2010, la Generazione Z.

In seguito, credo, non sia ancora stato dato loro un nome, troppo piccoli per meritarselo, magari saranno la Gen Y, vallo a sapere.

Per altro, questa veloce carrellata attesta in maniera stringente come non solo noi si tenda a chiamare impropriamente i Millennials, che non sono quelli nati nel nuovo millennio, ma coloro che durante il nuovo millennio si affacciano alla società, ma come appunto i boomer non siano affatto quelli che in genere vengono apostrofati con l’odioso “Ok, boomer”, manica di capre che non siete altro.

Comunque, torno alla scalinata di Rocky, è storia del cinema, del resto, seppur del cinema pop, se non avete presente la scena andatevela a cercare in rete, la troverete di sicuro, è uno dei passaggi fondamentali di quel film, quella in cui Rocky Balboa, questo il nome completo del protagonista della pellicola, si allena per diventare un campione di pugilato, lui che viene dal basso, lì a spezzare i pollici agli insolventi per conto di uno strozzino, un outsider in cerca di riscatto, e per allenarsi corre su per questa scalinata, lì a Philadelphia, la città dell’Amicizia nella quale si svolge il film, oltre che prende a pugni le carcasse di vitelli dentro un macello. Ma la vostra attenzione vorrei si concentrasse sulla scalinata, già sotto Pasqua abbiano scansato i rischi scivolosi dei video degli agnellini ammazzati per il nostro pranzo, non apriamo anche il capitolo vitelli, vi preso.

La scalinata su cui Rocky si allena, salendo i gradini di corsa.

Una scena epica, perché la scalinata è imponente e farla di corsa è faticoso, mette il fiatone anche solo a guardarla mentre a correre è lui, un giovane Sylvester Stallone.

In cima a quella scalinata, l’ho scoperto solo anni dopo, nel nuovo millennio, appunto, mentre ero in città, a Philadelphia, con Cristina Donà, una delle prime tappe del nostro coast to coast sulle orme del Boss, Bruce Sprignsteen, Philadelphia è città centrale nella sua biografia, a prescindere dell’altrettanto cinematografica canzone Streets of Philadelphia, con la quale il nostro ha vinto l’Oscar come Best Original Song nel 1994, inclusa nella colonna sonora di Philadelphia, appunto, film che affrontava in maniera radicale il problema del razzismo, buttando sul piatto sia quello nei confronti degli afroamericani sia quello nei confronti dei gay, la canzone destinata alle scene iniziali del film, anomala per il repertorio di Springsteen, ma vero pugno nello stomaco per lo spettatore, comunque, dicevo, mi sto perdendo come un viaggiatore errante, caspita, quella scalinata, quella di Rocky, l’ho scoperto quando sono capitato a Philadelphia sulle orme di Springsteen con Cristina Donà, nel 2000, è la scalinata che conduce al  Philadelphia Museum of Art.

Potrei ora star qui a dirvi che ho provato anche io, in compagnia della mia cantautrice preferita, nonché amica fraterna, a salire quelle scalinate di corsa, all’epoca avevo appena trentuno anni, pesavo una ventina di chili di meno, me lo sarei anche potuto permettere, ma mentirei sapendo di mentire, anche perché in quella prima fase del nostro viaggio, anzi, proprio lì a Philadelphia, come poi avremmo raccontato nel libro God Less America, a Philadelphia nota come la Città dell’Amicizia, io e Cristina ci siamo sonoramente e ripetutamente mandati a quel paese, una lite piuttosto furiosa iniziata parlando di grattacieli e della loro presunta bellezza, e già da come l’ho scritto si intuisce chi sosteneva fossero belli e chi no, per cui non era proprio aria di fare corsette più o meno impegnative, gli scalini da percorrere sarebbero settantadue, divenuti talmente famosi che se scrivi “scalinata di Rocky” su Google la notizia ti appare per prima.

