Quando avremo anche noi una reginetta sfatta come St.Vincent?

Il cantautorato femminile italiano avrebbe bisogno di un'evoluzione e non mi riferisco solo alla poetica, ma anche all'iconicità e all'immaginario


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Navigando sui social, giorni fa, mi è capitato di leggere un pezzo che anticipava i contenuti del prossimo album di St. Vincent, artista che nutre la mia totale e indefessa stima. Un pezzo che ha un titolo bizzarro, a breve ve ne parlo, che prende malamente spunto da un passaggio di un brano centrale del suo nuovo lavoro, ho letto nell’articolo medesimo, lavoro la cui uscita è prevista per maggio, e che ci mostra, ma le immagini le avevo già trovate online, l’immaginario che accompagnerà questo nuovo lavoro di Annie Clack, questo il nome della cantautrice americana.

Il titolo dell’album è Daddy’s Home, e nelle immagini che accompagnano l’articolo lei appare stancamente discinta in una vestaglia tipo kimono dorata, un caschetto biondo a incorniciarne il volto affilato, un paio di calzettoni a coprire senza nessuna sensualità i piedi, un reggiseno a coppa bianco lucido a fare capolino da sotto.

L’immagine della copertina, stando a Amazon, ce la mostra sempre col caschetto biondo, sempre abbastanza lasciva, con una pelliccia sintetica chiara, una sottoveste scura e calze a mezza coscia, il tutto in un color seppia che fa molto foto d’epoca.

Il pezzo, a firma Claudio Todesco, invece, mia vecchia conoscenza di quando scrivevo per Tutto Musica, lui spesso chiamato a fare il poliziotto buono nelle interviste Crash, una positiva, la sua, posta di fianco a una negativa, la mia, del disco del mese, quello il cui titolare spesso campeggiava in copertina, porta per titolo un riferimento a un brano che evidentemente è importante all’interno di quel lavoro, quello cui facevo riferimento più su, un passaggio di quel brano in cui la cantante si chiede se lei altro non sia che una “Benzo Beauty Queen”, una reginetta di bellezza sotto benzodiazepina, il titolo dell’articolo God Save the Benzo Queen, titolo tanto bizzarro quanto ridicolo, dire “reginetta di un concorso di bellezza sotto benzodiazepina” e dire “regina della benzodiazepina” non è esattamente la stessa cosa, fatto che ha giustamente spinto la stessa St.Vincent a blastare amorevolmente il giornaletto italiano con un tweet nel quale fa notare come “benzo beauty queen” e “benzo queen” abbiano appunto significati assolutamente diversi, povere capre, le pagine che ospitano quel pezzo, ben scritto ma assolutamente mal titolato sono quelle di Rolling Stone Italia, che per intendersi, non fosse per Claudio Todesco, rientrerebbe a pieno titolo in quei magazine maschili tutto “come rinforzare i tuoi addominali” e “tecniche sicure per combattere la disfunzione erettile”, lo dico perché non vorrei mai si pensasse che sono uso leggere questi giornaletti.

Resta che l’immaginario da reginetta del ballo sotto benzodiazepina quello che St.Vincent si gioca in queste immagini di accompagnamento, è di una potenza deflagrante.

Nel pezzo, molto interessante e accurato, Todesco è un giornalista musicale preparato e competente, la sua attenzione si concentra inizialmente proprio su quel brano, nel quale St.Vincent si ritrova a fare i conti con quante, scrittrice, artiste, attrici, in passato si sono trovate con la propria arte e la propria vita a aprire le strade che ora, a distanza di decenni, anche lei si trova a percorrere, mettendo in piedi un malinconico confronto, per altro piuttosto ingeneroso nei suoi stessi confronti, forse per modestia o magari per una mera questione esistenziale.

Il brano, descritto da Todesco come un gospel d’altri tempi, con cori femminili a accompagnare le voce dell’artista, cita Joan Didion che guida la sua Corvette del 1969, Joni Mitchell, immancabile, Nina Simone che si trova a vedersela brutta per aver intonato l’inno eversivo Mississippi Goddam, Marilyn Monroe che preferisce l’eroina alla realtà, Tori Amos e il suo stupro, lasciato senza colpevoli, chiosando con la domanda retorica: io chi sono in confronto a loro? Una reginetta di un concorso di bellezza sotto benzodiazepine?

