Nuvola di Elisa Bonomo con Chiara Vidonis, libera nos a malo

Elisa è una grande cantautrice, una forza della natura, non solo quando canta; è una vera performer, di razza


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Era il novembre del 2014, sette anni e mezzo fa. Avevo da poco ripreso a scrivere con assiduità di musica, dopo aver praticamente abbandonato la critica applicata al giornalismo per una decina d’anni. Avevo ripreso sulle pagine del FattoQuotidiano.it, sotto la direzione di Peter Gomez, e stavo cominciando, in verità con uno di quei corsi veloci, che prevedono l’apprendere una disciplina nel corso di pochi giorni, cosa significasse scrivere di musica nell’era di internet, ma soprattutto dei social.

Scrivere di musica è un mestiere strano, come per certe forma d’artigianato tocca fare sperimentazioni per vedere se quella soluzione funziona, il tavolo regge anche provando a metterci solo tre gambe, quella giuntura tra tubi consente comunque all’acqua di scendere giù dal lavandino, insomma, ci siamo capiti.

Nello scrivere di musica il discorso è ovviamente spostato su altri piani, quello che dici è sufficientemente interessante da colpire l’attenzione del pubblico e al tempo stesso essere credibile anche per il sistema musica, gli addetti ai lavori?, scrivere di musica su un quotidiano generalista implica farlo magari per un pubblico non strettamente appassionato di musica, anche nel momento in cui non parli necessariamente di un nome stranoto, il pubblico si fidelizza con la stessa facilità con cui succedeva ai tempi in cui scrivevo per la carta stampata, fregarsene in qualche modo delle regole di questo nuovo media, il web, e quindi delle regolette SEO, scrivere articoli che abbiano ampie premesse, non citino nella prima frase l’argomento del giorno, non abbiano parole chiave, non implica comunque scrivere per se stessi, insomma, tante erano le incognite che mi si paravano davanti in questa nuova avventura, volendo io evitare il trucchetto dei pezzi acchiappaclick, il ricorrere agli argomenti del giorno sui quali scrivere per avere lettori sicuri, il non usare titoli ruffiani e svianti per arrivare a un numero più ampio di lettori, semplicemente provare a fare il mio in questa nuova veste.

Il fatto che stiate leggendo l’incipit di un mio scritto, fatico ancora oggi a chiamare articoli questi che a ben vedere articoli non sono, questo è un diario online, al momento, ma anche quando diario online non era direi che di articoli i miei scritti avevano poco, pezzi lunghissimi, bizzarri, che eludono tutte le regole e le logiche SEO, in qualche modo attesta due ipotesi, che potrebbero essere anche entrambe valide: ho trovato un modo per far stare quel tavolo in piedi anche su una gamba sola o ho capito come lavorare sulla brand identity abbastanza da far sì che il tavolo traballi, volendo caschi pure, ma il marchio che ci ho apposto sopra rende quel tavolo comunque appetibile, boh, forse per collezionisti o appassionati di tavoli zoppi.

Comunque è nel novembre del 2014 che ho provato a testare una formula che, ai miei occhi, e nel mio mondo ovviamente i miei occhi sono i soli che vedono e che quindi possono riconoscere quello che ho di fronte, è risultata una quadratura del cerchio, un passo importante per l’evoluzione di quella che io intendevo per critica musicale applicata al giornalismo in rete.

Ve ne parlo oggi non per una neanche troppo improbabile forma di autocelebrazione, vi parlavo en passant poco sopra di brand identity, beh, è evidente che nel provare a lavorare il mio brand, quello cioè che ha il mio nome e cognome come titolo e la mia faccia come immagine io abbia non poco giocato su certi divismi da rockstar, ben prima che lo facesse uno Scanzi, per dire, diamo a Cesare quel che è di Cesare, poi che lui sia diventato Bon Jovi e io Willie De Ville poco cambia, ognuno lavora sui segmenti di mercato, che brutta parola, che ritiene più adatti a sé, ma perché oggi, a breve ve ne parlo, le regole SEO non mi hanno indotto a farlo in partenza, ci sarete abituati, è uscita una canzone che con quel che sto dicendo ha a che fare, mica vorrete che proprio oggi io cambi le mie regole, il mio modo di costruire tavoli senza gambe, no?

Nel novembre del 2014, sette anni e mezzo fa, ho scritto un paio di articoli che intendevano presentare nello spazio che il FattoQuotidiano.it metteva a mia disposizione una artista di grandissimo talento che però non era conosciuta al grande pubblico, forse non era conosciuta neanche al pubblico di appassionati, e togliamo pure il forse.

