Annalisa è stata punk prima di voi, non di me

Pensavamo tutti che Annalisa fosse una brava cantante e scopriamo che è una punkrocker capace di dare testate e calci nelle palle


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In casa ho dieci strumenti. Sei chitarre, di cui non dirò la marca, non voglio fare product placement gratuito a nessuno, non credo sia il caso, un pianoforte elettrico a ottantotto tasti pesati, un basso a cinque corde, un ukulele, un’armonica a bocca. Le chitarre sono, nell’ordine di arrivo in casa, una elettrica, due acustiche, tre classiche, di cui una per bambini, ma la uso comunque io, comprata per una cosa fatta a due con Ilaria Porceddu, lei con un pianoforte giocattolo, nessuno dei miei figli suona. Nel corso della mia vita ho suonato, nell’ordine di tempo, il clarinetto, il violoncello, il pianoforte, la chitarra, e a seguire, basso, tastiere, sax, ma male e per pochissimo tempo, oltre che ai succitati ukulele, che però non ha mai rapito la mia anima, e l’armonica a bocca, nello specifico una cromatica. L’ukulele, sempre per la cronaca, è un soprano, quindi il più comune.

Non sono un musicista professionista, ho studiato musica e suonato per tanti anni, ma non ho mai pensato di avere sufficiente talento per fare questo nella vita, per cui vivo con estrema serenità il fatto di aver intrapreso un’altra carriera, quella di scrittore e critico musicale, senza provare frustrazioni o risentimenti. Anzi, proprio per aver passato anni a studiare musica, credo di avere infinita stima per chi quel talento ce l’ha, consapevole di averne un altro, e anche piuttosto felice di averlo saputo identificare non troppo tardi, avevo circa venticinque anni, al punto da averne fatto il mio lavoro.

Che però la musica sia parte del mio background, e sia finita dentro la mia cifra stilistica, oltre che dentro i contenuti di buona parte di quel che scrivo, credo di poterlo dire senza paura di essere smentito. Così come credo, si parlava giusto ieri da queste parti di che cosa fosse il rock, indicando non solo in canoni musicali, ma anche in atteggiamenti e attitudini l’appartenere o meno a un determinato genere, di aver in qualche modo assimilato parte di quei comportamenti e attitudini e averli trasportati di sana pianta nel mio lavoro, cosa non sempre usualissima per chi si occupa di scrittura e soprattutto per chi, in teoria, almeno un tempo, per lavoro tende a voler scomparire dietro la pagina. Ecco, diciamo che questo non è parte della mia poetica, non vi sarà sfuggito, non fosse altro perché è dalla prima riga di questo capitolo del mio diario che sto ininterrottamente parlando di me, come quasi sempre,  anche se parte della mia poetica, l’ho già detto un numero sufficiente di volte da essere necessario tornarci su in questa sede, nei fatti sono uso parlare del me che è qui dentro, e magari anche in onda in radio, sul web o in tv, non necessariamente del me e basta, e sia messo agli atti, non è detto che siamo esattamente la medesima persona, o meglio, non è detto che persona e personaggio coincidano sempre e su tutto.

Per dire, il me stesso che finisce dentro quello che scrivo, che ne è spesso e fastidiosamente protagonista, anche qui, spiegare per filo e per segno che non è necessariamente vero che chi racconta una storia come voce narrante presente sia protagonista di quel che va a raccontare, è storia della letteratura, ma va bene si pensi questo, per comodità, il me stesso che finisce dentro quello che scrivo, quindi, un me stesso, come dicevo prima, che ha un suo background musicale piuttosto colto, studi al conservatorio, un approccio da polistrumentista, il tutto senza nessun risultato rilevante da mettere sul piatto, è piuttosto punk, irriverente e eversivo nel modo di scrivere, violento, a volte, spesso sarcastico e iconoclasta, i giganti da abbattere, i più piccoli da sostenere, una forma sghemba di scrittura, assai poco vicina ai canoni del giornalismo coi quali, mio malgrado, vengo spesso confrontato.

Un punk sporco e cattivo, quindi, e il termine “cattivo” è quello usato più spesso per indicarmi, laddove non si ricorra al più corrosivo “stronzo”, o magari “temuto”, per chi invece intende blandirmi, ignaro che lo spirito punk poco apprezza le leccate di culo.

