Ha senso oggi recensire un disco?

Con lo streaming si fa prima ad ascoltare un disco che a trovarne la recensione. Ma solo leggendo queste ultime ci si arricchisce culturalmente


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Devo tenere un corso, un Webinar, sul giornalismo musicale. Ne tengo parecchi, di corsi, e prima del Covid, ovviamente, ne tenevo molti di più. Ne tengo da oltre venti anni, quando ancora non ero un critico musicale, ma uno scrittore che teneva corsi di scrittura creativa per la Holden, sotto forma di master, prevalentemente, e saltuariamente di corsi veri e propri. Il fatto è che in Italia, almeno per quel che riguarda la scrittura creativa, la scuola e l’università non offre granché, o almeno non offriva finché appunto non ha cominciato a appoggiarsi presso scuole private che a questo si dedicano. Chi studia Letteratura, di massima, non studia scrittura, fatto che demanda poi a altre realtà o all’autodidattica, l’apprendimento delle tecniche di base, il mestiere.

Corsi di giornalismo, ovviamente, ce ne sono e ce ne sono da decenni. Quando frequentavo il Liceo Classico, per dire, si era negli anni Ottanta, già c’era il Corso di Giornalismo dell’Università di Urbino, ce ne saranno state sicuramente altre, ma quella era la più vicina alla mia città, Ancona. Io ho optato per Storia Moderna a Bologna, anche se in realtà era al Dams che puntavo. Volevo scrivere di musica, questo mi ripetevo ossessivamente, e il Dams mi sembrava la scelta obbligata. Solo che il Dams allora aveva una brutta nomea, un posto effimero, di sballati, tipo Saranno Famosi, il telefilm. Così andare a Bologna e fare Storia è stata la cosa più vicina a andare al Dams, almeno era una università. E Storia, questo al liceo me lo avevano detto tutti, mi avrebbe dato quella formazione mentale e di base per poter intraprendere il mestiere di giornalista, sottintendendo che, strada facendo, avrei mollato la musica per dedicarmi a questioni più serie, da adulto.

Nei fatti ho mollato l’Università, e l’ho fatto in una maniera che tutt’oggi mi viene rinfacciata dai miei e anche in parte da mia moglie, a un esame dalla fine, ventuno esami fatti su ventidue, e la tesi di Laurea già scritta e completata. Sono uno stronzo, è noto, ma a mia discolpa va detto che a fregarmi è stata una congiuntura di eventi che esulavano dal mio volere. Non ho mai frequentato, dando gli esami da studente non residente, quindi faticando non poco a capire cosa andava studiato, e come. Ma sono arrivato verso la fine del ciclo universitario con una più che dignitosa media del 29. Nessun trenta e lode nel mio libretto, ma neanche un voto che scendesse sotto il ventisei. Una buona media, tenendo conto della mia posizione di fuori sede. Per intendersi, il giorno dell’esame mi alzavo all’alba, prendevo un treno, andavo a iscrivermi e a fare la coda, sostenevo l’esame e nottetempo tornavo a casa, non esattamente una condizione equiparabile all’idea di mondanità e divertimento che a volte si associa al periodo universitario e al mondo universitario di Bologna nello specifico. Non ho mai frequentato, quindi sono andato un po’ più lento del previsto, neanche troppo, sono arrivato a un certo punto a dover intraprendere la piaga del militare, all’epoca esisteva la leva obbligatoria. Io non avevo nessuna intenzione di fare il soldato, non perché io sia un non violento, quanto piuttosto perché sono un fiero antimilitarista, e in quanto anarchico bakuniano, ritengo che l’idea di servire la patria sia quanto di più lontano dal sensato. Ho quindi optato per il servizio civile, e l’ho fatto con la Caritas. Ho già raccontato questa faccenda, ci ho anche scritto su un libro, Una notte lunga abbastanza, il mio servizio civile è stato una specie di inferno. Figlio dell’ex direttore della Caritas di Ancona, ex direttore, mio padre, che ci teneva a far sapere che non avrebbe in alcun modo agevolato le cose al suo figlio minore, mi sono trovato a fare l’obiettore in un dormitorio per senza fissa dimora, durante la guerra dei Balcani. Sono entrato che ero un ragazzo pacifico e piuttosto naif, sono uscito che ero una sorta di punk eversivo, pronto a menare le mani alla prima occasione, lì questo ho imparato a come sopravvivere in condizioni estreme, e come farmi rispettare, covando ovviamente un ulteriore disprezzo e odio verso le istituzioni, oltre che un rancore verso i prevaricatori, sempre e comunque dalla parte degli ultimi.

