Nino Manfredi, i cent’anni di un mattatore introverso

Il 22 marzo del 1921 nasceva uno dei colonnelli della commedia. Di origini contadine, si costruì uno stile d'attore cerebrale. E per tutta la vita cercò di mediare tra le due anime, con risultati altissimi, dal “Pinocchio” a “Pane E Cioccolata”

Nino Manfredi

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Io sono un perfezionista. L’arte non si improvvisa, si prepara, si studia, si digerisce, soprattutto l’arte del comico”. Sbaglierebbe chi, guardando certi suoi personaggi di provinciali di buon senso, pensasse a Nino Manfredi come a un attore istintivo. Tutt’altro, è un interprete cerebrale e analitico ai limiti del cervellotico. Se la sua parte prevede una caduta, lui si chiede: “Come devo cadere? Perché sono terrorizzato da tutto quello che è banale, prevedibile, senza reinvenzione del movimento”.

Tra i cosiddetti colonnelli della commedia all’italiana, che è il codice genetico del nostro cinema, quello che giunge più tardi ad affermarsi, dopo Sordi, Gassman e Tognazzi, è proprio Saturnino detto Nino Manfredi, nato cent’anni fa, il 22 marzo 1921, in Ciociaria a Castro dei Volsci (oggi in provincia di Frosinone). Un imprinting, quello ciociaro, sempre rivendicato: “Vengo dalla terra, praticamente sono nato contadino e le lauree non possono cambiare niente”. La laurea arriva, in giurisprudenza, nel 1945, per accontentare il padre. Perché ormai Nino, nel frattempo la famiglia s’è trasferita a Roma, ha deciso la sua strada. Dopo gli anni turbolenti delle fughe dal collegio e quelli in sanatorio per la tubercolosi – che influiscono sull’attitudine introversa del carattere –, ha scoperto il sacro fuoco della recitazione assistendo a un’esibizione della compagnia di Vittorio De Sica.

La formazione: teatro, radio, doppiaggio

Dopo qualche esperienza nei teatrini parrocchiali, contemporaneamente all’università frequenta l’Accademia d’Arte drammatica. Trova compagni di corso dal brillante futuro, Tino Buazzelli, Paolo Panelli, Luciano Salce, Luigi Squarzina. E soprattutto trova un maestro, Orazio Costa. Il quale dà gran peso alla recitazione mimica, chiedendo agli allievi di “interpretare” un albero, o una bandiera. Manfredi è bravissimo in questo e, rinsaldando un’attitudine che gli è naturale, ne ricava un metodo personale fondato sull’osservazione e l’immedesimazione, maniacalmente attento al dettaglio – il risvolto del suo perfezionismo è il carattere difficile.

Viene naturale lo sbocco verso il teatro serio: una scrittura nella compagnia Maltagliati-Gassman – Vittorio, più piccolo di lui di un anno, è già un giovane fenomeno – e contribuisce all’affermazione dei teatri stabili, a Milano con Giorgio Strehler, a Roma con Costa. Importante nel 1952 l’anno passato nella compagnia di Eduardo De Filippo, che in quell’attore intuisce qualità che gli sono affini. La cosa non sorprende. Eduardo, dall’interno della tradizione del teatro dialettale, aveva dato forma a uno stile d’attore antinaturalistico quasi astratto, giocato sulle pause, la gestualità minimalista. Esattamente ciò a cui punta Nino Manfredi, “parco di gesti e parole”, come nota Vittorio Spinazzola, che si affida a una recitazione “interiorizzata e intellettualizzata, fatta di allusioni, sottigliezze, paradossi verbali”.

È stato per me un grande maestro, mi ha insegnato come si sta in scena: è un mostro del teatro, un uomo di spettacolo straordinario”, dice Manfredi di Eduardo. Da lui capisce anche che la meticolosa impostazione accademica non deve soffocare l’istinto, la capacità d’improvvisazione scritta nelle sue origini contadine. “Avevo bisogno di capire cos’ero e mi sono liberato dell’avallo dei grandi autori come Shakespeare, Pirandello, Ibsen. Decisi di lanciarmi nel teatro di varietà, nel teatro leggero. Volevo un teatro in cui potessi parlare, inventare nuove battute”.