Per dirla con Ruggeri, sono stato punk prima di voi, di molti di voi, quasi tutti, e lo sono stato anche in ambiti dove questo atteggiamento era non solo originale, ma addirittura rivoluzionario (davvero, non alla Ernesto Assante maniera). Ho raccontato di quando a un convegno di scrittori, organizzato nella sede di Famiglia Cristiana, ho sfidato lo scrittore parmense Guido Conti a uccidere un maiale a pugni nudi, ho anche raccontato, sempre qui, di quando una notte di oltre trent’anni fa, ho cagato nella piazza principale della mia città, e il fatto di raccontarlo, ancora più di averlo fatto, è una sorta di fermo immagine che so di aver impresso nella mente di chi mi legge. Credo che possano questi soli passaggi della mia biografia essere sufficienze a rendere in maniera plastica quel che stavo raccontando, quel che ho fatto o detto come critico musicale, anche in tempi recenti, credo sia di più facile reperimento e anche di più semplice lettura.

Come dicevo prima, non è detto che il me stesso privato coincida col me stesso pubblico, o meglio col me stesso che finisce dentro la mia narrazione, come pseudo-protagonista e voce narrante, di persona, mi dicono molti, quasi tutti, sembro molto meno violento di quanto non appaia la mia scrittura, e in questo il mio accento marchigiano, oggettivamente dolce e anche poco ostico all’ascolto, contribuisce non poco a farmi passare per un pacioccone, quale magari potrei anche essere, almeno in certi frangenti della mia vita, tipo quando ho a che fare con i miei familiari e i miei amici, ma che sicuramente tendo a tenere lontano dai miei scritti, so suonare il basso a cinque corde, ma non è che io sia per forza costretto a farlo.

Provo a riassumere in poche righe questo passo, che credo sia fondamentale per capire cosa voglio raccontarvi oggi, ma di difficile comprensione con chi è poco avvezzo alla scrittura: quando mi trovo a scrivere decido implicitamente di usare uno stile, il mio, stile che prevede io sia dentro i miei scritti, come voce narrante e come protagonista, bene, quel mio essere voce narrante e protagonista, le due cose vanno di pari passo, sono uso giocare con la metanarrativa, il mio essere voce narrante e personaggio si passano in continuazione la palla, spesso tiro in ballo anche chi legge, uso trucchi retorici e quasi sempre li dichiaro, in questo mio finire dentro quello che scrivo opto per mostrare una parte di me che è quella che si esterna proprio nella scrittura, magari tirando in ballo come complice il mio aspetto fisico, capelli lunghi, look casual, barba, dettagli eccentrici come gli occhialoni rosa e a volte le orecchie da coniglio di lattice, tutto vero, ma al momento stesso tutto esistente solo dentro la mia scrittura, le parole scritte hanno una forza diversa dalle parole dette, qui la voce si fa sentire solo attraverso la metrica, lo stile, la cura dei vocaboli e di come metterli uno dopo l’altro, il che non significa che, parlando a voce, io non pensi quello che ho scritto, figuriamoci, la finzione è parte integrante della scrittura, ne è fondamento, ma la verità è il punto di partenza e di arrivo, mai potrei mentire, essere falso, diciamo che scrivendo tendo all’iperbole, uso canoni che attingono al surreale, all’enfasi, gioco di dadaismo, provocando assai più di quanto non mi capiti di fare fuori dalla pagina, ma poi, in virtù di questo mio essere enfatico, iperbolico, provocatore e iconoclasta nella pagina lo divento anche nella vita di tutti i giorni, unico momento in cui non riesco a controllare questo bipolarismo che ho serenamente creato ormai oltre venticinque anni fa. Diciamo, per chiudere, che ho assunto atteggiamenti punk dalla musica, li ho realizzati nella scrittura, e questo fa sì che spesso io appaia punk anche nel momento in cui il mio corpo dice esattamente il contrario, o quantomeno in cui il corpo potrebbe smorzare gli spigoli, addolcirli.