Vi parlo di quella scalinata, di quella corsa accompagnata dalla musica epica scritta per Rocky da Bill Conti, perché questo capitolo del mio diario del secondo lock down avrebbe dovuto cominciare da lì dentro, da dentro, cioè, al Philadelphia Museum of Art, non fosse che, vedi cosa succede a consultare Google per cercare il nome esatto del museo che si trova alla fine della suddetta scalinata, il tempo di un click e ho scoperto che la mia memoria ha fatto clamorosamente cilecca, mandando in qualche modo a puttane ogni mio intento.

Mi spiego.

Oggi, Pasquetta, come già ieri ho deciso di dissimulare normalità, portandovi a fare una gita da qualche parte con me, complici la fantasia e il fatto che, se siete tra quanti rispettano come me le regole, siete murati vivi in casa. Volevo quindi partire da un famosissimo dipinto, a breve lo farò, e poi andare alla deriva, alla maniera degli psicogeografi, Iain Sinclair über alles, e ormai tante sono le volte che vi cito la psicogeografia che penso sia arrivato il momento di non star più qui a spiegare di cosa si tratti, chi sa sa, chi non sa si faccia in autonomia le proprie veloci ricerche, Google sta lì anche per quello, mica solo per sottolineare impietoso le mie defaillance mnemoniche.

Ecco, a proposito di defaillance mnemoniche, il problema, la mia idea era di partire da prima del mio incontro con questo dipinto, e la scalinata in questione mi capitava proprio a fagiolo, perché raccontare di come una scalinata che mi avrebbe introdotto a un viaggio psicogeografico, per altro un viaggio psicogeografico che avrà un altro dipinto come motore primo, fosse a suo modo capace di far partire tutta una serie di ricordi in chi scrive come in chi legge, parte dell’immaginario collettivo, o almeno dell’immaginario collettivo occidentale, beh, mi offriva un assist mica da ridere.

Avrei parlato della scalinata, vantandomi di esserci stato con una grande artista, Cristina Donà, in un grande progetto, un coast to coast sulle orme di Springsteen, roba da Novecento, del resto nel Novecento sono nato e mi sono formato, seppur fatto nel 2000, e poi avrei raccontato di una sorta di Sindrome di Stendhal, anomala, perché capitata a due viaggiatori europei in una delle più europee città americane, per altro quella che conserva per motivi storici, i reperti più antichi di quella civiltà, parlo di quella degli statunitensi, non certo dei nativi, le ghignate provinciali che mi sono fatto quando vedevo presentati come pezzi da archeologia palazzi o oggetti, la famosissima Campana della Libertà, che da noi sarebbero state coperte di erbacce e scritte fatte con lo spray, tanta e tale è la storia delle nostre città, nella mia cantina di quando vivevo in Ancona avevo una teca di vetro nel pavimento che mi faceva vedere i resti di una tomba picena risalente a oltre duemila anni fa, Philadelphia suca forte, si accontentassero di avere grande musica, eravamo lì per Springsteen e grandi sportivi, proprio in quei giorni la città perdeva la testa per un gigantesco, almeno sportivamente parlando, non è che sia esattamente lo sportivo più alto nel suo sport, Allen Iverson, ma lasciassero la Storia a noi che la Storia la conosciamo bene, noi, per dirla con De Crescenzo, che eravamo già ricchioni quando questi se ne andavano in giro con le clave e le pellicce, Madonna mia che provinciale che sto diventando con gli anni, comunque avrei parlato della scalinata, vantandomi di esserci stato con una grande artista, Cristina Donà, in un grande progetto, un coast to coast sulle orme di Springsteen, roba da Novecento, seppur fatto nel 2000, e poi avrei raccontato di una sorta di Sindrome di Stendhal, anomala, perché capitata a due viaggiatori europei in una delle più europee città americane, lì a bocca aperta davanti al dipinto del 1930 American Gothic, di Grant Wood.