Quindi passa al teatro di rivista, cercando maggiore immediatezza sia nella recitazione che nel rapporto col pubblico. Partecipa a Tre per tre… Nava (1953), Gli Italiani Sono Fatti Così di Marcello Marchesi (1957), la commedia musicale Un Trapezio Per Lisistrata (1958) di Garinei e Giovannini. Poi ci sono la radio, sia teatro di prosa che sketch comici (macchiette come il sor Tacito e il soldato Tenoretti che inventa lui). E il doppiaggio, prestando la voce a Robert Mitchum, Marcello Mastroianni, il Franco Fabrizi de I Vitelloni. Sono queste cose che gli dànno da vivere, non certo il cinema.

Da Canzonissima al cinema

La gavetta cinematografica di Manfredi è lunghissima. Deve attendere il 1960 e quasi trenta film per un autentico ruolo da protagonista, L’Impiegato. In mezzo ci sono film per il mercato regionale (Monastero Di Santa Chiara, Anema e Core), apparizioni come rincalzo accanto a Totò (Totò, Peppino E La Malafemmina) o Sordi (Venezia, la Luna E Tu, Lo Scapolo). E qualche caratterizzazione azzeccata: il barbiere Otello de Gli Innamorati (1956) di Bolognini, sensibile descrizione da arcadia romana che guarda già oltre il neorealismo rosa; il buffo ladruncolo alla Rififi di Susanna Tutta Panna (1957), una pochade in cui la stella è la maggiorata Marisa Allasio.

In mezzo, però, c’è soprattutto la televisione, con Canzonissima, tra il 1959 e il 1960. Manfredi acquista enorme notorietà col personaggio del barista di Ceccano. Cadenza ciociara, buon senso strapaesano, un tormentone – “Fusse che fusse la vorta bbona” – col quale, visto che si parla dei milioni della lotteria, Manfredi si sintonizza sui desideri e la voglia di futuro degli italiani in un paese che sentiva profumo di miracolo economico. Con quella battuta manifesto Manfredi diventa istantaneamente “uno di noi”, e dissimula nella maschera bonaria il suo laborioso stile recitativo. Da quel momento comincia una nuova fase. Ancora qualche ruolo di rodaggio accanto a Gassman e Sordi, ormai quasi paritetico – Audace Colpo Dei Soliti Ignoti (1959) di Nanni Loy, Crimen di Camerini (1960). Poi, con gli anni Sessanta, la trasformazione in “colonnello”.

Spesso, parlando di Manfredi, scatta il paragone con Sordi. Che regge solo a uno sguardo superficiale. Scrive Spinazzola: “Nati da uno stesso contesto sociale, il suo personaggio e quello di Sordi presentano caratteristiche affini, complementari e antitetiche. Vittime di una incapacità di adattarsi all’abitudinarietà piccolo borghese, entrambi introversi, pieni di paure complessi inibizioni, reagiscono però in modo opposto: nell’uno si scatena, sotto il riparo dell’ipocrisia, la più arrogante rivolta egoistica, nell’altro c’è un ripiegamento su sé stesso, pieno di acida autoironia, come in chi è ormai persuaso della propria malasorte”.

Sordi ha lo stile esuberante del personaggio cattivo e vendicativo. Manfredi tende all’implosione che non sfocia mai in una reazione platealmente aggressiva. Il suo tipo non è necessariamente un buono, ma resta sottomesso, con rabbie e insoddisfazioni che gli si ritorcono contro, svelandone tutte le fragilità. I ruoli che interpreta Manfredi vivono di accenti sommessi: meno maschere – come è per Sordi e Gassman – e più persone, sfumati in una recitazione introiettata e non impulsiva.

Nino Manfredi: come si diventa un “colonnello”

Il suo, scrive Masolino d’Amico, è un “gioco di rimessa, la finezza di uno stile che rinuncia agli effetti immediati per ottenerne di più profondi nel tempo, mediante la somma di certe annotazioni sottili, di certi mezzitoni pacati”. Personaggi che appaiono verosimili, destinati a subire in un mondo di persone più dure e smaliziate. Ne L’Impiegato, versione italianizzata di Sogni Proibiti, è l’anonimo travet che di notte sogna avventure e donne fatali che cascano ai suoi piedi – nella realtà, quella che ama non ha la forza di conquistarla. L’altro impiegato dell’episodio Una Giornata Decisiva da I Complessi (1965), è incapace di dichiararsi a una donna che non attende altro, finendo tra le grinfie di una nubile attempata.