Un album che guarda al passato non con lo spirito dell’amante del vintage, si legge, ma con una lavoro filologico di recupero di quei suoni, quelle immagini, quelle atmosfere, perché Daddy’s Home, il titolo di questo parla, è una sorta di pacificata resa dei conti di Annie Clack col padre, ai suoi nove anni passati in carcere, e prima ancora l’infanzia, l’adolescenza turbolenta, alla scoperta della musica che poi dentro questo disco è finita.

Non è però di un disco che non ho ascoltato che voglio parlare. Intendiamoci, ne scrivevo settimane fa proprio parlando di quel che succedeva nell’ufficio di colui che di Tutto Musica era la mente e il caporedattore, Luca Valtorta, parlare teoricamente di un disco senza averlo ascoltato è più che possibile, in alcuni casi addirittura doveroso, ma io mi voglio concentrare su altro, come spesso faccio, teorizzando, appunto, e da qui partire per la tangente, perdermi e portandomi con me in questo mio errare, divagare.

Io oggi vorrei partire da Daddy’s Home, o meglio, dell’immaginario sonoro, stando a quanto ci ha raccontato Claudio Todesco, e dall’immaginario tout-court che St.Vincent ha deciso di creare per presentare al mondo il suo nuovo album, un immaginario da reginetta di un concorso di bellezza sotto psicofarmaci, lasciva e sfatta, i suoni gracchianti dei vinili che si trovavano in casa sua, quando era piccola, quando il gracchiare non era ancora stato spiegato come alternativa seria al piattume del digitale, intendiamoci, lì si gracchiava e strisciavano le puntine e basta. St.Vincent, del resto, ci ha abbondantemente abituato a questi repentini cambi di mondi sonori e di immaginari, di iconografia, praticamente uno differente per ogni volta che si è presentata sul mercato con un nuovo lavoro, basti pensare a quanto fatto per e con Masseduction, tutta vestitini in lattice aderente, il culo sparato in primo piano in copertina, e di conseguenza suoni sintetici, power pop dove ora c’è un continuo richiamo ai primi anni Settanta, salvo poi ridipingere il tutto di suoni acustici, in Masseducation, lei languida e nuda, dietro un vetro opaco, come lo specchio del bagno quando esci dalla vasca, ma davvero c’è tanto da studiare guardando alla sua encomiabile carriera, l’algida regina dai capelli argentati sul trono rosa antico del lavoro omonimo, il viso cubista e inquietante in quello condiviso con David Byrne, maestro di immaginari e poetiche mica da ridere, Love This Giant il titolo del loro lavoro, sorprendente.

Una cantautrice che ama sperimentare, St.Vincent, pop, sicuramente, iconica, considerata algida per il suo modo sorprendentemente professionale di affrontare i live, ma al tempo stesso capace di sprizzare sensualità da ogni sua nota, ogni sua mossa, una cantautrice capace, e questo è un dono, un talento, di essere ascoltata anche quando parla, non solo quando canta, ogni sua parola, dalle più spiazzanti, quelle di suoi alcuni testi, a quelle che finiscono dentro le sue interviste, oggetto di discussioni, dibattiti, a loro volta destinate a diventare iconiche, si pensi a quando ha realizzato una chitarra elettrica che tenesse conto del fatto che a suonarla fosse una donna e non un uomo, questioni relative ai manici pensati per mani più piccole, meno pesanti, per non devastare le schiene di soggetti evidentemente meno possenti, con lo spazio per le tette, dettaglio che potrebbe sembrare buffo, ma che in effetti ha uno suo perché assai fondante, si pensi a come tanti passaggi del nostro vivere quotidiano siano pensato sull’anatomia maschile, che so?, le cinture di sicurezza delle auto. Una donna che ha spesso cercato di sparigliare le carte, passando appunto dal synth pop al punk, come quando ha prodotto le seminali Sleater-Kinney col loro The Center Cannot Hold, album nel quale nei fatti le rriot girls si sono spostate nei territori pop, ma sempre mantenendo quella aura di credibilità che il venire dall’hardcore ha sempre concesso loro, o quando, come già raccontato, ha tenuto il passo di una leggenda vivente come David Byrne, non esattamente personaggi che fatichi a stagliarsi su chi gli si trova appresso, come ben sanno i suoi ex compagni dei Talking Heads.

