Che il rock sia tornato come una tempesta a Sanremo è solo un’illusione

Continuo a parlare del Festival solo per non pensare al Lockdown


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Continua la Settimana Internazionale del Cazzeggio Post-Sanremese, detta anche, sta per tornare il Lock Down, non fatemici pensare.

Leggo sempre con grande passione le cose che si scrivono riguardo il mercato musicale, che è un po’ come chiamare Mostra di quadri uno che in cantina appende alle pareti tre o quattro disegni fatti cinque minuti prima, e soprattutto leggo sempre con grande passione l’affannarsi, perché l’affanno è evidente, sembro io quando provo a fare una corsetta dietro uno dei miei figli, nel constatare che il Mercato, sì, come fosse una persona, sia in mano ai Giovani, stavolta è invece un’entità superiore, quasi divina, un Noumeno addirittura.

Di più, leggo tante parole, fossi Salvini direi parolone, riguardo al fatto che i giovani non suonerebbero più, stanno tutti appresso alla trap, che i giovani non ascoltano più musica, stanno tutti appresso alla trap, che i giovani in quanto tutti appresso alla trap ora si appassioneranno alla musica suonata in virtù del fatto che una band, sì, WOW, una band di loro coetanei ha vinto Sanremo, anzi, il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, presentato da Amadeus e Fiorello, andato in onda su RAI 1.

Queste mie ultime affermazioni, sia detto senza paura di smentita, sono infarcite di inesattezze e sciocchezze fin quasi a farsi sanguinare gli occhi e gli orecchi, quindi se un discorso parte da questi presupposti, temo, è falsato in partenza.

Provo a spiegare perché.

Parlando di Mercato in mano solo ai giovani, si fa ovviamente riferimento allo streaming, è la stessa FIMI che da tempi immemori per bocca del suo presidente ci racconta con dettagli e enfasi come sia solo nello streaming il futuro e anche il presente del Mercato, Spotify in testa. Proviamo a vedere qualche dato a riguardo. Non lavoro per Spotify e non sono particolarmente interessato ai dettagli tecnici della macchina, ma cercando in rete qualche dato si trova. Guardando a quelli del 2020, si apprende che in Italia dodici milioni circa di persone si sono scaricate la APP in questione, immagino comprese quelle che se lo sono trovate già scaricate sulle autoradio, che contemplano parte dell’utenza, di cui una porzione minima in abbonamento a pagamento, ma questo dato non è affatto chiaro, a livello mondo il paragone è più alto, parliamo di centoottanta milioni di utenti su trecentoventi milioni (alcuni siti di settore spostano l’asticella più in basso, intorno ai centocinquanta milioni). Va bene così.

Guardiamo, parlando di Italia, le fasce d’età che utilizzano Spotify, non tenendo ovviamente conto delle differenze tra Premium, normale e crackate (e sì, ce ne sono tantissime, e inarginabili, direi, vista la velocità con la quale le ricreano quando vengono bloccate).

Stando ai dati ufficiali, la fascia di età che rappresenta la percentuale più ampia dei fruitori di Spotify è quella tra i 24 e i 34 anni, con un 27,1%, seguita da quella tra i 35 e i 44, con il 25%, quella più giovane, tra i 18 e i 24, si accaparra la terza posizione con un 20,8%, a seguire la fascia 45-54 con il 17,5% e in coda la fascia 55-64 con il 9,6%. Mancano i giovanissimi, che suppongo utilizzeranno lo Spotify dei genitori, quindi finiranno per entrare in questa tabella come imbucati, spostando di qualcosa la realtà dei fatti, ma sono presenti anche tutti coloro che Spotify ce l’hanno, in maniera coatta, io per dire me lo sono trovato sull’autoradio anche non volendola, e non l’hanno mai utilizzata.

