Visto com’è il mondo, scappo con Amerigo Verardi dentro Un Sogno di Maila

Il cantautore brindisino è tra quegli artisti che andrebbero preservati come si fa con le cose che riteniamo preziose per la nostra salvaguardia


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Siamo davvero in giorni ostili, la voce baritonale che funge da bridge di Il vuoto di Franco Battiato direbbe “tempi di profezia parlano di Dei che avanzano”.

Vivo a Milano, Lombardia.

Da oltre un anno siamo in balia di cialtroni che non perdono occasione di farci sapere quanto siano allo sbaraglio, ultima della lunga lista di occasioni di estremo imbarazzo l’assessora Moratti che attacca l’azienda a cui lei ha affidato il compito di gestire il piano vaccinale in Lombardia di essere incapace di gestire il piano vaccinale, piano dall’azienda condivisa con l’assessora. Ci si lamentava, legittimamente, quando a occupare quella poltrona era il tipo che sosteneva che con l’RT pari a 0,5 per contagiarsi toccasse stare in presenza di due contagiati, ma forse, se possibile, siamo caduti letteralmente dalla padella alla brace, con Fontana che sta sempre al suo posto, colpa che chiunque sia al governo, dall’afasico Conte all’anaffettivo Draghi, si porterà in cuore nel giorno del Giudizio Universale, dovevamo essere commissariati già un anno fa, non lo siamo ancora e la sensazione, persistente e condivisa dalla più parte, è che non se ne uscirà bene e presto.

Metteteci che nel mentre arrivano come ristori, questo ci dice il Decreto in atto, pochi spiccioli, per altro sempre a vantaggio di chi ha, mai di chi ha perso, e avete di fronte un quadro che in confronto il banale, come riferimento, non certo come opera, Urlo di Munch è una boccata di ottimismo.

A dare al tutto un tocco di surreale, il fatto che, mentre la vita procede a strappi, provando a transitarci verso un futuro che al momento ci appare appannato, ma che comunque è già meglio dell’idea statica e apatica di presente, tutti chiusi in casa, chi con il finto smart working, nei fatti un lavoro indefesso assai più pesante di quello già pesante in presenza, parlo di mia moglie, chi, come me, nel vano tentativo di progettare qualcosa in mezzo alla Sarajevo dei primi anni Novanta, desolazione e macerie, urla di pianto e lutto, chi, i figli, in perenne didattica a distanza, la connessione che rallenta, i zoombombing da parte di bestemmiatori, la fatica di essere capiti dagli adulti che si trovano dall’altra parte dello schermo, ho sentito cose che voi umani non potete immaginare, frasi che il tribunale di Norimberga avrebbe sommariamente fatto coincidere con un colpo secco alla nuca, fuori, e per fuori intendo nel mondo che si trova letteralmente e fisicamente fuori da casa mia, le strade, le piazze, i marciapiedi, sembra che nessuno stia rispettando le indicazioni piuttosto precise dei decreto legge, il traffico esattamente per come si svolgeva quando eravamo in zona gialla, cioè esattamente a come si svolgeva prima della pandemia, i marciapiedi affollati, come le panchine del microparchetto nella piazza sotto casa, anche i bar aperti oltre le 18, lungi da me fare lo sceriffo, mi hanno sempre fatto schifo gli sceriffi, sempre stato dalla parte dei banditi, ma forse palesare l’assenza di controlli non è il modo migliore per far rispettare le leggi in un paese come il nostro.

Difficile, in effetti, chiedere ai propri figli di essere responsabili quando tutto intorno è la sagra dell’irresponsabile, e a poco serve farli uscire nel weekend, insieme e diretti al parco, ampio e dove si possono tenere le distanze, tra quel che vedono coi loro occhi dai balconi e quel che vedono attraverso gli schermi dei device è più che chiaro loro che siamo gli ultimi giapponesi sull’isoletta deserta, soli a tenere conto di quanto ci è stato detto e chiesto, mananggia a noi e al non essere più tornati in Ancona, a vedere i miei cari, pur potendolo fare, per mero spirito di responsabilità.

Ripeto, siamo davvero in giorni ostili, difficili, complicati, giorni che scorrono lenti, immobili, e che ci lasciano addosso il disagio che si prova in genere quando sappiamo di non essere nel giusto, seppur nello specifico la sola cosa amorale che ci si stagli di fronte è da imputare a chi gestisce la macchina, non certo a noi che di questo spettacolo osceno siamo spettatori e comparse.

