Ghost, un intramontabile classico della commedia romantica (e fantastica)

Nel 1990 il film con Patrick Swayze e Demi Moore che racconta un amore più forte della morte fu un clamoroso successo. Ha più di un debito con le commedie fantastiche degli anni Quaranta

Ghost

INTERAZIONI: 1046

Bisogna ammetterlo: a trent’anni di distanza Ghost – Fantasma (1990) continua a funzionare egregiamente. È uno dei pochi film di quell’epoca ancora capace di reggere una prima serata televisiva, come accade oggi su Canale 5 alle 21.20. E, sia detto en passant, il fatto che un altro evergreen della stessa età capace del medesimo exploit sia Dirty Dancing, dovrebbe dirci qualcosa sul sottovalutato divismo di un attore scomparso troppo presto, Patrick Swayze, protagonista di entrambe le pellicole.

Qual è però il segreto del successo di un film che all’uscita sbancò a sorpresa il botteghino statunitense, guadagnando quasi 220 milioni di dollari? In grado di convincere pure la sussiegosa Academy a riconoscergli 5 nomination e due premi Oscar: uno alla non protagonista Whoopi Goldberg, per il personaggio d’una finta medium; l’altro, per la sceneggiatura originale, a Bruce Joel Rubin, il quale fino ad allora sulla linea di confine tra vita e morte aveva imbastito racconti fantascientifici (Brainstorm) e orrifici (Dovevi Essere Morta), e che qui invece ha l’intuizione di prendere lo stesso tema e cucinarlo in una ricetta tutta diversa, che parla di un amore romantico che nemmeno la morte può scalfire.

Ghost
  • PARAMOUNT
  • Elettronica

Ricordiamo, per quei pochissimi che non la conoscessero, la trama di Ghost: il giovane bancario Sam (Swayze) è appena andato a convivere con Molly (Demi Moore), artista di belle speranze in un loft a New York (rilevato chissà con quali soldi, beati loro). Si amano alla follia, la loro vita è perfetta. Una sera, rientrando a casa, Sam viene ucciso da un balordo che cerca di rapinarli. Lo spirito di Sam, però, invece di andare immediatamente in paradiso, continua a vegliare sulla sua donna. Inizialmente perché è affranto e incapace di abbandonarla. Poi capisce che Molly è in pericolo, perché forse il suo assassinio non è stato casuale. A far da tramite tra Sam – come ogni fantasma che si rispetti è invisibile ai viventi e incapace di interagire fisicamente con la realtà – è la sensitiva farlocca e truffatrice Oda Mae Brown (Goldberg). Che è la prima a spaventarsi quando sente la voce di Sam, scoprendo di essere una medium per davvero.

Il pilastro su cui si regge la fama di Ghost è naturalmente la sua natura di “comfort movie” sulla forza dell’amore, con la bella fiaba di un legame che dura “per sempre”. I momenti sentimentali perciò si sprecano. Il più iconico, prima dell’omicidio, vede Sam e Molly scambiarsi teneramente effusioni mentre modellano un vaso, col soffice sottofondo musicale di Unchained Melody dei Righteous Brothers. Una sequenza talmente caramellosa – infatti al centro di innumerevoli parodie – da far venire il sospetto di essere stata messa lì consapevolmente, visto anche che il regista è uno specialista del genere demenziale come Jerry Zucker (L’Aereo Più pazzo Del Mondo). E certo non son poche le scene di Ghost che, a spingerle appena un po’ più in là, da romantiche che sono si trasformerebbero in comiche.

Il film però possiede un suo equilibrio sottile che spinge lo spettatore – almeno quello bendisposto e non troppo cinico – a farsi cullare dalla vicenda sentimentale, non facendo eccessivo caso ai risvolti kitsch, intrinsecamente ridicoli. L’operazione riesce anche perché sono gli stessi Rubin e Zucker ad aggiungere situazioni esplicitamente comiche, demandate all’indispensabile Whoopi Goldberg, che consentono di ridere con il film, invece di ridere del film, e di credere ed emozionarsi fino in fondo con la storia.

Ghost infatti è un impasto di generi: commedia sentimentale (la tenera Demi Moore perennemente in lacrime), melodramma fantastico (baci scoccati tra esseri viventi e spiriti), film comico, thriller (la macchinazione all’origine della morte di Sam), qualche brivido quasi horror. Ha ragione Peter Bradshaw, il critico del Guardian, a riconoscere l’efficacia della sequenza in cui Sam viene ucciso, ancora oggi capace di creare un certo sgomento. Dopo lo sparo lo si vede inseguire l’assassino che fugge, e poi tornare indietro e assistere alla scena di Molly che, disperata, abbraccia il corpo esanime del suo compagno. Il Sam divenuto istantaneamente spirito, cioè, guarda sé stesso morire. E all’interno di una vicenda la cui etichetta è da racconto dolciastro, è un colpo di scena che non si dimentica.

Coglie nel segno Bradshaw anche quando dice che, per la mescolanza da fantasy tragicomico, le atmosfere di Ghost ricordano il cinema di Steven Spielberg. In realtà le somiglianze derivano da una matrice comune a entrambi. L’anno prima di Ghost, Spielberg aveva diretto il sottovalutato Always – Per Sempre, storia di un uomo morto tragicamente che resta come spirito sulla terra per vegliare sulla sua fidanzata, remake d’una pellicola degli anni Quaranta amatissima dal regista, Joe Il Pilota (1943) con Spencer Tracy.

Quel decennio vide la breve fioritura d’un genere fantastico dalle venature mélo, con storie di fantasmi, alla lontana d’ispirazione gotica, trasformate in commedie dal sapore talvolta esageratamente romantico. Titoli come L’Inafferrabile Signor Jordan, il delizioso Il Fantasma E La Signora Muir di Joseph Mankiewicz, sull’altra sponda dell’Atlantico il capolavoro inglese Scala Al Paradiso di Powell e Pressburger e, a suo modo, anche La Vita È Meravigliosa di Frank Capra, storia di non morti e angeli di seconda classe che salvano la vita.

Con chiara consapevolezza Spielberg, e forse con maggiore naïveté Rubin e Zucker, riportano in vita quelle atmosfere. Dietro Ghost, perciò, oltre al piacere per una storia romantica ingenua e senza sovrastrutture, fa capolino la nostalgia per un cinema d’altri tempi. Che è la ragione per cui pure i cinefili talvolta si possono concedere il guilty pleasure di un film simile, senza sentirsi (troppo) in colpa.