Avete già capito, immagino, dove io voglia andare a parare.

E lo avete capito perché siete ovviamente tipi svegli, non ci piove, ma anche perché su questo tasto batto come un martello su un chiodo, da tempo e con una costanza ostinata. Voglio arrivare al momento e al posto in cui affermo, con voce potente, definitiva: ma dove sono le artiste italiane che provano a fare qualcosa di simile?

Sapete, e anche qui, lo sapete esattamente per i medesimi motivi, ci torno sopra con una costanza quasi naif, quanto io mi stia battendo per accendere i riflettori su una intera e secondo me portante parte della filiera musicale che, per mere faccende di sessismo, a volte anche implicito, e di patriarcato viene tenuta al palo, un mondo di uomini che relega le donne in un angolo, e solo purché siano quelle donne lì, rassicuranti e assai poco dotate di tridimensionalità.

Ho anche più e più volte rivendicato il diritto di parlare di cantautorato femminile, tra accuse di mansplaining e di volontà, anche a fin di bene, intendiamoci, di ghettizzare un gruppo di artiste, di essermi in qualche modo inventato una scena inesistente, perché “femminile” indica un sesso, non un genere musicale, andando in qualche modo a provare a spostare più in là i canoni e i codici formalizzati fin qui da critici quali Paolo Talanca, il suo Il canone dei cantautori italiani è in questo, a oggi, l’ultimo testo da tenere in conto, la libertà di sperimentare, di non tenere conto delle restrizioni imposte automaticamente dal mercato, sia quello dello streaming come quello dei passaggi radiofonici, la possibilità di affrontare temi e argomenti che nelle poetiche comuni, quelle che si uniformano a un pensiero unico dominante, sono messe al bando, anche un utilizzare un linguaggio che esuli dal misero vocabolario imperante, ipotesi di un genere trasversale, che attraversi gli altri generi, esattamente come St.Vincent sta facendo da anni a questa parte, prima o poi mi vedrò costretto a formalizzare questa cosa, esattamente come Talanca ha fatto col cantautorato più recente, dopo aver affrontato il tutto dagli esordi, basandosi anche sugli scritti precedenti alla sua opera.

Insomma, credo di essere il critico musicale, sicuramente il critico musicale uomo, che più di ogni altro in Italia si è occupato di cantautrici, a partire da una decina di anni fa, ma volendo tornare indietro nel tempo, già a partire dai miei esordi, le collaborazioni con Cristina Donà, con L’Aura, con Malika Ayane, tutte precedenti a Anatomia Femminile.

Solo che questo mio occuparmi con passione e attenzione a una scena, o forse proprio per questo mio occuparmi con passione e attenzione, mi ha portato a maturare l’idea che, oggi come oggi, sia arrivato il momento, anche in Italia, di provare a fare un ulteriore passo avanti, istituire le fondamenta per una evoluzione della specie. So che farlo quando ancora il concetto di palazzo non è neanche stato del tutto definito, quando soprattutto per il comune sentire quello che si sta progettando non è neanche un palazzo, forse neanche è qualcosa che meriterebbe un nome specifico, può essere considerato avventato, prematuro, decisamente troppo ottimistico.

Ma io credo, e credo fortemente, che sia necessario lasciare segni evidenti, anche se intellegibili al momento, che appunto indichino la strada a chi, quando finalmente per tutti il palazzo del cantautorato femminile sarà il palazzo del cantautorato femminile, potrà alzare il discorso più in alto. Esattamente come a loro volta hanno fatto Joan Didion, Nina Simone, Joni Mitchell, Marilyn Monroe, Tori Amos per St.Vincent, al punto da finire nel brano Benzo Beauty Queen.