Comunque, è evidente, che siano solo i giovani a usare Spotify è una mezza verità, a meno che non si intenda per giovane anche chi, in teoria, ha diritto di voto, vive probabilmente per conto suo, lavora e fa parte del tessuto sociale come individuo a sé.

Quello che state leggendo, ripeto, non è un pezzo tecnico, siamo nella Settimana Internazionale del Cazzeggio Post-Sanremese, non voglio ammorbarvi e soprattutto non voglio ammorbarmi.

Comunque, preso atto che la fascia 18-35 si prende quasi metà degli ascolti, intorno al 47% di Spotify, più della metà e che quindi, anagrafe alla mano, quella fascia ascolta praticamente musica solo in questa maniera, spostiamoci su Sanremo.

L’età media degli spettatori di RAI1 è di 61 anni. Una fascia quasi non toccata dalle tabelle relative da Spotify, che si fermano, proditoriamente, a sessantaquattro anni di età, poi la morte.

Sanremo, ovvero il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, ha un pubblico che ovviamente comprende anche quanti giungono sulla rete ammiraglia della televisione pubblica per l’occasione, i curiosi, gli appassionati, insomma, il pubblico delle grandi occasioni e proprio in quanto pubblico della grandi occasioni, decisamente più numeroso di quello che solitamente si intrattiene seguendo Domenica In, don Matteo o Ballando con le stelle, l’età media si sposta significativamente, si fa per dire, scendendo a 54,1 anni.

Fossi uno statistico, in realtà in statistica ho preso trenta, ai tempi dell’università, sostenendo l’esame presso la facoltà di Matematica di Bologna, ma parliamo di un tempo in cui il vinile era ancora in voga, davvero, ora potrei incrociare i dati, provando a dimostrare, a occhio non è difficile, come dire che Sanremo porterà i giovani che ascoltano trap su Spotify a ascoltare un po’ di sano rock’n’roll, roba suonata, sudata, provata ore e ore in cantina l’analogico che entra dentro il Tempio del digitale e lo fa implodere, ecco, potrei incrociare i dati, provando a dimostrare come tutta questa sia una immane puttanata.

Di giovanissimi o giovani che hanno guardato il Festival, a meno che non si voglia davvero spostare la soglia dell’adolescenza intorno ai quarant’anni, comunque compresi per Spotify in una fascia specifica, considerata “adulta”, come sostengono alcuni sociologi e certi ex ministri, di giovanissimi o giovani che hanno guardato il Festival ce ne sono pochini, ma proprio pochini pochini, e di conseguenza di giovani che potranno essere illuminati sulla via di Damasco. 

Ho parlato di numeri, ne chiedo pubblicamente scusa. Non era mia intenzione. Ma mi premeva provare e introdurre un argomento che invece, personalmente, testo sulla mia pelle tutti i giorni, e volevo farlo inserendo questa narrazione all’interno di un impianto solido, quasi scientifico.

Io ricevo tutti i giorni musica da parte di chi, con modi e approcci diversi, spesso scomposti, singolari, vorrebbe un mio parere a riguardo. Molti, va detto, del mio parere se ne sbattono le palle, o questo in qualche modo si può intuire tra le righe, puntando direttamente a un mio articolo su di loro. Comprensibile, per certi versi, molto buffo, sotto molti altri. Perché quasi sempre gli approcci sono sbagliati, sbagliatissimi. “Volevo darti modo di ascoltare la mia musica, fammi sapere che ne pensi”, “Ti regalo la mia nuova canzone, contando su una recensione”, per non dire dei superclassici, “Leggo sempre quello che scrivi, stimandoti, e vorrei un tuo parere sul mio album” o, peggio, “tutti mi hanno sconsigliato di mandare a te la mia musica, ma anche una stroncatura sarebbe cosa gradita”.