Durante questo periodo, gli obiettori Caritas svolgevano tre mesi suppletivi ai dodici imposti dallo Stato, ho sostenuto solo un esame, per altro Storia Moderna 2, non esattamente una passeggiata, mentre nei miei programmi avrei dovuto chiudere tutti gli esami. Ho scritto parte della tesi e soprattutto ho mollato la musica suonata e cominciato a scrivere, fatto che in qualche modo ha cambiato il corso dei miei eventi. Ho però evidentemente metabolizzato uno spirito di ribellione che mi ha indotto, mesi dopo, a mollare il colpo, anche se ufficialmente la cosa è stata certificata solo anni dopo, quando ho smesso di pagare la retta universitaria. L’ultimo esame che avrei dovuto sostenere era quello di Inglese, presso la Facoltà di Lingue. Storia a Bologna è una piccola università, per molti esami si appoggiava presso altri Corsi, economia, matematica, lo stesso Dams, lingue. La professoressa, sentendomi dire che non frequentavo, invece di mettersi una mano sul cuore, ha deciso che andavo punito, parlandomi di non meglio identificati “voi che non prendete seriamente l’università e pensate ci si possa laureare lavorando”, finendo per appiopparmi una ventina di libri da leggere in lingua più quelli che dovevano portare tutti gli altri studenti. Io leggevo molto in inglese, la mia tesi era per Storia Americana, sul rapporto tra afrocentrismo e hip-hop, tesi comunque fuori da ogni logica per chi come me seguiva non Storia Contemporanea ma Storia Moderna, ma ho visto a quel surplus di libri come a una punizione ingiusta. Nel mentre, proprio col mio prof, quello con cui stavo portando avanti la tesi, il Prof Romero, avevo avuto uno scontro, in sede di esame, Storia Americana 2. Ci eravamo scontrati sulla politica internazionale di Reagan, e la cosa mi aveva ulteriormente scazzato, mi sentivo di fatto tradito. Ma queste, suppongo, potrebbero essere solo scuse, che col senno di poi lasciano il tempo che trovano.

Insomma, per farla breve, ho messo gli studi da parte, puntando sulla scrittura. Sì, già l’ho raccontato anche troppe volte, perché nel mentre avevo conosciuto il mio scrittore preferito, Nanni Balestrini, e su suo invito avevo iniziato a scrivere racconti, finendo per crederci veramente.

Sono poi andato a vivere a Milano, dove, dopo qualche mese passato a fare interviste telefoniche per una società di sondaggi sono andato a lavorare in Mondadori, come traduttore dall’americano, per loro ho tradotto nove libri, alla faccia della prof di Inglese dell’Università e consulente editoriale, ho iniziato a pubblicare libri e a un certo punto mi hanno chiesto, sì, me lo hanno chiesto loro, mica mi sono proposto io, di scrivere articoli. Avevo iniziato a studiare Storia perché volevo scrivere e scrivere di musica, senza essere arrivato alla fine dei corsi di studi mi è successo di poter iniziare a farlo. Ho iniziato con Panorama, poi sono passato a Tutto Musica, a Donna Moderna, a Gente Viaggi. Dovendo scegliere, e questa è stata un’opportunità che mi è stata offerta in quanto scrittore, avevo da poco pubblicato il mio secondo romanzo, dopo una iniziale raccolta di racconti, e l’avevo fatto per Mondadori, fatto che dava lustro e consentiva una certa visibilità, ho deciso di occuparmi prevalentemente di musica e di viaggi, e per anni questa è stata una parte portante del mio lavoro. Ho girato il mondo, sono stato riconosciuto come critico musicale. Ho smesso di pagare l’università, ma sono andato più e più volte a tenere lezione in università, fatto che non manca anche oggi di sorprendermi.

A un certo punto, complici altre congiunture, ho smesso di scrivere articoli. Tutto Musica ha chiuso i battenti proprio due mesi dopo che ho pubblicato Vasco chi?, la mia prima biografia di Vasco, prima di una lunga serie di libri dedicati alle rockstar e popstar, e di una serie di collaborazioni con gli stessi artisti, ho firmato libri con Vasco, tre, Caparezza, Cristina Donà, Mondo Marcio, Cesare Cremonini. Nel mentre è arrivata la SARS, subito dopo l’11 settembre, e molte riviste di viaggio hanno chiuso i battenti. Da lì a scegliere di occuparmi prevalentemente di scrivere i libri è stato un attimo.