Ancora scrivevo poco, lo spazio che il giornale dava alla musica era ancora relativamente poco, il magazine che da quegli articoli e dal riscontro più che positivo di quegli articoli, i primi credibili in quelle lande, e penso gli unici credibili in quelle lande ancora oggi, sarebbe scaturito è arrivato solo qualche mese dopo, nel febbraio 2015, e scrivendo poco dovevo ovviamente dosare gli argomenti, per tenere alta l’attenzione non potevo ancora ricorrere solo alla mia firma, la fidelizzazione cui facevo riferimento prima, tanto meno alla credibilità del contesto, che stavo appunto costruendo a fatica, edificando su un terreno vergine, mi toccava quindi appoggiarmi in maniera intelligente ma credibile, cioè senza fare il furbetto o il paraculo, su nomi riconoscibili, per poi, questa l’idea, spostare l’attenzione altrove, usando sulla carta, carta metaforica, quello che è il principio degli opening dei concerti, vai a vedere gli U2 a Modena, maggio 1987, ma prima degli U2 ti vedi anche i Lone Justice di Maria McKee, i Big Audio Dynamite di Mick Jones e i The Pretenders di Chrissie Hynde. In sostanza il “ti presento un amico”, nella speranza che vi fidanziate, e nello specifico quello che presentava ero sia io che scrivevo, la mia firma, che il nome mainstream, quello col quale vi sareste dovuti fidanzare quello dell’artista di nicchia.

Solo che, poi passo davvero a raccontare i fatti nello specifico, nel mio corso accelerato di apprendimento dei nuovi codici di comportamento sul web, pur fugando con tutto me stesso paraculismi e furbatine, avevo appreso una lezione che non potevo non tenere in conto, ho segni piuttosto evidenti sul corpo che mi hanno lasciato quelle prime lezioni sul campo, per lasciare che gli occhi dei lettori vedessero in tutto il suo splendore il giovane o la giovane artista che volevo lasciare emergere, senza distrazioni intorno, ben in evidenza, non potevo che sgomberare del tutto il campo dalle brutture che invece sotto gli occhi di tutti ci erano anche troppo, evidentissime, sottolineatissime, spesso, troppo spesso, spacciate per belle e importanti.

Ho usato, una volta tanto, l’esempio giusto, sgomberare il tavolo, con gesto secco, plastico, tiri la tovaglia come certi maghi televisivi, e invece che lasciare che tutte le stoviglie, i piatti, i bicchieri, ricadano con precisione esattamente al loro posto, avete tutti presente la scena, ecco che di colpo la tavola rimane vuota, spoglia, al centro il solo nome su cui io voglio e volevo che concentriate la vostra attenzione, cocci e macerie lì in terra, da gettare nell’indifferenziata. Poi, non fingo di fare il tipo naif che non si rende conto di quel che andava facendo, e ancora oggi fa, mica ho ripreso a scrivere dopo dieci anni così, come fossi appena arrivato in città dal paesello, in spalla uno zaino carico di provincialismo, sapevo bene che spazzare via con un colpo secco un nome amato dal pubblico avrebbe comunque alzato il tasso di attenzione nei miei confronti, alimentato polemiche sui social avrebbero trovato benzina pronta a incendiarsi, quindi, pur mantenendo sempre alto il tasso di onestà intellettuale, non ho mai scritto una sola parola che non pensassi, ho semplicemente deciso di occuparmi di monnezza anche sapendo che era monnezza, quindi da gettare più che da studiare e a cui dedicare le mie attenzioni e quelle del pubblico, ho sgomberato il campo cavalcando una palla da demolizione, nudo come Miley Cyrus sapendo che il mio nome sarebbe cresciuto, l’outsider senza paura, il polemista che mena le mani sui social coi fanclub, quello che poi viene di solito introdotto nei contesti pubblici, le presentazioni, i passaggi radio, quelli tv, come “il temibile Monina”, “il critico più cattivo”, “il temuto”.

Veniamo al punto di partenza. È il 21 marzo 2014, sette anni e mezzo fa.

Scrivo un pezzo nel quale mi accingo a affrontare un tema a me caro, perché nei confronti di alcuni artisti usciti dai talent si applica un metro diverso da quello che si applica a altri. Intendendo, ovviamente, perché si considerano personaggi prescindibili, giustamente, nomi quali quelli di Emma e Alessandra Amoroso, sto parlando del 2014, mentre l’altrettanto prescindibile Marco Mengoni viene trattato come artista di valore assoluto? Questo stava accadendo, e in parte accade anche oggi, e sto ovviamente parlando solo di quei critici e giornalisti che non siano totalmente asserviti al sistema, quelli sempre a quattro zampe parlano bene di tutti quelli che vengono sottoposti loro, questo è il loro ruolo nel mondo.