Il tu, va detto, spesso è assente, ma non è che darmi del lei mentre mi spammi la tua musica sui social cambi molto, e soprattutto, non è che io di lavoro ascolti la musica che mi arriva sui social dando pareri, così, tanto per. Scrivere di musica è il mio mestiere, se ne scrivo perché lo faccio per un editore lo faccio su musica che decido di trattare, se lo faccio in privato si chiamano “consulenze”, e io non do consulenze (alcuni, cautamente, mi propongono pagamenti per i miei pareri).

Chiaro, suppongo che ci sia la questione che difficilmente potrei parlare di una musica che magari non è ancora stata pubblicata e che punta sul parlarne, anche sul mio parlarne, soprattutto sul mio parlarne per giungere a quella condizione, ma non è pensabile che io ascolti tutta la musica che mi arriva, e che per di più mi arriva in quel modo.

Perché anche i luoghi del contatto sono sbagliati, Messenger, Facebook, i messaggi diretti di Instagram. Ma sorvolando sui modi e i luoghi, resta che un numero di demo, album autoprodotti, provini, canzoni singole, che si aggira intorno al numero di cinquemila contatti l’anno, poco meno, è per me ingestibile, anche volendo.

Non ho abbastanza ore a disposizione, e non ne avrei anche facessi solo questo, lavoro per il quale, però, non vengo pagato, quindi impossibile dedicargli più che qualche ritaglio di tempo. E anche avendole, queste benedette ore, non è detto che io abbia tutta questa gran voglia di farlo.

Ne parlo spesso, lo so, sembro quello che noi boomer definiremmo un “disco rotto”, ma non passa davvero ora che io non riceva qualche canzone. Per questo, anche ciò è finito nei miei racconti più volte, ai tempi del mio ultimo crowdfunding avevo provocatoriamente buttato lì l’idea di vendere il mio tempo a beneficio dei tanti che mi scassano la minchia con le loro proposte, arrivando a proporre featuring, comparse sui video e ospitate nei live, magari con recensioni fatte in loco dal vivo. Provocazione che aveva scandalizzato addetti ai lavori, gente che nei fatti utilizza la propria scarsa visibilità più che altro per farsi i cazzi propri, approcciare artisti per pubblicarli evocando approcci onesti solo sulla carta, farsi bello ai loro occhi, volendo anche imbarcare, poveri meschini, ma che ovviamente tale era rimasta, una provocazione.

Chiaro che se mi approcci mandandomi musica che con me c’entra poco la mia sensazione sarà che lo stai facendo con tutti, il che precluderà anche il mio ascolto casuale, perché casualmente ascolto sempre qualcosa. E che se mi giri un brano caricato su Spotify mi dimostrerai di non aver mai letto una riga di quel che scrivo, fatto che non manco di far notare, ma nella stragrande maggioranza dei casi io non ho modo di ascoltare né di rispondere con un, mi spiace non riesco, a chi mi scrive, perché cinquemila messaggi a cui rispondere sarebbero qualcosa come cinquemila minuti l’anno, ottantatré ore.

Fate voi.

A fronte di questi numeri, oggi va così, va detto che i miei ascolti casuali, come quelli non casuali, perché oltre questi cinquemila ci sono i dischi, produzioni, preproduzioni, che mi arrivano in maniera più formale, da artisti, discografici, uffici stampa, gente che percorre le vie giuste, che magari conosco e delle quali mi fido, e tutti, sia ascolti casuali che ascolti non casuali, sono di musica suonata.

Non credo di aver mai ricevuto, o se l’ho ricevuto non è mai capitato nei miei ascolti, un brano trap. Del resto che io sia poco incline a questo genere è cosa nota anche a mi conosce poco, e più in generale sono credo anche somaticamente troppo vecchio per essere scambiato per qualcuno cui un brano trap potrebbe interessare.

Perché dico questo?

Semplice, perché a me sembra evidente, è la mia esperienza personale, non una teoria aleatoria, che di gente, anche molto giovane, che suona è piena l’Italia.

Prevalentemente chitarre, e chitarre acustiche, ma anche pianoforti, ukulele, strumenti in genere annoverabili come acustici.

