Loredana Bertè, artista, donna, rivoluzionaria. Uno dei motivi per cui vedere Sanremo 2021

L'artista dimostra come il Novecento sia stato un grande secolo, almeno in musica e almeno nella sua seconda porzione


INTERAZIONI: 1122

Al terzo doppio whiskey quasi le gridai: “J’adore Venise”.

Ci risiamo. Anche oggi comincio con parole non mie. A differenza di ieri, immagino, spero, parole facilmente riconoscibili, al punto che non vi dirò, ora, a chi le ho rubate. Se non lo sapete, dopo esservi coperti con un manto di vergogna, tipo pece e piume, esservi flagellati con dei fustelli di saggina cui avete provvidamente attaccato piccoli pezzetti di vetro, così da provare più dolore e lasciare sul vostro corpo chiari segni che resteranno visibili sotto forma di cicatrici anche a distanza di anni, come monito per il poco che siete e che eravate, potete comodamente ricorrere a Google, Dio che tristezza.

Anzi, ve lo dico, non mi farò fregare dai pochi di voi che non sanno che J’adore Venise è un capolavoro scritto sempre da lui, Ivano Fossati, e chi se no? Non lascerò che sia l’ignoranza di pochi a dettare l’agenda di quel che devo o non devo scrivere. Anche perché, nello specifico, non è della strepitosa e arcigna versione di J’adore Venise che voglio parlare, di qui il mio partire da quei versi, incipit del centotredicesimo capitolo del mio diario del secondo lock down quanto della medesima canzone, quanto piuttosto della altrettanto strepitosa versione che di quel brano incise per l’album Traslocando, da Ivano Fossati prodotto in compagnia di Michael Brauer, e che di Ivano Fossati presentava il brano eponimo, la già più volte citata J’adore Venise, Stare fuori, I ragazzi di qui, e una delle canzoni più note dell’artista in questione, Non sono una signora, perché, sì, è ovvio, sto parlando di Loredana Bertè. E più nello specifico sto parlando della Loredana Bertè dei primi anni Ottanta, qualcosa di favoloso, unico nel nostro panorama musicale.

Pensate solo a quel che ha pubblicato e inciso tra il 1979 e il 1985. Si comincia con BandaBertè, prodotto da Mario Lavezzi, all’epoca suo compagno, che per lei scrisse quello che viene annoverato come il primo brano reggae inciso in italiano, o quantomeno il primo reggae inciso in italiano a incontrare un successo notevole, E la luna bussò, col testo di Daniele Pace e Oscar Avogadro, album, questo con anche una strepitosa Dedicato, sempre di Ivano Fossati, grande hit del 1978, e una manciata di altri brani tutti pregevoli, si passa poi a LoredanaBertè, sempre prodotto da Lavezzi, che con In alto mare come hit segna la svolta funkeggiante della nostra. La pentalogia lavezziana, se così la vogliamo chiamare, si chiude con Made in Italy, lavoro newyorkese che vedrà Loredana frequentare la Factory e incontrare di conseguenza proprio Andy Warhol, regista del videoclip del singolo Movie. Un momentaneo rallentamento in una ascesa altrimenti senza pari, che vedrà nel successivo Traslocando un ennesimo scatto in avanti, già se ne è detto, e siamo solo al 1982. L’anno successivo esce Jazz, prodotto sempre da Fossati, stavolta da solo. Punta di diamante di questo lavoro è Mare d’inverno, di Enrico Ruggeri, che per lei scriverà anche Il testimone, sempre con Luigi Schiavone, come la precedente, e  La donna della sera, Fossati firmerà il testo di Jazz, cover del brano Sina del brasiliano Djavan e Un’automobile di trent’anni, e Bernardo Lanzetti le scriverà Ho chiuso col rock’n’roll. Sempre nel 1983 uscirà per la sua vecchia casa discografica Lorinedita, una raccolta da lei non approvata di brani prodotti da Lavezzi. Fossati con Phil Palmer produrranno l’anno successivo Savoir Faire, dal brano eponimo scritto da Enrico Ruggeri, il quale scriverà per lei insieme a Schiavone anche Non finirà e La curiosità, Lanzetti firmerà Una sera che piove, anche se l’hit di questo lavoro è indubbiamente la cover di Ragazzo mio di Tenco, posta in esergo del Lato A. Nel 1985, dopo che Fossati aveva tradotto un altro suo brano dal titolo Petala per l’album precedente, la Bertè dà alle stampe Carioca, un intero lavoro dedicato alle canzoni di Djavan. I testi in italiano vengono affidati alle cure di Enrico Ruggeri, con l’eccezione di Acqua, che del lavoro sarà il singolo trainante, e La tigre e il cantautore, entrambi affidati a Bruno Lauzi. A produrre il tutto la cosiddetta BandaBertè, cioè la stessa Loredana in compagnia di Guido Guglielminetti e di Elio Rivagli, la sezione ritmica della sua portentosa band. Uno dice, e che sarà mai una cantante che si produce i propri album. Negli anni Ottanta. Una donna. Si produce. Portatemi esempi o tacete.

Proviamo a fermarci e fare un passo indietro, così da vedere tutto con un punto di vista panoramico.