Certo, ho avuto altre collaborazioni, Rolling Stone, Rockstar, Amica, Viaggi e Sapori, GQ, MarieClaire, il Messaggero, il Corriere Adriatico, ma sempre come scrittore che scriveva articoli, mai come giornalista.

Non sono un giornalista, infatti.

Sono uno scrittore e sono un critico musicale, sono un biografo e sono stato un reporter, ma non sono mai stato e non sono neanche ora un giornalista.

Ciò nonostante credo, in quasi venticinque anni di attività di aver pubblicato qualche migliaio di articoli. Sicuramente più di cinquemila.

Ho sicuramente bruciato le tappe, in virtù di quell’essere invitato a scrivere in quanto scrittore, ma ho poi avuto modo di farmi le ossa, passando giornate intere in redazione, confrontandomi da free lance con tanti redattori e direttori, provando e credo riuscendo a andare incontro alle aspettative delle diverse linee editoriali, fino a aver poi trovato una cifra mia, piuttosto personale, imprescindibile per chiunque oggi mi chieda di scrivere per il suo giornale.

È successo che, dopo quasi dieci anni dedicati ai libri, a oggi ho pubblicato ottanta titoli a mio nome, a giorni uscirà l’ottantunesimo, sette anni fa io abbia ricominciato a scrivere per giornali in maniera più organizzata, non un pezzo ogni tanto, ma una vera e propria collaborazione. Peter Gomez, direttore del FattoQuotidiano.it, mi ha chiesto se mi andava di collaborare col suo giornale, volevano aprire un Magazine, per allargare i loro campi di interesse e serviva qualcuno di esperienza che si occupasse di musica. Ho accettato, anche se pensavo si sarebbe trattato di qualcosa di marginale, all’epoca ero nel mezzo della produzione di un disco, quello del mio side-project Bikinirama. I fatti sono andati diversamente. Non consapevole di come funzionasse il giornalismo in rete, e neanche troppo di che tipo di impatto i social avessero sulla comunicazione, ho iniziato esattamente nel punto in cui mi ero fermato dieci anni prima, su Tutto Musica ero il libero battitore, il critico musicale che poteva dire esattamente quel che pensava senza dover entrare in contatto con i discografici, nessuna pressione, massima libertà d’espressione, così è stato sul Fatto. Risultato, il primo pezzo, una recensione del concerto di Emis Killa sul Conero, ha avuto oltre centomila lettori, un numero infinito di condivisioni e soprattutto mi ha procurato la mia prima shit storm, veicolata direttamente dal rapper brianzolo. Di lì a poco, mantenendo quel mio stile personale, io ho sempre inteso così la critica musicale, irriverente, ironica, anche se decisamente coerente sul profilo tecnico, stilosa nella scrittura, sono diventato una delle firme più riconoscibili del panorama, forte del mio essere decisamente voce fuori dal coro, i colleghi, molti dei quali già lì ai tempi di Tutto Musica, erano finti a alzare le palette a Amici di Maria De Filippi, diventando mansueti e addomesticati, la presenza fissa al DopoFestival di Savino e la Gialappa’s e il mio approdo a RTL 102,5, con Monina Against the Machine e L’Anticonformista hanno fatto il resto.

Nel giro di pochi mesi mi sono trovato dall’essere uno che stava riapprocciando il mestiere a una firma di peso, seppur da outsider, il mio essere eccessivamente libero mi ha col tempo portato a intraprendere collaborazioni che dopo un po’ si sono incrinate, troppe le pressioni delle discografiche, le amicizie messe in crisi dai miei pezzi, gli equilibri fatti vacillare, via il Fatto Quotidiano, via Linkiesta, via Rolling Stone. Ma il mio essere scrittore prima ancora che critico, e comunque un critico preparato sotto il profilo tecnico, ho studiato al Conservatorio, non portato a termine come l’Università, diciamo che chiudere le cose non è il mio punto di forza, ho a lungo suonato in band della mia zona, scrivo tutt’ora canzoni che finiscono in dischi anche pubblicati da major, suono qualche strumento e se parlo di fondamenti della composizione lo faccio sapendo di cosa sto parlando, questa mia condizione abbastanza anomale, scrittore e critico musicale in un mondo di giornalisti musicali, mi ha sempre fatto approcciare, nel senso attivo e passivo del termine, dagli artisti e agli artisti con un rapporto singolare, da pari a pari, fatto che li porta spesso e ci porta spesso a intraprendere chiacchierate assai più approfondite di quanto una semplice intervista in serie possa comportare.