Normale, sempre che abbia senso in questo contesto utilizzare questo termine, prenderlo come paradigma, addirittura, sarebbe cercare un mondo immaginario, di fantasia, e rifugiarcisi dentro, come avviene in certi romanzi e film adolescenziali, un Paese delle Meraviglie capace di accoglierci e di presentarci un menu diverso da quello che passa la carta del nostro ristorante. Sarà mica un caso il grande successo di Netflix, in questi mesi? Sarà mica una casualità il fatto che ogni volta che passano Harry Potter in tv è un rincorrersi di commenti infantili, commossi, sentiti? Figuriamoci, ci sono milioni di persone che hanno letteralmente perso il senno dietro il Grande Fratello Vip o ora L’Isola dei Famosi, ben venga chi si perde dietro opere di fantasia che almeno non sono monnezza.

Ci stiamo mestamente sedendo su un letto di spine, lasciando che il dolore diventi familiare, sopportabile, ci facciamo anche andar bene che ci si dica che tutto quello che ci stanno raccontando, centellinando le buone notizie, perde ora dopo ora proprio i dettagli positivi, comunque minuzie in un quadro apocalittico, gioiamo all’idea di un passaporto vaccinale per riprendere possesso del mondo, quel mondo che negli ultimi anni, vuoi per la rete, vuoi per i voli low cost, era diventato sempre più piccolo e conosciuto, ben sapendo che a noi il vaccino non toccherà chissà per quanto, se mai ci arriveremo, questo mentre la comunicazione ufficiale incespica, si fa allarmistica, terroristica, si prende gioco delle nostre paure, niente funziona più del terrore per tenere gli animali immobili, non è certo scoperta recente.

In questo quadro orrorifico, nel quale ogni tentativo di lettura non uniformata risulta un atteggiamento negazionista, complottista, antigovernativo, come se non essere d’accordo con una narrazione eccessivamente di parte equivalesse passare dalla parte dei minus habens, tutto diviso, visto come tifo calcistico, chi non è con me è contro di me, santo Dio, le uniche certezze solide e sicure restano le incognite riguardo al futuro, anche quello prossimo.

So che detta così suona paradossale, ma oggi come oggi siamo messi peggio dell’anno scorso, quando la pandemia ci ha colpito forte alle spalle, lasciandoci esanimi e privi di orientamento.

Sappiamo, certo, che l’estate dovrebbe portare a un miglioramento delle condizioni generali, il passare più tempo all’aperto, il caldo, tutto sembra favorire un allentamento della pressione sanitaria, e questo unito al procedere, a rilento e più a parole che a fatti della campagna vaccinale dovrebbe indurci a un sano ottimismo, sempre che oggi sia sensato usare un termine come sano, ma sappiamo, l’estate scorsa ce l’ha spiegato sin nei minimi dettagli, che quello è il classico fuoco di paglia, l’autunno ci ha presentato un conto assai più salato della primavera, il numero dei morti salito a dismisura, la stasi momentanea che è diventata permanente, la speranza che si è sgretolata quando abbiamo capito, e non era poi così difficile, che non erano certo le discoteche il problema, come prima non lo erano state i runner, i pisciatori di cani, la movida o il problema che un giorno sì e l’altro pure è stato indicato come irrisolvibile, e la carenza di uno sguardo lungo da appoggiare su progetti e aspettative, alla lunga, ci sta spegnendo, segando le gambe, togliendo ogni entusiasmo. Anche perché ormai a molti è evidente che questa che inizialmente sembrava quasi un’avventura da raccontare poi sorridendo, parlando al passato remoto, è diventata parte integrante della nostra quotidianità, l’oggi, dopo un anno e un mese è difficile star qui a parlare di contingenza e di eccezionalità dei fatti narrati, la nuova quotidianità è diventata in tutto e per tutto routine, chi ha passato una vita a usare la macchina da scrivere, una volta passato al PC, non è che si sia soffermato troppo a pensare ai bei tempi andati dei tasti rumorosi e del rullo che si incastrava premendo la Erre, e so che qui manca del tutto la parte dotata di nostalgico fascino, ma noi umani siam fatti così, ci abituiamo a tutto, e rimuoviamo le vecchie abitudini, ci adattiamo anche al peggio.

Per lavoro scrivo, e scrivo di musica, per dire.

Lo faccio da quasi venticinque anni, e sto continuando a farlo.

Anzi, in questi mesi così anomali e ostili mi sono aggrappato alla scrittura con ancora più fervore, forse perché le parole non mi possono tradire, quello che finisce nelle mie pagine ha un solo Dio, e porta il mio nome e cognome. Ho scritto molto più di quanto io non faccia in genere, anche perché nel mentre ho smesso di fare radio, di fare tv. Ho sviluppato alcuni format video, li avete visti, ma molto se non tutto è passato dalla parola scritta, anche le mie lezioni, i miei webinar, i miei workshop hanno trovato uno stallo. Ho scritto tanto e sempre provando a riportare i miei ragionamenti, a volte semplici suggestioni neanche troppo razionali, verso la musica.