Tutto perfetto, ho ancora davanti agli occhi, o meglio, nello stomaco, lo stupore di fronte a tanta bellezza, un dipinto ipnotico, che ovviamente già conoscevo per averlo visto in svariate copertine di libri, oggetto di tante parodie, anche, ma che visto dal vivo mi ha, ci ha, letteralmente ribaltati, esperienza condivisa, in quel viaggio, a livello di dipinti, con un’altra opera di una bellezza straniante, quel Nighthawkes di Edward Hopper, che avremmo visto di lì a pochi giorni all’Art Institute of Chicago, la solitudine che si stacca dai colori cupi e ti avvolge come una coperta calda quando stai a guardare un album di ricordi seduto su un divano in una domenica pomeriggio invernale, qualcosa di epico, unico, struggente.

Ecco.

L’Art Institute of Chicago.

Un colpo di vento, molto forte, prende la mappa del mio viaggio, siamo nel 2000, i navigatori erano ancora rari, si viaggiava usando mappe e stradari, e la fa volare via, lasciandoci, no, lasciandomi, è di me che sto parlando ora, in mezzo a una strada, in balia degli eventi.

Houston, abbiamo un problema, tanto per nascondermi, almeno per qualche secondo, dietro la rassicurante facciata pop di una citazione che sia in grado di farvi dimenticare la scalinata di Rocky, e, se possibile, tutto quanto ho detto fin qui, almeno fino al momento in cui io e Cristina Donà, ma lei a questo punto la lascerei uscire di scena, non voglio condividere con lei la brutta figura che sto per fare, abbiamo spalancato le nostre mascelle europee, avete notato come gli americani abbiano queste mascelle così volitive?, chissà se dipende dal fatto che masticano in continuazione gomme, non a caso le gomme più famose in Italia, almeno quando ero un bambino, quando cioè Rocky usciva al cinema, erano quelle della Gomma del Ponte, le Brooklyn, niente, non ce la faccio, voglio provare a distrarvi e sempre lì torniamo, comunque Houston abbiamo un problema, American Gothic di Grant Wood, dipinto del 1930 che rappresenta un uomo del Midwest, un contadino, che posa con un forcone in mano e sua figlia al fianco di fronte alla propria casa in legno rurale, la Carpenter Gothic House, immagine divenuta talmente iconica da potersi permettere di evocare un intero mondo, immagine simbolo di una intera area americana, il Midwest appunto, nonché di un intero popolo, quello contadino americano, Houston abbiamo un problema, American Gothic di Grant Wood non si trova al Philadelphia Museum of Art, cioè in cima a quella ormai anche troppe volte citata scalinata, ma in una sala dell’Art Institute of Chicago, esattamente come Nighthawkes di Edward Hopper, magari, ma qui mentirei spudoratamente sapendo di mentire, nella medesima sala del medesimo museo, di questo ovviamente non ho alcuna memoria.

Me lo ha detto Google, e non posso che dargli ragione, lui sa cose che io non posso ricordare, anche se ci sono stato di persona, con Cristina Donà, ventuno anni fa.

Niente Philadelphia, baby, il dipinto in questione è a Chicago.

Bye bye viaggio psicogeografico, tutto sfumato.

O magari no, quello che abbiamo fatto fin qui è esattamente un viaggio psicogeografico, un vagare per Parigi consultando la mappa di Londra, alla maniera dei situazionisti di Guy Debord.