Nello specifico dicevo: Mengoni è un artista vacuo, esattamente come Emma e la Amoroso, perché con lui siete tutti “buoni”, mentre con loro no? Ovviamente non volevo spingere i presunti “tutti” a essere buoni anche con le due artiste pugliesi, volevo semmai che si applicasse lo stesso legittimo metro di severità anche nei confronti di Mengoni.

Nel farlo, ovviamente, questo giustifica quanto scritto qui sopra con abbondanza di dettagli, imbastivo un paragone sulla carta improbabile, contrapponendo alla vacuità di Mengoni un nome che io indicavo come assolutamente profondo e solido, quello di una cantautrice che in realtà avevo già presentato un paio di settimane prima, il 4 marzo 2014, in conclusione di un pezzo nel quale affrontavo un discorso altrettanto generico sulla scena indie, discorso che partiva da certe dichiarazioni assolutamente fraintese di Vasco Rossi.

Vengo a noi, spazzato il campo dalle macerie di Marco Mengoni, sette anni e mezzo fa, proponevo come piatto unico la ballad appena uscita dal titolo Immaginario, di Chiara Vidonis, cantautrice di cui, un paio di settimane prima, avevo proposto il rock spigoloso e sensualissimo di Quando odiavo Roma. Una artista che avevo conosciuto per il suo essere passata, con successo, dal Premio Bianca D’Aponte e che, grande appassionato di cantautorato femminile quale sono, appagava in pieno la mia fame di nomi in grado di alzare infinitamente il livello di composizione e di scrittura, fuoriuscendo dai canoni solitamente molto ristretti delle cantautrici, in genere voce e chitarra acustica, versione vagamente “spoglia” di Cristina Donà, non perché quello fosse il piatto che passava il convento, intendiamoci, ma perché quello era il piatto che il convento voleva farci passare come piatto unico, una sola casella disponibile per le cantautrici nel sistema, che fosse il meno ingombrante e rassicurante possibile. Lei, Chiara Vidonis, aveva un sacco di colori sulla propria tavolozza, il suo primo album, che sarebbe uscito nei mesi successivi, Tutto il resto non so dove, ce lo avrebbe mostrato in tutta la sua plastica bellezza.

Chiaramente, sottoporre una artista emergente al fuoco non amico degli strali dei fan di Mengoni, l’Esercito, non è stata una mossa di quelle che oggi ripeterei senza pensarci, perché presume che il nome da attenzionare abbia le mie stesse spalle larghe, o anche solo la mia stessa voglia di menare le mani con gente che in un mondo ideale non meriterebbe né di avere voce né diritto al voto.

Ma nei fatti di attenzione ne è arrivata parecchia, su questo credo siamo tutti d’accordo.

Poi con Chiara ho anche stretto una amicizia che ritengo, seppur a distanza e dilazionata nel tempo, molto importante, insieme abbiamo scritto un paio di canzoni per l’album delle Bikinirama, credo le due più interessanti, Quando si parte si parte, brano impreziosito da un rap, sì un rap, di Enrico Ruggeri, e Una per una, con un featuring che mi ha emozionato come pochi di Sara Mazo, già voce degli Scisma (sempre sulle pagine del FattoQuotidiano.it ho scritto in quei mesi una lettera “d’amore” a Sara, chiedendo a gran voce agli Scisma di rimettersi anche solo per una volta insieme, lettera che ha in qualche modo creato i presupposti per il loro temporaneo ritorno, farfalla che batte le ali in Cina e che causa un terremoto Dio solo sa dove, fatto che metto tra le medaglie d’onore della mia carriera).

Chiara ha tirato fuori il suo album, ha lasciato Roma per tornare nella sua Trieste, ha centellinato la sua presenza sulla scena, ha preso parte al mio Festivalino di Anatomia Femminile, lei che avrei voluto già nelle prime gig, solo l’anno scorso, una attesa durata quattro anni, e ora sta lavorando al suo secondo album, anche qui, attesa lunghissima, il suo esordio è del 2015, fatto cui mi sto aggrappando come se da queste canzoni, nel suo passaggio al Festivalino ne presentava una nuova, come fosse la sola salvezza per l’umanità, questi sono giorni nei quali sono particolarmente fragile, scusatemi, e oggi esce come ospite di una canzone nuova di un’altra cantautrice che ritengo dotata di grande talento, e che vorrei, come nel caso di Chiara Vidonis, diventasse una di quelle che seguite con particolare attenzione, Elisa Bonomo.