Pur in uno scenario ulteriormente apocalittico, inizialmente la stasi, il blocco delle uscite, le date dei concerti che iniziavano a saltare, anzi, a essere rimandate, poi un tentativo vano di fingere la normalità, i reggaeton e le canzoni brutte dell’estate, l’attaccarsi come un’ancora di salvezza a Sanremo, le date che continuano a saltare.

Dischi ne sono usciti, specie dall’estero, molti e anche importanti, ma la prospettiva di una ripresa vera e propria, specie per il mondo dei live, la colonna vertebrale del sistema musica, da anni, è qualcosa di al momento inipotizzabile, almeno da noi. Anzi, di imbarazzante, perché provo molto disagio nel constatare che mentre all’estero saltano tour internazionali, rimandati all’anno prossimo, a volte annullati tout-court, da noi ancora si taccia colpevolmente sui tour estivi, quelli che dovrebbero andare in scena negli stadi e nelle grandi aree all’aperto, come se fosse pensabile partire per metterli in piedi all’ultimo, come se anche li volessero far partire, cosa impossibile, poi la gente ci andrebbe come nulla fosse, chi se ne frega di una pandemia in corso. Del resto, immagino sia impensabile, ormai, metterci una pezza, e questo fatto sta in qualche modo tenendo in scacco tutta la filiera. In genere andava così, i Big uscivano con un disco, premurandosi di non farlo in concomitanza con l’uscita di altri Big, in modo di conquistare la vetta della classifica. In contemporanea tirava fuori le prevendite del tour, previsto mesi dopo. Anche lì, c’era un alternarsi di artisti, non tutti fuori con tour nello stesso momento, così che i fan di più artisti potessero avere sempre concerti da andare a vedere, e gli artisti avessero sempre fan cui rivolgersi, non solo il proprio zoccolo duro.

Ora abbiamo in stand-by i tour relativi a biglietti messi in prevendita più di due anni fa, e relativi artisti e album. Alcuni, pochi, sono usciti nel mentre, mettendo in prevendita tour, quasi solo in strutture medie, palasport e locali, per l’autunno. Quelli che avevano azzardato tour primaverili, per questa primavera, hanno fatto una imbarcata di niente, un bagno di sangue, perché la cautela, in questi casi, è il minimo sindacale. Nessuno sta pensando a mettere in prevendita tour negli stadi per l’estate 2022, visto che presumibilmente è lì che finiranno i concerti che dovevano esserci questa estate, e che a loro volta ci sarebbero dovuti essere nel 2020, concerti i cui biglietti sono stati venduti nel 2019. Tradotto, il sistema si trova a fare i conti con un buco di almeno due anni, di tour e di album. Certo, ci sono quelli che se ne fregano, quelli che in tutti i casi i concerti nelle grandi arene non li avrebbero potuti fare, quelli che sono piccoli, parte del sistema per modo di dire, che godendo di maggiore agilità continuano a fare cose, ma anche lì, tirare fuori album e non poterli presentare e non poterli vendere al banco del merchandising durante le serate è un po’ buttarli via. Certo, escono tanti singoli, ma è altra faccenda, meno programmatica, decisamente meno legata a una progettualità.

Tutto è immobile, parlare di musica è davvero qualcosa di difficile, per quanto si possa dire difficile occuparsi di argomenti considerati effimeri, talmente futili che lo fanno tutti convinti di poterlo fare con lo stesso peso e la stessa competenza di chi lo fa per mestiere.

Io che da anni auspicavo a una Apocalisse del sistema, avevo da tempo indicato le crepe sui piloni, le falle nelle fondamenta, indicato i nomi dei colpevoli, io che tifavo per la fine, ora mi trovo a disagio nel constatare che invece che un’esplosione che, come certe bombe, mi sembra al Idrogeno dicessero quando ero piccolo, bombe tipo l’atomica che però lasciavano intatti cose e edifici ma uffidevano solo le persone, che brutto esempio sono andato a pescare, scusate, sono stanco, c’è stata un’implosione, e invece di vedere sopravvissuti solo i meritevoli, per quello evocavo una Apocalisse, per togliere di mezzo il Lato Oscuro della Forza e lasciare che a vincere fosse il Bene, ha spazzato via tutta, bambino e acqua sporca.

Traduco, trovarmi a fare il tifo per chi, solo un anno e mezzo fa, avrei voluto andasse in giro per le strade coperto di pece e piume mi lascia avvilito. Confesso di essermi anche recentemente incaparbito a bastonare chi in genere ho bastonato, anche stavolta con ragioni più che legittime, più per continuare a fingermi vivo che per altro, chi se ne frega se in questo scenario disastroso escono canzoni di merda, chi se ne frega se certe storture continuano a essere in piedi, qui non riesco neanche a capire quando potrò rivedere i miei genitori, che non vedo da agosto e non abbraccio da un anno e mezzo, non sarà certo un disco di merda a guastarmi l’umore, già sufficientemente a pezzi di suo.