Su questo, poi giuro che arrivo al punto, il mio essere considerato stronzo, misantropo, asociale, per motivi per altro che non hanno una logica stringentissima, ma che mi tornano assai utili nel momento in cui, semplicemente, non voglio avere a che fare con tutta una serie di persone che semplicemente ritengo assolutamente irricevibili, una perdita di tempo per chi ha consapevolezza che la vita non dura in eterno, aiuta non poco questo gioco di identificazione, il mio non esserci quasi mai, o il mio esserci stando appartato, il mio schivare e schifare certe mondanità invece assai inseguite, il tenermi a distanza debita da colleghi, non tutti, sia chiaro, ma molti, presentazioni, sale stampe, tribune vip e stampa, è assolutamente coerente con il mio essere un cavallo matto, uno che tira molotov sul sistema di cui fa parte, uno che spara a raffica, spesso, questo vuole la vulgata, per il solo gusto di fare male, di distruggere, in barba alla critica costruttiva.

A tal proposito, il mio tenermi a debita distanza, in alcuni casi essere tenuto a debita distanza, ma fidatevi è rarissimo che non sia io a tenermi fuori dai giri, essere la sola voce fuori dal coro fa di me, o meglio di quel me lì, lo stronzo asociale cattivissimo, un nome molto appetitoso, sicuramente qualcuno che farebbe audience e spettacolo, ecco, il mio tenermi a debita distanza da certi consessi televisivi, i talent, quel talent, unico a non stare seduto a quella triste tavolata piena di Amici a quattro zampe, è già finita agli annali la mia corrispondenza con la De Filippi, fatto che spesso mi viene rivolto contro nel darmi del “rosicone”, nel dire che io parlo male perché non mi invitano, ma  che chiunque sia addentro alla macchina sa non rispondere affatto a queste dinamiche, ecco, quel mio tenermi a debita distanza è, se vogliamo, il vero tocco di dadaismo e follia omicida, sono talmente iconoclasta da rinunciare a una visibilità che mi porterebbe sicuramente nuove collaborazioni, inviti, visibilità, se non è punkitudine questa.

Ora, vi starete chiedendo perché io abbia iniziato questo mio scritto raccontando quanti strumenti ho in casa, indicandomi, autoproclamandomi, un polistrumentista senza talento, fatto salvo che un talento comunque ce l’ho, per poi dilungarmi, dilungarmi è la mia cifra, è noto, sulla modalità in cui la musica è entrata nella mia scrittura, non come argomento primario, anche, ma come parte della cifra stessa, e di come la musica, certe attitudini solitamente attribuibili a determinati generi musicali, sia finita a sua volta dentro il mio personaggio, determinando non solo la mia scrittura, ma anche il mio modo di attraversare la scena, di confrontarmi col sistema e con chi quel sistema lo abita, con ruoli e posizioni diverse. Ve lo starete chiedendo, legittimamente, e ora vi rispondo.

Abbiamo a lungo disquisito, nelle ultime ore, qui come sui social, più sui social che qui, ovviamente, sul rock, su cosa voglia dire essere rock, su cosa voglia dire essere rock oggi. Volendo, non lo abbiamo fatto perché una certa tutela della nostra salute mentale ci induce ancora a tenerci alla larga da discorsi troppo futili, evidentemente primo sicuro passo verso il trash, volendo avremmo potuto porci la stessa domanda anche su altri generi, almeno il glam e il punk, evocati a sproposito dal pagliaccio Achille Lauro, lì mascherato da Gucci a lamentarsi del suo essere tenuto ai margini, paradosso di quelli che avrebbero mandato in panne anche un cervello fino come quello di Wells, uno davvero senza vergogna, quanto di più lontano sia dall’estetica glam, quella cadenza coatta, santo Dio, e ancor di più dall’iconoclastia punk, Gucci, vi rendete conto?, ma sarebbe stato un sottolineare ancora una volta l’ovvio.