Devio ancora, ci siete abituati.

Posso farlo, lo faccio, fanculo i SEO.

Febbraio 2019, quattro anni e mezzo dopo i fatti su narrati.

Siamo a Sanremo, e siamo ospiti proprio dell’arena dedicata a Pino Daniele che OptiMagazine ha in gestione all’interno di Casa Sanremo. In questo spazio, solitamente abitato, è il caso di dirlo, da Red Ronnie, va di scena una delle tre versioni sanremesi del Festivalino di Anatomia Femminile. Le altre due vedono le venticinque cantautrici che ne compongono il cartellone, artiste impegnate in un vero tour de force, tour de force di cui vado molto fiero, risposta col talento alla vergognosa assenza di artiste nel cast del Festival di Baglioni, calcare il palco di Piazza Sirio Carli, quello messo su dalla RAI e gestito da iCompany, e quello di Attico Monina.

Lì a Casa Sanremo, come in piazza, il pubblico è quello dei curiosi, gente che va in giro per la città dei fiori in cerca di momenti di musica, magari nella speranza di conoscere qualche nome che prima o poi calcherà anche le assi dell’Ariston. Io, che passo le giornate intervistando cantanti, animando le varie versioni del Festivalino, scrivendo pezzi e la sera parlando a RTL 102,5 con Mara Maionchi, Alberto Salerno e Cristiano Malgioglio, sono nel mezzo di una serie di giravolte, tipo trottola, giro con Mattia Toccaceli, mio partner in crime, e spesso capisco dove sono e cosa faccio perché è lui a specificarlo, del tutto disorientato come sono.

Considerate che è anche l’anno di Striscia la Notizia, con Pinuccio che ha ripreso le mie inchieste sul conflitto di interessi di Baglioni e Salzano, inchieste prima riprese anche da Dagospia, quindi di colpo ho anche una visibilità che solo la televisione credo possa ancora regalare, pressioni a non finire, paginate sui quotidiani, gente che mi ferma in strada manco fossi uno da fermare per strada.

Sono comunque a Casa Sanremo, seduto tra il pubblico mentre le cantautrici del Festivalino cantano le loro canzoni di fronte a un pubblico piuttosto numeroso. Nel backstage si aggira un Red Ronnie particolarmente furioso, perché il Festivalino, a metà pomeriggio, spezza le sue dirette con gli emergenti, ma Red è Red, è fatto così. Sale sul palco Elisa Bonomo, chitarra a tracolla, presenza scenica che all’Ariston non sfigurerebbe affatto, anzi, bucherebbe assolutamente le telecamere, talentuosa e fascinosa come è. Attacca a cantare. Lei è molto brava, il suo album Antifragile mi ha conquistato già al primo ascolto, e la sua presenza già al Festivalino andato in scena nel settembre del 2018 al MEI di Faenza mi ha dimostrato, ce ne fosse bisogno, che dal vivo rende tanto quanto in studio, forse anche di più (la presenza è presenza). Dietro di me c’è una fila piena di persona di una certa età, perché il pubblico di Sanremo è eterogeneo, capita di avere nello stesso posto gente di età assolutamente diverse, conquistarle tutte è una sorta di impresa epica. Elisa attacca una canzone contenuta su Antifragile, qui in versione acustica, è un bluesaccio dal testo spigoloso, il titolo è Puttana.

La porta a casa di bravura, sono entusiasta. Così non sembra essere la signora sulla ottantina che siede dietro di me, suo marito col cappello in testa al suo fianco, imbarazzato.

Imbarazzato perché la signora attacca a applaudire in maniera enfatica. Siccome ha visto che sono stato io a presentarla, e ha recepito che mi chiamo Monina, la signora sta battendo platealmente le mani a me, a pochi centimetri della mia faccia. Mi ripete, con tono sarcastico, impossibile fraintendere i suoi intenti, questa frase “Bravo Monina, complimenti, belle parole, complimenti, bravo Monina”.

Credo faccia riferimento al testo del brano, che è piuttosto duro, il titolo Puttana lascia intuire qualcosa, seppur ironicamente tagliente, e la scenetta va avanti per tutta la canzone, entrando di diritto nel mio mondo immaginario, e non solo nel mio. Bravo Monina, complimenti, detto battendo le mani con enfasi, lentamente, diventa da quel momento una specie di tormentone di quel Sanremo lì, e non solo.