In questo scenario, quindi, non posso che seguire il flusso, provare a omologarmi, e cercare rifugio nella notte in un mondo fantastico anche io, assumere posizione a uovo, lasciare che passi la furia omicida e mi pensi morto, avendo pietà di me.

Per dire, settimana scorsa ho letto quattro libri, anche belli corposi, tutti sopra le quattrocento pagine. Compulsivamente, come se ne andasse della mia stessa vita. Leggo molto, non è certo una cosa fuori dall’ordinario, sul comodino ho sempre almeno una decina di libri che porto avanti nella lettura contemporaneamente, lasciando che sia l’umore del giorno a decide quale sarà il libro che affronterò di volta in volta, con le dovute eccezioni dei libri che mi prendono talmente tanto da pretendere tutta la mia attenzione, ma i quattro libri che mi sono letteralmente divorati non rientrano tra questi ultimi, erano semplicemente tomi che cincischiavano da tempo, che però sopperivano a questa mia mancanza di stimoli nel mondo reale, erano esattamente il luogo altro dove mi sarei voluto trovare. Come luogo altro in cui mi vado a nascondere, spesso, sono queste mie parole, i ricordi che vado a pescare apparentemente senza un motivo stringente, le musiche anche del passato che vado a tirare fuori.

La musica. Ecco, finita questa sorta di maratona nel mondo dei libri, continuo a leggere, ovvio, ma con un filo meno di apprensione, è in un disco che mi sono rifugiato, e di questo vorrei ora passare a parlarvi, spero con la consapevolezza di come questo disco, ora come ora, mi sia necessario.

L’album dentro il quale trovo conforto in questi giorni spigolosi e spinosi è Un sogno di Maila di Amerigo Verardi, e se non sapete chi è Amerigo Verardi, beh, ho paura che i vostri giorni fin qui siano comunque stati assai più poveri di quanto non avrebbero potuto. Cinquantacinquenne cantautore brindisino, Verardi è attivo da una quarantina d’anni, dentro band considerati a ragione seminali quali gli Allison Run o i Lotus, i Betty’s Blues o i Lula, per dire, e come artista solista. Certo con tempistiche tutte sue, sia nel programmare le uscite, l’ultimo suo lavoro, un vero gioiello, Hippie Dixit risale a cinque anni fa, doppio album dove cantautorato, psichedelia, acid-folk, semplicemente pop si incontrano e fondono senza soluzione di continuità, ma con una qualità nelle composizioni e nell’interpretazione, oltre che nella produzione, che difficilmente siamo abituati a trovare nel suolo italico, con in più il valore aggiunto mica da ridere di pretendere un ascolto sensato, attento, anche quello fuori dalle attuali logiche della frammentarietà tipica di Spotify, i settantasette minuti del nuovo lavoro si dipanano tutte in un’unica traccia, dentro la quale si trovano quegli stessi elementi su menzionati, scanditi ininterrottamente tra i venti brani brani, quindici canzoni ivi compresi cinque intermezzi musicali, tutti arricchiti da testi colti, alti, pieni di soluzioni linguistiche e narrative, anche se è ovviamente l’onirismo e quindi il mondo slabbrato dei sogni a farla da padrone, sempre interessanti, citazioni come se piovessero dal cielo, non solo testuali ma anche sonore.

Settantasette minuti in un’unica traccia significa chiedere all’ascoltatore di fermarsi e ascoltare, pretenderlo quasi, non fosse che l’aura di Amerigo Verardi sembra più quella di chi ti invita a fare un viaggio con lui, più di chi ti impone la propria idea di mondo. Idea di mondo che comunque trapela in ogni singola nota, nelle sfumature dei suoni, gli strumenti scelti, quasi tutti suonati da lui stesso, le parole cesellate per accompagnare i sogni di Maila e con quelli di Maila anche i nostri. L’impressione, saldamente maturata nel tempo, è che un po’ come accade per la figura di un Federico Fiumani dei Diaframma, seppur i due appaiano umanamente assai distanti, Amerigo Verardi sia quel tipo di artisti che andrebbero preservati come si fa con le cose che riteniamo preziose per la nostra salvaguardia, sorta di Panda da proteggere anche portandone il viso stampato sulle t-shirt, artisti che all’estero verrebbero portate in palmo di mani da discografici e critici, ma che da noi possono almeno contare su un pubblico di nicchia che li tiene in vita.

Finché c’è Amerigo Verardi c’è speranza, I sogni di Maila lo dimostrano oggi più che mai, verrebbe da dire. E anche se speranza, oggi, ce n’è poca, almeno la musica, quella, resta.