In A cavallo Della Tigre (1961) di Luigi Comencini è un disgraziato travolto dagli eventi, truffatore di mezza tacca coinvolto in una fuga dal carcere con gente più scafata di lui. Oppure è il modesto assicuratore Omero Battifiori nell’epoca di virilità fascista esibita de Gli Anni Ruggenti (1962) di Luigi Zampa, scambiato per un minaccioso ispettore generale e da tutti ossequiato – questo gli permette di capire di quale ipocrita pasta è fatto il regime. Con la regia di Antonio Pietrangeli, unico ritrattista femminile del tempo, Manfredi mostra, in La Parmigiana e in Io La Conoscevo Bene, l’altro lato della debolezza di carattere del suo personaggio, che sconfina in un’aperta meschinità. Nel sottovalutato Il Padre Di Famiglia (1967) di Nanni Loy ritrae attraverso i vent’anni del dopoguerra la storia di un architetto che ha sognato la palingenesi del paese e si ritrova invece invischiato nel piccolo cabotaggio delle ipocrisie familiari. Un film che è pure una riflessione su egoismi ed egocentrismi del maschio italiano, che proprio il cinema del boom aveva mantenuto sempre al centro della narrazione, relegando la donna ai margini.

Il ritratto d’un borghese flessibile, timoroso ma pronto a cogliere le opportunità dei tempi nuovi Nino Manfredi lo tratteggia negli episodi di film a più mani da rivalutare: come l’industrialotto sul lastrico di Un Uomo D’Onore (da Questa Volta Parliamo Di Uomini, 1965 della Wertmuller) che mette a frutto la cleptomania della moglie; oppure in Cocaina Di Domenica (da Controsesso, 1964), la coppietta che prova l’ebbrezza della polverina bianca, fantasticando in preda alla frenesia di un “gioco dell’amore e della morte, un amore dannunziano, su un catafalco”.

Negli anni Sessanta a Manfredi manca il grande film che riepiloga e scandisce tanto una carriera quanto un’epoca, come quelli di Sordi (Tutti A Casa, Una Vita Difficile), Gassman (La Grande Guerra, Il Sorpasso), Tognazzi (Il Federale, I Mostri). Perciò si lascia aperta la porta del teatro, dove centra nel 1962 un memorabile Rugantino di Garinei e Giovannini, portato in tournée fino a New York e Buenos Aires, una commedia musicale che ne definisce uno status anche da interprete di canzoni (e nel 1970 Tanto  Pe’ Canta, ripescata dal repertorio di Petrolini e portata a festival di Sanremo, diventa un successo da hit parade).

Del 1962 è il primo esperimento alla regia, l’episodio tratto da Calvino de L’Avventura di un Soldato, ne L’Amore Difficile. È un piccolo capolavoro. Manfredi lo risolve in un corto quasi muto. “Dato che i miei padreterni erano stati Chaplin e Buster Keaton, mi dissi che se volevo dimostrare a me stesso di aver capito il cinema, dovevo rifarmi al cinema muto [..] per un racconto di pure immagini”. Il piccolo don Giovanni in divisa comunica solo a gesti la voglia di avventura galante alla sconosciuta incontrata nello scompartimento del treno. Un gioco di seduzione impercettibile e allusivo, che a Calvino piacque, nell’assenza di ammicchi grossolani. E la conquista del soldatino – che resta il personaggio introverso di Manfredi – non diventa mai trofeo da esibire, ma ha il sapore della breve parentesi a una condizione di solitudine immodificabile.

I capolavori degli anni Settanta

All’alba degli anni Settanta, dopo un paio di commedie più divertite e disimpegnate con Dino Risi – Operazione San Gennaro (1966), variazione in salsa partenopea sul tema de I Soliti Ignoti;  Straziami Ma Di Baci Saziami (1968), un amore da fotoromanzo raccontato col linguaggio delle canzonette – Nino Manfredi raggiunge l’apice della sua carriera. Nel 1969 interpreta il primo dei film di Luigi Magni, Nell’Anno Del Signore (1969), cui seguiranno, tra gli altri, In Nome Del Papa Re (1977) e il più tardo In Nome Del Popolo Sovrano (1990). Sono racconti che si muovono tra storia, cronaca, commedia e costume, coi quali Manfredi attraverso i personaggi di Cornacchia/Pasquino, il monsignor Colombo e Ciceruacchio incarna una romanità densa di umori laici e anticlericali sintonizzata sulle aspettative del pubblico, che lo ripaga con un notevole successo.