Da questi incontri, l’anagrafe sicuramente aiuta, sono nate amicizie che mi hanno col tempo portato a frequentare studi di registrazione, ascoltare canzoni quando ancora sono solo demo, dare consigli, provare a ipotizzare sviluppi, insomma, ho impostato il mio essere critico musicale in maniera piuttosto anomala, almeno per l’Italia.

Metteteci pure che sono un biografo, forse il più prolifico e popolare in Italia, o comunque uno dei principali biografi italiani, e dovrebbe essere chiaro perché mi capiti di tenere webinar sul giornalismo musicale pur non essendo io un giornalista.

Il tema che ho dovuto affrontare in questo webinar, per altro, è quanto di più vintage esista in natura: come si scrive una recensione.

Non sto raccontando tutto questo per bullarmi di cosa ho fatto, lo faccio sempre, non avrei avuto certo bisogno di un webinar per trovare la scusa e fare un excursus nella mia vita professionale, quanto perché, in fondo, credo che oggi come oggi non esista affatto un canone dentro il quale si muovono le recensioni, e il solo approccio possibile sia quello personale, ovviamente consolidato da competenze musicali, quelle sì canoniche.

Perché diciamocelo, lo dico io anche per voi, tranquilli, la forma “recensione, negli ultimi anni, ha decisamente perso peso e valore, rischiando addirittura l’estinzione. Inutile che io stia qui a riassumere in poche righe la storia della discografia mondiale e di conseguenza la storia di come la critica si è adeguata ai cambiamenti in atto, ma è evidente che se quando ho iniziato mi ritrovato a ascoltare album che sarebbero usciti uno o due mesi dopo, scrivendone in anticipo sull’uscita, al più in concomitanza, dando così agio ai lettori di farsi una idea precisa di cosa avrebbero trovato nel disco, canzone per canzone, facendo raffronti e paragoni, analizzandone le caratteristiche artistiche e tecniche, al fine di suggerire o meno l’acquisto, acquistare un album, vinile, cassetta, cd, poi download, era il solo modo di ascoltare la musica, non ne esisteva altro, si doveva uscire di casa, andare in un negozio, comprare l’album, pagarlo, tornare a casa e ascoltarlo. La musica si pagava, e neanche poco, ovvio che si dovesse fare una scelta, e quello che diceva un recensore, se ci si fidava di lui per consigli pregressi, o magari perché ci aveva raccontato un album in maniera particolarmente affascinante, avrebbe pesato non poco sull’acquisto o sul non acquisto. Ancora oggi, Tutto Musica ha chiuso a dicembre 2004, mi capita di essere contattato sui social da qualche mio vecchio lettore che mi ringrazia per avergli consigliato questo o quel disco, fatto che non manca di colpirmi, ma del resto così avevo fatto io in precedenza, soprattutto con Ciao 2001 e Rumore (meno con Rockerilla).

Le recensioni oggi sono altra cosa. I dischi escono direttamente sulle piattaforme di streaming, spesso appena usciti li troviamo anche su Youtube, si fa prima andare a ascoltarli, gratis, che star lì a cercare una recensione che ce li racconti. Spesso, per altro, usanza recente, neanche vengono annunciati, escono e gli artisti lo dicono nel momento in cui i lavori sono già fruibili, i recensori arriverebbero comunque in ritardo rispetto gli ascoltatori. Allora il recensore deve, se vuole, se intende proseguire questa antica tradizione delle recensioni, trovare una formula nuova, aggiornata. Raccontare la musica per spingere il lettore a comprare musica non serve. Allora si può optare per fornire al lettore gli strumenti per decifrare correttamente la musica che con buona probabilità andrà comunque a ascoltare, o suggerirgli qualcuno che non conosce, al fine di consentirgli di ampliare gli orizzonti musicali. Comunque il racconto di un album canzone per canzone è decisamente stato superato dai tempi, tocca fare, credo, un discorso più ampio, indicare connessioni e ispirazioni, allestire un castello dentro il quale il lavoro può essere ospitato legittimamente, se serve dare anche gli strumenti ulteriori per indicare come certe ispirazioni siano eccessive, laddove si parlerà quindi di derivatività, o dove invece c’è dell’innovazione, una strada nuova laddove prima non c’erano spiragli, o una deviazione sul percorso principale. Perché, ovviamente, il lavoro che si va in qualche modo a recensire, può essere iscritto in un discorso più ampio, legato sia alla carriera del singolo artista, sia al genere che l’artista incarna, così da poterlo raffrontare con lavori simili, fatto quest’ultimo che, un po’ come chiamare i generi musicali coi loro nomi, è una scorciatoia ideata proprio a beneficio di chi la musica la fa, di chi la musica la racconta e di chi la musica la acquista.