Preso atto che no, non era l’incipit giusto, resta da spiegare perché io oggi, 5 aprile 2021, giorno di Pasquetta, avessi deciso, abbia deciso, di partire da America Gothic di Grant Wood, per altro, noto solo ora, perché mentre sto scrivendo sono andato a cercare conforto nella mia biblioteca, confesso, i libri non mi tradiscono mai, che nella copertina di una vecchia edizione di Carpenter’s Gothic di William Gaddis, edito da Leonardo e intitolato impropriamente in italiano Gotico Americano, non il Gaddis migliore, quello di JR o anche de Le perizie, ma comunque a suo modo un classico, capeggia parte di American Gothic di Grant Wood, sicuramente preso facendosi gioco dei diritti d’autore, il quadro è riproposto parzialmente e per intendersi Leonardo, al secolo Leonardo Mondadori, erede della famiglia di Arnoldo, anche se Mondadori era un cognome che usava impropriamente, in quanto il cognome di sua madre, è quello che ha ideato gli Oscar, scippando senza chiedere permesso il simbolo della statuetta dell’Academy, figuriamoci se si sarebbe fatto problemi a usare un’opera d’arte tanto famosa, mica c’era internet, all’epoca.

Perché racconto questo, oltre che per intontirvi di parole nella speranza recondita che dimentichiate presto la gaffes fatta confondendo Philadelphia e Chicago, e sì che di musei in quel viaggio ne abbiamo visti davvero pochini? Perché nei miei progetti, e mai come in questo ultimo anno avrei dovuto imparare in maniera incontrovertibile che l’idea di fare progetti è fallibile, non so più neanche contare quante idee ho dovuto accantonare, dopo averle pensate, sviluppate, discusse, proposte, in alcuni casi anche dopo averle viste capite, accettate, acquisite, la contingenza e la realtà che arriva a grandi falcate, come certi recuperi di certi difensori insuperabile, gamba tesa sulla palla, tutto da rifare, perché nei miei progetti c’era l’idea di partire da un dipinto, e quindi da un libro, forse da due libri, per provare a fare un viaggio che partisse da una provincia italiana cui sono molto ma molto legato, e andare in giro per il mondo, l’arte come bussola, seppur come una bussola che indica un nord che poi nord non è, la mappa che stringiamo tra le mani completamente sbagliata, ma così tante cose da vedere e nelle quali perdersi, nel senso più buono del termine, sempre che il verbo perdersi abbia anche significati che buoni non sono, da valerne assolutamente la pena.

Il motivo di questo mio viaggio, usiamo le parole giuste al momento giusto, è ovviamente personale, e ancora una volta legato al filo indistruttibile della nostalgia. Un viaggio che invece che avere per colonna sonora Springsteen, quindi, potrebbe avere Chico Buarque de Hollanda, Caetano Veloso o, più pertinentemente Antonio Carlos Jobim Joao Gilberto, Tom Jobim e Vincius de Moraes, bossanova, saudade, quella roba lì.

No, fermi tutti, non è della mia città natale che stavolta voglio parlarvi, non è lì che voglio portarvi e da lì che voglio far partire il viaggio vero e proprio, seppur il viaggio sia già partito circa sedicimila battute fa, dalla scalinata di Rocky sotto il Philadelphia Museum of Art, ma in un’altra città che fa parte a pieno titolo dei miei posti del cuore, città nella quale non torno più da cinque anni ma nella quale ho trascorso un numero molto alto di giorni di questa mia vita, diciamo qualcosa come due anni complessivi, sparsi nel corso di quasi trent’anni.

Parlo di Vasto, in Abruzzo, città che ha dato i natali a mia suocera e che per tanti anni ha ospitato una casa di famiglia nella quale abbiamo trascorso giorni felici, buona parte delle vacanze soprattutto del periodo in cui i miei figli gemelli, oggi nove anni e mezzo, erano all’inizio del loro percorso di vita.

Ecco, se volessi dare un titolo a questo viaggio, e so che dicendo questo farò incazzare furiosamente buona parte dei miei amici e conoscenti di lì, qui spiego il perché del mio partire da Rocky, dalla scalinata del Philadelphia Museum of Art, da American Gothic di Grant Wood e da tutto quanto avete letto fin qui, volendo anche da Gaddis e quel suo modo multistratificato di appoggiare le parole sulla carta, una via al massimalismo inconsueta, sempre che ne esista una consueta, ecco, se volessi dare un titolo a questo viaggio, un viaggio da fermi, un perdersi nelle parole, lo intitolerei Gotico Abruzzese.