Gente che suona e che spesso, quasi sempre, suona musica discutibile, prescindibile, dimenticabile. Ma suona.

Magari non fa parte di band, quelle sono pochissime, stando ai miei ascolti una percentuale quasi impercettibile, sicuramente non arrivano al 5%, ma che comunque se poi suona dal vivo, alcuni li ho anche conosciuti, mi sono venuti a cercare in quella modalità assurda che fa sì che se dici d’estate dove sei al mare, magari postando una foto, tempo un paio d’ore e arriva qualcuno con un cd in mano, manco fossi un VIP con il quale fare un selfie (selfie che spesso chiude una chiacchierata quasi sempre imbarazzante, perché io, che ho una memoria labilissima, capisco che quello o quella che ho di fronte in realtà io non la conosco solo dopo un po’, dopo un po’ nel quale io ho finto di conoscere il mio interlocutore, dimostrando certo una certa capacità di intrattenimento vacuo, ma al tempo stesso faticando come una besti, vi prego, se siete tra quanti mi approcciano così dichiaratemi subito il nostro non esserci mai incontrati).

Ora, uno potrebbe dirmi, “va beh, ma si vede che siccome parli quasi sempre di analogico, recensisci con attenzione chi suona, evochi un ritorno delle chitarre, è ovvio che tu riceva solo quella musica lì, suonata”, che è un po’ come dire che se ogni volta che capiti a passeggio in Brera vedi Justine Mattera seduta al tavolo di un certo bar non è perché Justine Mattera sta spesso seduta a quel bar in Brera, ma solo perché ogni volta che ci capiti tu, casualmente, ci capita anche lei. Può essere, intendiamoci, ma tenderei a essere meno fatalista e pensare piuttosto che ogni volta che ci capito, vita vissuta, la vedo seduta a quel tavolo perché di quel locale lei è una abitué.

Provo a tornare al punto di partenza, senza essere passato dalla Prigione, i Giovani ora si appassioneranno alla musica suonata in virtù del fatto che una band, sì, WOW, una band di loro coetanei ha vinto Sanremo, anzi, il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, presentato da Amadeus e Fiorello, andato in onda su RAI 1.

Assodato che tutto questo parte appunto da un postulato sbagliato, i giovani non suonano, direi che anche la conclusione cui punta, o meglio, l’entusiasmo che accompagna questa conclusione, anche essa sbagliata, lascia piuttosto basiti.

Sono un boomer. Non è vero, appartengo alla Generazione X, al massimo alla Z, non ho mai ben capito, ma sono troppo giovane per dirmi o meglio essere detto boomer.

Ma come capita per le MILF, termine non raffinatissimo con cui viene identificata qualsiasi femmina di bell’aspetto che abbia superato i trent’anni con cui qualcuno ambirebbe accoppiarsi, i Boomer sono tutti coloro che non sono giovanissimi o non vedono evidenti in loro le istanze della gioventù. Io ascolto musica vecchia, parlo di chitarre e ne evoco il ritorno da anni, mi fa cagare la trap, sono un boomer.

Sono un boomer e in quanto boomer sono anche un po’ luddista, antagonista dichiarato del progresso, la mia battaglia verbale contro Spotify e lo streaming è nota, motivo per cui spesso vengo bollato più prosaicamente come un vecchio trombone poco incline ai cambiamenti, qualsiasi essi siano, pure cambiamenti in peggio.

Lo smog imperante, quello che sta uccidendo il pianeta, la plastica che devasta gli oceani, il famoso buco nell’ozono, anche l’alienazione dovuta allo starsene isolati in casa, connessi ma lontani, questo prima del Covid, sono tutti segni di come il progresso e il nuovo non siano sempre esattamente da sposare in toto, hanno lievi effetti collaterali, e mentre leggete queste mie parole pensatemi per come spesso appaio nelle foto ufficiali, con gli occhialoni rosa e i codini, stavolta non per evocare Frank Zappa ma Greta Thumberg, ultimamente dimenticata, sempre causa Covid.