Questo in un discorso generico, asettico.

Poi credo deve entrare in scena la personalità del recensore, e qui il mio non essere un giornalista ha il suo punto di massima certificazione. Perché se la parola chiave del giornalismo è l’imparzialità, l’essere costantemente fuori dalla pagina, il tenere per sé le proprie interpretazioni, la recensione, che nulla ha a che fare con la cronaca, necessità uno sguardo soggettivo, pur poi veicolando l’oggettività della critica (non fidatevi di chi dice che il bello è soggettivo, in musica esiste il bello oggettivo e di quello si occupa il critico musicale). Quando, per intendersi, vi capita di leggere sotto una qualsiasi recensione i commenti piccati di qualche fan che attacca al motto di “stai esprimendo la tua opinione personale”, sappiate che è tutto vero, a parte il dettaglio che non si tratta di opinioni ma di pareri, le prime opinabili, i secondi no, e che esprimere il proprio parere in una recensione è esattamente quello che va fatto, altrimenti sareste di fronte a una notizia, è uscito un album, ha queste canzoni, ciao.

Chiaramente nell’esprimere il proprio parere, qui immagino ci siano diverse scuole di pensiero, la mia credo sia piuttosto evidente, entra in campo il proprio stile, la propria cifra, il proprio modo di appoggiare le parole sulla pagina bianca. Qualsiasi storia può essere raccontata in milioni di modi diversi, io tendo a raccontarla con uno stile tutto mio, spesso provando a simulare quel che vado raccontando, in un gioco di mimesi dichiarato, altre volte giocando la carta del sarcasmo e della violenza verbale, quasi mai andando semplicemente a esporre i fatti, condizione che farebbe di me forse un giornalista, ma sicuramente non un critico musicale. Sempre facendo riferimento a quanti commentano piccati i pezzi nei quali si parla di album appena usciti in termini non esattamente esaltanti, è evidente che se per raccontare l’uscita di un album e quello che l’album in questione rappresenta per la carriera dell’artista che lo ha pubblicato, della scena musicale nella quale va iscritto e soprattutto nella cultura popolare tutta, si opta per una forma ironica e in qualche modo giocosamente di scherno star lì a dire “questa non è una recensione” non ha alcun senso, perché chi ha scritto il pezzo ben sa cosa ha fatto. Avrà, io faccio così spesso, deciso che il disco in questione non meritasse un discorso serio, e che inserirlo in un pezzo satirico fosse il solo modo per veicolare la notizia della sua uscita, per iscriverlo dentro il contesto della musica d’oggi e non dove sfociare in qualcosa di realmente pesante, il parlare seriamente male di qualcosa che di serio ha poco. Potrei farvi qualche esempio a riguardo, ma temo che farsi un giro veloce su Google vi potrà dire assai più di quanto io non possa riassumere qui in poche parole.

Mettiamola così, anche a beneficio di quanti pensano che le recensioni oggi abbiano la medesima utilità dei mangianastri nelle autoradio, recensire un album è ancora oggi opera che merita attenzione, sia da parte di chi scrive che di chi legge, possibilità di arricchimento culturale, di approfondimento, di conoscenza, farlo seguendo i vecchi canoni stantii non è vintage, è fuori tempo massimo, quindi chi decide di farlo deve necessariamente confrontarsi con questa nuova modalità, trovare una sua strada personale e percorrerla, forti di una propria cifra riconoscibile ma al tempo stesso credibile, di uno stile letterario personale che debba andare di pari passo con competenza e conoscenza della materia, senza paura di essere considerato obsoleto, pelo superfluo in un mare di capelli.