Amen.

Certo, lo dico direttamente io, perché tanto vuoi che non salta fuori un cagacazzi che se ne va a spulciare nella mia ingombrante bibliografia, ottanta libri pubblicati, qualche migliaio di articoli, e non scopra che in effetti un’idea del genere io, in passato., già l’ho usata, caspita, viviamo nell’epoca dell’autocitazionismo, perché mai non dovrei farlo io, del resto il mio essere indefesso anticapitalista, sin da quando, ero iscritto al primo anno dell’università, ho letto tutti gli otto volumi de Il capitale di Karl Marx ospitati dalla Biblioteca di Ancona, uno alla volta, un tot di pagine al giorno, con metodo e dedizione, il mio essere indefesso anticapitalista mi porta a combattere con tutto me stesso l’idea stessa di non aggiustabilità delle cose, i prodotti che si fanno sempre più fragili, usa e getta, l’inquinamento che ne consegue, l’idea stessa di sostituibilità che in qualche modo ha plasmato tutto il nostro pensiero occidentale, il “paghi poco e poi ricompri, sempre più economico che aggiustare” che ha in qualche modo impoverito tutto il nostro vivere, nulla è più pensato per durare nel tempo, gli oggetti come gli affetti, vaglielo a spiegare a quelli che decidono di farsi da soli i lavori in casa, Bricoman che prende il posto di Leroy Merlin, perché mai dovrei essere contrario a riciclare il mio stesso pensiero, frutto del mio ingegno, per altro, e sarò ben padrone di fare del mio ingegno un po’ il cazzo che mi pare, no?, certo, lo dico direttamente io, in passato ho accarezzato l’idea di scrivere un “Gotico anconetano”, anzi, l’ho in parte anche iniziato a scrivere, sulle pagine marchigiane del Messaggero, una serie di ritratti di anconetani illustri che se ne erano andati in giro per il mondo, sorte da me condivisa, ma di quella mia esperienza nulla è rimasto, credo di averne pubblicato qualche puntata, fin quando poi la mia collaborazione con quel giornale si è interrotta in maniera anche piuttosto rocambolesca, io che appoggio il candidato sindaco del centro-sinistra, sostenuto da una cordata di miei coetanei della cosiddetta “società civile”, un ex preside di liceo, fuori dai giri politici del solito PD, sto parlando di un sostegno a distanza, io vivo a Milano e voto a Milano, il giornale che si schiera in maniera molto poco consona a sostegno di un ex sindaco pluri-indagato, il mio nome che esce dalla lista dei collaboratori del giornale per un presunto “conflitto di interessi”, non meglio identificato per altro, visto che io non sono in nessuna lista elettorale, e che il mio sostegno non è mai passato da quelle pagine, nelle quali parlavo di cultura, non certo di politica, fine di una collaborazione, torno a parlare della Gang dopo qualche giorno che ne ho parlato in maniera più diffusa, che ha visto i fratelli Severini prendere le mie difese dal palco del Primo Maggio di Modena, una dedica sentita fatta da Marino prima di attaccare Socialdemocrazia che ancora non manca mai di farmi commuovere, ogni volta che mi ricapita sotto mano il video, vedi come è facile perdersi quando si passeggia col naso per aria, come sto facendo io.

Anche per quel motivo, ma i motivi sono assai più profondi e articolati, Gotico anconetano non è mai divenuto un libro, alla mia città ho dedicato il libello Seppellite il mio cuore sul Monte Conero, nel quale sottolineo come il mio ritorno definitivo in città dovrà avvenire solo da morto, piccola città ingrata, abitata da ingrati, non credo si meriti altre mie supplettive parole, fanculo Ancona.

Quindi che Gotico Abruzzese sia, anzi, sia stato, la gita fuori porta di Pasquetta partita da Philadelphia o da Chicago finisce a Vasto, due passi più in là della mia lucidità.