Quindi, sì, sono un boomer e un luddista, tipo un vecchio hamish con la barba e il cappello a falde morbide e vestiti di stoffa, sprovvisto di luce elettrica in casa e auto a motore, pronto a essere schiaffeggiato dai banditi, non arrivassero Bud Spencer o Harrison Ford a difendermi. Poco conta che stiate leggendo queste mie parole in rete, che faccia continui riferimenti ai social e che la prima musica di cui mi sia mai occupato sia il rap, parlo di venticinque anni fa circa.

Va bene così, sono vecchio, gli anni sono fucili contro, per dirla con Renato Zero.

Solo che voi che boomer non siete, o non vi ci sentite, siete contenti perché un gruppo di ragazzini dovrebbe indurre i loro coetanei, volendo anche i più giovani, a tornare a suonare strumenti, in virtù della vittoria di detti ragazzini a Sanremo, età media degli spettatori 54,1 anni, andato in onda su Rai1, età media degli spettatori, 61 anni, presentato da Amadeus, età cinquantanove anni, suonando, si fa per dire, un genere che definite impropriamente rock, genere che risale ormai a oltre settant’anni fa, che oggi è a appannaggio ai sessantenni, come direbbe giustamente Ruggeri, gente nata dopo la sua invenzione, che erano ragazzi quando andava di scena Woodstock, che erano giovani quando c’erano i Doors o i Led Zeppelin, Jimi Hendrix o i Black Sabbath, e che è quanto di meno ribelle si possa immaginare, i suoi stilemi si sono decisamente radicalizzati, cristallizzati, sono plastici, e con un testo talmente statico e scontato da apparire quasi reazionario, noi contro loro, noi contro voi, ci dicevate che eravamo falliti, ma siamo qui e abbiamo vinto noi, noi che siamo fuori di testa.

Insomma, esultate perché si starebbe tornando al passato, passato remoto, alla faccia del modernismo che il rock ai tempi portava intrinseco in sé, con quella voglia di futuro, le chitarre elettriche, i giri di basso, le batterie che picchiavano come magli, e che ora sembra invece la santificazione del passato, un monumento statico, con tanto di cagate di piccioni sulla testa.

Intendiamoci, la trap continua a farmi cagare, profondamente, seppur io non abbia mai neanche vagamente pensato che a farla ci voglia poco, che le basi le potrebbe fare un bimbominkia con lo smartphone e che l’autotune sia poi così semplice da usare, non è che se mi fai una millefoglie sostituendo la crema pasticcera con la merda io debba dire che è buona solo perché ci hai messo mestiere e tempo, mi fa cagare come buona parte della musica indie, la convitata di pietra di questo discorso, musica a sua volta molto amata dai giovani, quelli che ascoltano musica su Spotify, salvo andare poi più spesso a vedere concerti, questo almeno prima del Covid, musica sciatta, di poco peso, piuttosto banalotta e tutta giocata su melodie simili e un vocabolario che vorrebbe sorprendere ma non sa di nulla, ma musica suonata, piaccia o non piaccia come, la trap e l’indie mi fanno cagare, ma non credo che nessuna rivoluzione culturale passerà da Sanremo, oggi né mai.

Al massimo qualche arzillo settantenne si sarà sconvolto per i peli sottobraccio fucsia di Veronica de La rappresentante di lista, perché dei baci di Achille Lauro, Pillon e Adinolfi a parte, non credo si sia sconvolto nessuno, ma che il rock sia arrivato come la tempesta perfetta sul palco dell’Ariston, cambiando di colpo il corso degli eventi non è vero, non è verosimile, e più che altro è una pia illusione.

Stavolta tocca a me dirlo, poi giuro che non lo faccio più: ok, boomer!