Elisa Bonomo, quando incide e suona tra nome e cognome compare il nick name Erin, Elisa Erin Bonomo, è una grande cantautrice, una forza della natura, non solo quando canta, le influenze rock e new wave ben presenti nelle sue canzoni. Ha una capacità di catalizzare l’attenzione non appena apre bocca, spostando quell’attenzione su ciò che canta, e ha la medesima capacità anche quando sale su un palco, una vera performer, di razza. Ha una scrittura, parlo di composizione e di scrittura dei testi, matura, tra musica d’arte e certo pop-rock di matrice inglese, che ben si sposa con una voce importante, perfetta per le sue canzoni, e nel caso del brano che proprio oggi ha visto la luce, l’aver scelto come compagna di strada Chiara Vidonis è ulteriore medaglia al merito. Le due artiste si sposano che è una bellezza, voci diverse, certo, ma assolutamente compatibili, come se avessero da sempre cantato insieme.

Dovete sapere una cosa, ve ne sto già dicendo tante, direi che una in più non vi farà male, nel mio costante mappare il cantautorato femminile, attività che poi si concretizza nei miei pezzi, ovviamente, ma anche nelle antologie di cantautrici che curo, Anatomia Femminile, e nel Festivalino, che si tratti della versione online o di quelle fisiche, ho in qualche modo allargato lo sguardo a un  mondo sonoro e autorale che comprende un numero piuttosto alto di artiste. Nel rivolgermi a questo mondo così multiforme e variegato, però, ho ovviamente una sorta di mio mondo ideale, non è un caso che nelle varie versioni fisiche, come in Femminile Plurale, lo spin off del Festivalino che va di scena a Officina Pasolini, per la direzione di Tosca e mia, il numero di artiste coinvolte sia assai più ristretto, e che spesso le artiste coinvolte siano le medesime. Ecco, in questa mia ulteriore selezione all’interno del cantautorato femminile, c’è una zona dell’Italia che occupa un posto particolare, ai miei occhi sorta di Seattle dei primi anni Novanta, capace di tirare fuori artiste di primissimo piano, di quelle che, ti capitasse di dover finire su un’isola deserta vorresti i loro album con te, meglio ancora, vorresti proprio loro con te, a cantarti le loro canzoni dal vivo. È il nord-est, il triveneto, insomma, una striscia di terra che parte da Vicenza e arriva fino a Trieste, e che ha per protagoniste le già citate Elisa Erin Bonomo e Chiara Vidonis, rispettivamente di Venezia e Trieste, con in più una terza artista verso cui nutro una altrettanta altissima stima, oltre che un sentimento di sincera amicizia, e che risponde al nome di Irene Ghiotto, in queste pagine ve ne ho parlato più e più volte.

Ecco, se questa zona d’Italia è la Seattle primi anni Novanta, loro sarebbero i Soundgarden, i Pearl Jam e i Nirvana, inutili che io dica chi è chi. Un luogo evidentemente particolarmente fertile, in fatto di talenti, ascoltarvi Nuvola di Elisa Bonomo, featuring Chiara Vidonis non può che rendere questa immagine particolarmente concreta di fronte ai vostri occhi.

Nuvola, canzone in cui poesia e energia si incontrano e fondono come raramente capita di trovare nel pop nostrano, il brano è decisamente d’autore, certo, ma ha un potenziale pop e radiofonico molto elevato, se solo la macchina se ne rendesse conto, vede Elisa Erin Bonomo uscire per Dischi Soviet, come auspico un progetto più complesso come un album.

Mai come in questo periodo difficile abbiamo bisogno di bellezza, credo, così è almeno per me.

Chiudo con un ultimo aneddoto personale, relativo proprio al momento in cui ho ascoltato Nuvola. Ho scritto di mattina presto, un lunedì, a Elisa, chiedendo se le andava di anticipare l’ufficio stampa dell’etichetta, mandandomi il brano, così che lo potessi ascoltare e potessi cominciare a ragionare su cosa scriverci intorno. In realtà avevo proprio bisogno di iniziare bene una ennesima settimana in lock down, e cosa di meglio di un inedito di una artista che molto stimo in compagnia di un’altra artista che molto stimo?

Le ho scritto su Whatsapp, come usa fare di questi tempi.

Mi ha risposto dicendo qualcosa che suonava tipo “te lo mando a breve, appena finisco con l’idraulico”.

Non mi sono potuto trattenere, e a parte il ringraziarla, le ho detto che parlare di idraulici la mattina presto faceva “troppo Valentina Nappi”, aggiungendo l’ormai classico “Brava Elisa… brava”, facendo riferimento all’anziana signora di Casa Sanremo.

Pochi secondi e mi ha risposto: “Ma magari, e invece ho problemi coi galleggianti”.

La bellezza ci salverà, ripeto, ma anche qualche risata, diciamocelo, ci sarà d’aiuto.