Anzi, per rifarmi e partire proprio da quanto codificato da Talanca sul suo saggio, direi che proprio la storia e le opere di St.Vincent, artista che non potrebbe rientrare nel novero dei cantautori presi in considerazione da lui anche volendo, essendo americana, direi che nel momento in cui si affronterà, affronterò, il tema in questione, la codifica del cantautorato femminile come genere, l’iconicità e il ricorso all’iconicità, la corporeità, l’immaginario separato dalla poetica, ma comunque contiguo alla poetica, dovrebbero essere capisaldi del discorso, lo sono, in effetti.

Faccio un veloce refresh, esistono artiste quali St.Vincent che creano non solo poetiche ma immaginari intorno e dentro, anzi, dentro e intorno alle loro opere. Il tutto costruendo un gioco di finzione, l’interpretare ruoli, la donna di potere platico e digitale di Masseduction, la sfatta reginetta del concorso di bellezza del propssimo Daddy’s Home, giocando quindi a costruire finzioni che aiutino a perseguire la verità, di volta in volta, per altro, ampliando e sposando nuove sonorità e modalità di composizione, non in un gioco di mimesi, ma di coerenza filologica, Kenneth Branagh e Emma Thompson che parlano in perfetto accento della Londra shakeasperiana.

Un giocare con le immagini, gli immaginari non sono semplici immagini, è evidente, ma immagini che rimandano a mondi, e che quindi sono capaci non solo di farci vedere, ma di evocare, di rimandare, di far vivere con uno sforzo in realtà minimo, almeno per chi è spettatore/ascoltatore, il tutto atto a ampliare i termini del discorso artistico, forma e sostanza che flirtano, essendo nel caso di St.Vincent in presenza di sostanza, eccome, forma che è a sua volta sostanza, sia forma sonora che visiva.

Passo oltre.

Torno al punto centrale.

Dove sono le St. Vincent italiane?

No, fermi tutti, non intendo a livello di resa, se no mi si potrebbe serenamente rispondere col più classico degli “e grazie al cazzo”, magari aggiungendo un sardonico, anche pertinente vista la collaborazione, “e dove sono i David Byrne italiani?”. Non parlo di livello di qualità, nel caso di St. Vincent assai alto, non dico inarrivabile, ma comunque piuttosto fuori competizione, faccio un discorso di modalità, di approccio, Manuel Agnelli direbbe, seduto dietro il banco di X Factor, di attitudine.

Anzi, la parola attitudine, lo rivendico con fierezza, è stata in parte dietro a tutto il mio approfondire lo studio dell’argomento, quel passare dal mappare la scena delle cantautrici, sì a partire dal corpo, ma in maniera quasi casuale, più legata a mie faccende familiari che per mero studio scientifico, a provare a tracciare un discorso fatto dalle popstar internazionali, categoricamente donne, sul corpo e gli stereotipi femminili, tracciamento avvenuto anche sui social, sin dal 2016, con tutta una serie di immagini condivise e catalogate proprio dall’hashtag “attitudine”, studio poi finito dentro il testo Venere senza pelliccia, uscito nel 2017 per Skirà e in seguito dentro il monologo teatrale “Cantami Godiva- contro i sentimenti, per un ritorno del corpo”, insieme a Ilaria Porceddu, e nel TedX che portava lo stesso titolo di quel libro, presentato a Matera nel dicembre 2018, sempre con la cantautrice sarda. Attitudine intesa quindi come predisposizione o inclinazione a un certo modo di comportarsi, a svolgere certe attività, non come erroneamente sta passando ora come atteggiamento.

Già allora, parliamo di cinque anni fa, dieci se spostiamo lo sguardo su quando il femminile è entrato musicalmente nel mio panorama ottico, riscontravo una totale o quasi assenza di artiste italiane, non a caso è proprio su questo che avrei concentrato lo sguardo su Venere senza pelliccia, il cui sottotitolo è “quando il pop italiano si è infilato le mutande”.