Quello che però questo Sanremo ci ha lasciato in eredità, e per certi versi la cosa potrebbe avere davvero risvolti sorprendenti, è che seppur molti ravvedessero in una parte del cast gli alternativi, contrapposti debitamente ai sanremesi, le famose pagelle dei tromboni che ho per colleghi li avevano già indicati prendendo una posizione netta ai preascolti, voti alti a tutti quelli che loro neanche sapevano chi fossero, a volte anche voti meritati, va detto, e stroncature invereconde per tutti i volti noti, quelli che a Sanremo sono di casa, evidentemente usciti da un cerchio magico che fino a ieri li vedeva portati in palmo di mano e oggi gettati nell’umido come pattume, ma durante il Festival la faccenda si è fatta decisamente più neta, ecco, seppur molti ravvedessero in una parte del cast gli alternativi, contrapposti debitamente ai sanremesi, nei fatti i veri alternativi, almeno negli atteggiamenti, si sono rivelati i sanremesi, i due episodi che andrò a raccontare lo attestano.

Domenica In. Mara Venier alterna sul palco quasi tutti i cantanti in gara, come di consueto. Sbagliando, anche parecchio, stavolta è lei a decidere di tenere fuori qualcuno, mentre in passato capitava che qualcuno preferisse partire prima da Sanremo, magari per andare ospite da Fazio o in altri programmi. È il caso degli Extraliscio, forse i veri outsider in un Festival solo in apparenza di outsider, usciti magicamente dalla scaletta per mancanza di tempo, con tanto di insulti fatti in diretta dalla zia Mara al cospetto di Elisabetta Sgarbi, la loro produttrice, salvo poi concedere ampio spazio a altri, e soprattutto concedere ampio spazio ai giornalisti presenti sul palco, sempre i soliti, quelli, per intendersi, seduti al tavolo degli Amici a quattro zampe, loro ne sono ampia rappresentanza, o a farsi selfie a bordo piscina a Miami, ospiti di Laura Pausini per la presentazione di Simili.

Gente che non ha difficoltà a mettersi al centro della propria narrazione, a proposito di quanto scritto sopra, senza però avere la capacità di distinguere tra finzione e reale, e senza soprattutto avere qualcosa da dire che non sia “eccoci, quanto siamo fighi”, in poche parole tromboni fuori e dentro la pagina.

Arriva sul palco Francesco Renga, che durante il Festival e già prima nei preascolti, è stato trattato come una merda da tutti. Stroncato senza se e senza ma, il suo modo di cantare, obiettivamente sotto i suoi standard, e la canzone, considerata al pari del peggio del peggio. Francesco canta, e stavolta canta bene. È in playback, come tutti, quindi dovrei aggiungere il tradizionale “e grazie al cazzo”. Io sono contento, per una volta, di questa soluzione, perché finalmente la canzone si sente per quel che è, un brano assai complicato, difficilissimo da cantare, e sicuramente non banale come alcuni hanno più volte sottolineato. Francesco canta e nel farlo indica ripetutamente proprio loro, i Pool Guys, Luca Dondoni, Paolo Giordano, Andrea Laffranchi. Finita l’esibizione è proprio Dondoni che, con la voce impostata che è solito esibire in radio, gli chiede ragione, con toni ovviamente non esattamente spavaldi, di quell’essere additati. Ne esce un siparietto mesto, con Francesco che rivendica l’essere stato coraggioso nel portare in gara un brano assai difficile, e loro, i Pool Guys, che invece che dirgli quello che hanno scritto per tutti questi giorni, gli danno ragione, come se di colpo si fossero accorti di quel che in realtà avrebbero già dovuto sapere dai preascolti, anche in quel caso la canzone era registrata, i cantanti non erano mica lì, quindi che il brano fosse difficile ma non banale doveva loro essere evidente.