Una riflessione sul peso e i guasti di un’educazione cattolica è Per Grazia Ricevuta, il primo lungometraggio da regista di Nino Manfredi, premio per la miglior opera prima a Cannes nel 1971. Tutti gli sconsigliano di girarlo ma lui lo vuole fortemente, investendoci anche soldi propri. Un’opera scopertamente autobiografica piena di umori e malumori personali dallo stile rapsodico. “Ingenuo come un ex voto popolare”, scrive Gian Piero Brunetta, denso di ricordi e risvolti comici, una sorta di seduta psicoanalitica in chiave ruspante che diventa un sorprendente campione d’incassi.

Il 1972 è l’anno di Geppetto ne Le Avventure di Pinocchio televisivo di Luigi Comencini. “Ho bisogno di lei perché è l’unico attore italiano in grado di parlare con un pezzo di legno”, gli dice il regista. L’interpretazione di Nino Manfredi è commovente: “Mi è piaciuto molto il personaggio di Geppetto; è un uomo che riesce a fare da solo un bambino, con la sua solitudine, il suo affetto, il suo amore. È come l’essenza dell’amore, è l’uomo e la donna insieme”. Un’intuizione, questa della natura ambivalente del ruolo, che testimonia bene la dinamica del suo stile: “femminile”, per così dire, nella sottrazione espressiva che mira alla radicale introiezione del personaggio. Infatti, quando Manfredi interpreta un omosessuale – l’episodio Ornella di Vedo Nudo (1969), il tardo film tv Un Difetto Di Famiglia (2002), è lontanissimo dal macchiettismo. “Era facile cadere nella piatta imitazione e nel disprezzo degli omosessuali. Ho tentato di affrontare il problema con sincerità, con rispetto, con amore. Ornella non ha niente dell’invertito, le concessioni alla gestualità sono estremamente leggere, tutto è interiore”.

Tra il 1974 e il 1976 ci sono tre ruoli definitivi. Il primo è Pane E Cioccolata di Franco Brusati: Nino Manfredi è un emigrato in Svizzera che non cerca solo fortuna, ma un modo per diventare un altro da sé (s’ossigena i capelli per confondersi con gli elvetici che disprezzano gli italiani). Ancora una volta l’attore dà fondo a dolorose memorie familiari: “Conosco i danni dell’emigrazione, il fatto di sradicare un uomo dalla sua terra. Mio nonno, che aveva vissuto venticinque anni in America, era completamente distrutto. Parlava solo con Dio e lo accusava di tutti i suoi mali”. Infatti il film si muove nel territorio di un grottesco amarissimo, che ritrae una condizione di spaesamento esistenziale che è una cifra ideale del Manfredi attore.

Qualche speranza, almeno rispetto al suo personaggio, emerge nel capolavoro di Ettore Scola, C’Eravamo Tanto Amati, bilancio della generazione che aveva fatto la Resistenza. Se Gassman è il professionista che s’è venduto e Stefano Satta Flores l’intellettuale inconcludente, Manfredi, portantino di sinistra, è l’uomo del popolo perbene, rimasto fedele agli ideali e alla sua donna, Stefania Sandrelli. Ma è un ottimismo che solo due anni dopo Scola e Manfredi sconfesseranno con Brutti, Sporchi E Cattivi, lucida e malevola resa dei conti del regista – insieme al cosceneggiatore Maccari – con la retorica populista e la commedia all’italiana. Una resa dei conti che un Manfredi al suo meglio, per una volta integralmente negativo, segue coraggiosamente fino in fondo.

Sono questi gli ultimi esiti alti di Nino Manfredi. Come per gli altri colonnelli, gli anni Settanta rappresentano una stagione di soglia, oltre la quale, avvicinandosi loro sempre più ai sessant’anni, non riescono più a incarnarne i tipi esemplari di un paese in profonda mutazione. Qualche film interessante capita ancora: Il Giocattolo (1979) di Giuliano Montaldo – che dell’attore disse “è un cesellatore, un orologiaio” –, Café Express (1980) col fido Nanni Loy. Il caffè segna un supplementare exploit di popolarità quasi ventennale, dal 1977 al 1993, con gli spot della Lavazza, prima diretti da Luciano Emmer, poi da suo figlio Luca Manfredi. E il piccolo schermo gli offre diverse occasioni, spesso diretto dal figlio o da Alberto Simone, da Meglio Tardi Che Mai a Linda E Il Brigadiere. Cose che non aggiungono nulla al suo magistero, anzi forse gli tolgono qualcosa. Ma gli consentono di recitare praticamente fino alla fine, che sopraggiunge per i postumi di un ictus il 4 giugno del 2004, dopo aver terminato la lavorazione del film spagnolo La Fine Di Un Mistero di Miguel Hermoso.