Discorso che negli anni ho affrontato anche in dibattiti, trasmissioni, articoli, e spesso avendo per interlocutrici artiste nei confronti dei quali nutro grande stima, di cui ho scritto e continuo a scrivere, ma che spesso su questo fronte palesano non un disinteresse, quasi mai mi è capitato di incontrare artista che palesasse una volontà ferrea di non apparire, di lasciare cioè alla sola musica il compito di veicolare la propria poetica, quanto piuttosto di non venir bollata per chi prova a usare il proprio corpo per arrivare a risultati, reginette di concorsi di bellezza cui non è stato permesso neanche di lasciarsi poi disfare dal tempo e dall’uso reiterato del benzodiazepine, o magari, laddove non era in dubbio questo tipo di contesto, neanche preso in considerazione, semplicemente di non voler usare il corpo e l’immagine, qui non sto affatto parlando di sensualità o sessualizzazione, intendiamoci, per non dar adito proprio a quella cesura tra chi usa la poetica e chi l’iconicità/immaginario, come appunto se le due cose dovessero necessariamente andare per strade separate, escludendosi a vicenda in maniera radicale e definitiva.

In questo, forse a causa di questo, raramente capita che chi scrive musica e la interpreta, se donna, si lasci andare a una carrellata di sentiti omaggi come quelli inseriti nel brano Benzo Beauty Queen, che non indicano solo artiste quali Nina Simone, Joni Mitchell e Tori Amos, attenzione, ma anche scrittrici come Joan Didion, o una icona come Marilyn Monroe, forse per paura di finire appunto dentro un recinto, ghettizzata, o magari perché non ha ancora una voce abbastanza riconoscibile da potersi permettere di tirare in ballo chi quella voce ha contribuito a farla crescere, indirettamente.

A memoria, ma magari posso sbagliarmi, credo che la sola Maria Antonietta sta provando a costruire un pantheon di autrici, poetesse, in prevalenza, ma non solo, che possano fare da base per un discorso del genere, penso al suo libro Sette ragazze imperdonabili, ai suoi reading e monologhi.

E le altre?

Giorni fa, parlando in una room di Clubhouse di argomenti riguardanti proprio il femminile, il femminile in musica, mi si chiedeva se aver dato così tanto spazio a così tante artiste, si parlava delle oltre trecentocinquanta cantautrici transitate per il Festivalino di Anatomia Femminile, non avesse giocoforza comportato un abbassamento del livello artistico, paletti troppo larghi possono comportare questo effetto collaterale, indicando in una maggiore selezione all’ingresso il possibile segreto per un riconoscimento che sembra tardare a arrivare, parlo delle cantautrici, non del Festivalino, che stando ai numeri non ha certo bisogno di ulteriore visibilità.

Vero.

Se lo spirito divulgativo del Festivalino, l’aver quindi tolto la caratterizzazione stringente del cantare una parte del corpo implicita nelle cantautrici coinvolte nel progetto Anatomia Femminile, il voler dar davvero voce a tante, non a tutte, fidatevi, le escluse sono assai più di quante non abbiano partecipato a quell’evento ormai in auge da cinque anni, forse, a dieci anni dalla prima antologia e cinque dalla sua nascita, ha sicuramente contribuito a accendere i riflettori su una scena che altrimenti sarebbe rimasta costantemente in ombra, forse neanche sarebbe proprio stata, credo sia però arrivato il momento di abbassare il bastone del Limbo e di azzardare quindi una svolta, concentrare lo sguardo su un gruppo ristretto di artiste, rimettere l’iconicità là dove credo sia in fondo sempre stata. Sempre sotto quel marchio riconoscibile, già metabolizzato dalla macchina. Non perché io ritenga che sia necessario in riconoscimento da parte del sistema, intendiamoci, ma perché credo che sia necessario provare a affrontare un passo successivo, visione mia che non necessariamente risponde a una evidenza altra, quanto a una necessità mia, puramente intellettuale.

Da adesso si comincia a lavorare sulla formalizzazione e codifica del cantautorato femminile, da oggi si riprende a ragionare non solo di poetica, ma anche di iconicità e immaginario. St.Vincent italiana, se ci sei batti un colpo, lì, nella tua vestaglia dorata con la tua faccia sfatta.