Il punto è, credo, che Renga resta una persona coerente, è un mio amico, lo so, penserete lo stia difendendo, ma è mio amico anche per questo, mentre i Trettré sono quel che sono, micetti da tastiera che, faccia a faccia, abbassano le orecchie come i cocker.
Prova ne è un altro passaggio, quello di Annalisa. Lei canta, una delle poche a non farlo in playback, ma nel suo caso a differenza è quasi impercettibile, tanto è brava a tenere sempre le interpretazioni su alti livelli. A quel punto arrivano i complimenti di rito. Anche da parte di chi, nei giorni precedenti, ha sparato a zero su di lei. Parlo di Giordano, ma davvero i tre sono intercambiabili, come i profuma water, ne scegli uno che incastri al bordo o uno di quelli moderni che appiccichi come fosse uno Slime alla ceramica e l’effetto è sempre lo stesso, profuma il water, dicevo Paolo Giordano, che risate fatte quando ha telefonato in diretta a Fiorello che chiedeva ai suoi contatti VIP di chiamarlo, Fiorello che ne ha letto il nome e gli ha agganciato il telefono in faccia, si stava parlando di VIP ha sottolineato, lui è un giornalista, Paolo Giordano che ha avuto il piacere di dire a Annalisa quanto fosse brava, la voce impeccabile, mentre i suoi compari, Dondoni in particolare, durante una diretta per La Stampa aveva postulato che la giuria demoscopica andrebbe smantellata, giocando elegantemente con un paragone col Covid, e che fortunatamente sarebbero arrivati loro della Sala Stampa a risistemare le cose, rimettere a posto alcuni pennellini, vado a memoria, perché il primo posto di Annalisa gridava vendetta, brutta la canzone, brutta l’esecuzione, tutta la Sala Stampa era insorta gridando, ha aggiunto.

Ecco, per essere chiari, se dici una cosa del genere e non dico tu sia una persona coerente, ma quantomeno dotata di un livello minimo di dignità, poi non puoi far altro che replicarlo de visu, non mandare avanti il compare a fare i complimenti di rito. Invece niente, complimenti di rito da parte del compare, silenzio dagli altri. Sguardo basso, orecchie basse, e pedalare. Evidentemente il Grande Capo ha mollato sia Renga che Annalisa, e i Trettré, i Pool Guys, hanno eseguito il compitino di certificare la cosa.

Colpiti e affondati.

Bene, cosa fa Annalisa a breve giro, li defollowa tutti sui social, via i Pool Guys, fatto che in sé può sembrare irrilevante, lo è se prendiamo come metro di giudizio la vita reale e non il sistema musica, ma che nell’ambiente è una sorta di testata assestata in pieno viso per chi invece di questo campa, dell’essere al centro della scena, amici di tutti, ostentazione a gogo, ospiti di tutti i programmi, Amici dove a Annalisa hanno sempre fatto gran complimenti, in primis, in prima fila anche in una Sala Stampa deserta e covidizzata, se ne sentono in qualche modo i padroni di casa, a farsi i selfie prima di andare in onda a Domenica In (va detto che in questo a darci le maggiori soddisfazioni è sempre Dondoni).

Io tutto questo l’ho ovviamente appreso dai social stessi, perché a mia volta li ho bloccati tutti, non interessato a sapere a chi il Capo ha detto di leccare il culo.

Per altro credo che a riguardo anche Ermal Meta avrebbe qualcosa da dire, corsi e ricorsi storici, ricordate l’editore radiofonico di cui vi ho parlato giorni fa, editore che i Trettré inseguono, e per cui uno di loro lavora da tempo immemore?

Ecco, a Ermal lo ha passato verso l’una di notte per tutta la settimana, per altro esattamente quando i vertici Rai hanno deciso di farlo cantare. Attendiamo anche una sua testata punk, di qui a breve, Ermal, non ci deludere.

Non prima di aver sottolineato come il passaggio sul risistemare le cose. “rimettere a posto alcuni pennellini”, riferito al potere della Sala Stampa e la giuria demoscopica sia la cristallizzazione del motivo per cui non solo non vado in Sala Stampa da anni e anche in questa edizione, pur potendo, ho rinunciato a votare, ma del perché ho sempre sostenuto e continuerò a sostenere che la Sala Stampa non dovrebbe proprio votare, tutti intenti a fare lobby e decidere che “amico degli amici” sostenere, e soprattutto in mano a gente che il meglio di sé lo dà quando recensisce Roomba su Witty.tv, ecco, non prima di aver sottolineato questo applaudo a quella che mi appare la vera sorpresa di questo anomalo Sanremo 2021: pensavamo tutti che Annalisa fosse una gran brava cantante, intonatissima, normale in un cast di rockettari fuori dal giro, e invece scopriamo che è una punkrocker, anzi, la punkrocker capace di assestare testate al setto nasale, magari anche calci nelle palle con i suoi Doc Martens.

Benvenuta nel club, Nali, prendi pure la birra fredda nel frigo.