Nel giro di sei anni, in pratica, Loredana Bertè, che già aveva incontrato il successo nel 1975, con Sei bellissima, scritta per lei da Daiano e Felisatti, a produrre per la prima volta Lavezzi, titolo del lavoro Normale o super, come anche il successivo TIR, si troverà non solo a incontrare un gigantesco successo di pubblico, milioni di copie vendute, una popolarità incredibile anche in virtù di una vita privata piuttosto movimentata e mai tenuta nascosta, dalla lieson con il tennista Adriano Panatta a quella con Red Canzian e Roberto Berger, col quale si sposerà nel 1983, figlio del miliardario Tommaso Berger. Glamourness e popstarritudine vanno a braccetto, non è certo una cosa che scopriamo ora.

A aprire questi sei anni incredibile il successo incontrato con Dedicato di Fossati, leggenda vuole che lui avesse scritto per lei Pensiero stupendo, ma che lei lo avesse rifiutato lasciando che il brano finisse a Patty Pravo, e che in seguito le avesse offerto Dedicato e La mia banda suona il rock, anche qui, una scelta e l’altra rispedita al mittente, e poi una girandola di hit, di generi affrontati con personalità incredibile, dal reggae al rock, dal funky alla musica brasiliana, il pop sempre e ovunque, con tutta una serie di collaborazioni da togliere il fiato, Mario Lavezzi, Ivano Fossati, Enrico Ruggeri, Djavan, tanto per fare alcuni nomi su tutti.

Mi fermo.

Torno all’incipit.

Al terzo doppio whiskey quasi le gridai: “J’adore Venise“.

Andatevi a guardare questo video, tanto per capire di cosa voglio parlarvi. Spero non lo abbiate fatto ora, perché altrimenti, suppongo, ora starete a cercare altri filmati d’epoca, come non capirvi.

Perché è questo il punto che vorrei sottolineare ora, provando a portare avanti un discorso che in questi giorni sta animando queste pagine, cioè come si possa tenere sullo stesso piano, un piano per altro altissimo, quasi inarrivabile, canzoni di una consistenza monolitica, capaci come i diamanti di tagliare il vetro, e una iconicità intrisa di sensualità, il corpo che entra nella poetica, sfondando la restrittiva casella del solo immaginario.

J’adore Venise è una canzone pop, con chiare venature blues-rock, come usava fare spesso Fossati a quei tempi, una canzone che però presenta un testo altissimo, con trovate lessicali ricercate, “Una calza di seta sull’abat-jour, j’adore Venise”, o “Giusto ai piedi del letto un giornale, ‘La questione d’Algeria’, ma nemmeno un motivo che io ricordi per andare via”, per non dire di snodi narrativi quali “mi voltai verso il buio, dietro il vetro indovinavo casa mia, ma nemmeno un motivo per andare via” o “e tre bottiglie in fila, e quattro poi, e le risate, che cavolo di nome avessi quella notte non ricordo più”, capaci di proiettarci dentro una storia  di sesso e di bugie, testo che nell’interpretazione di Loredana Bertè, la voce sempre tirata fino al limite, in apparenza, prende una forma torbida, quasi di rassegnata convivenza con un senso di colpa narcotizzato a furia di bere. Su tutto questo video, estratto da una vecchia puntata di Superclassifica Show, il programma che presentava le classifiche di vendita, con lei, Loredana, che si aggira in canotta e minigonna, trasudando ormoni.

Definire l’atteggiamento con il quale quella Bertè era solita porsi davanti alle telecamere sfacciato non credo renda a sufficienza l’idea, un modo talmente naturale di essere spudorati, si legga quest’ultimo passaggio in chiave assolutamente positiva, da lasciare quasi spiazzati, la camminata sensuale, il modo di muovere le braccia per far intravedere i seni, tutto è giocato con una naturalezza che parrebbe escludere la malizia, sempre che essere maliziosi sia annoverabile tra i comportamenti sbagliati quando ci si pone di fronte al pubblico.

Per farvi una idea ancora più concreta di cosa vado parlando, guardatevi l’attacco di questo video, e provate a immaginare cosa accadrebbe oggi se una artista pop, non quindi una artista che si muova nell’alveo del genere rap/trap/urban, una Miss Keta, una Chadia Rodriguez, una Baby K, provasse a emularla, un primo piano stretto del culo, inguainato in una tutina che poco lascia all’immaginazione, e perché mai per altro dovrebbe farlo, forte di una canzone potente come Dedicato del solito Ivano Fossati, quel “dedicato ai cattivi, che poi così cattivi non sono mai” accompagnato da un sorriso sardonico usato a mo di ghigno.

Discorso valido anche per Non sono una signora, con quel “Ma è un volo a planare, dentro il peggiore motel, im questa carrettera, di questa vita balera. È un volo a planare per essere inchiodati qui, crocifissi al muro” che con quel “Ma che brutta fatica, cadere qualche metro in la, dalla mia sventura, dalla mia paura…” tocca uno degli apici testuali del connubio Bertè-Fossati, sempre lui, il video a sua volta a giocare sulla stessa sfacciata sfrontatezza (sfacciataggine, sfrontatezza, spudoratezza, tutte parole che antepongono quella esse negativa a parole che evidentemente sono considerate più accettabili), lo trovate qui.

Forse il punto più alto di questo connubio tra grandi, grandissime canzoni, composte per una grande artista da grandi autori, è Acqua, singolo di punta dell’album Carioca, esperienza brasiliana che la Bertè volle fortemente, ripeto, è il suo primo lavoro come produttrice.

Nel video, girato a trentacinque anni, dettaglio che potrebbe far sorridere, oggi, con la soglia dell’adolescenza e post-adolescenza che mangia centimetri provando a spostarsi verso i quarant’anni, ma che sicuramente altro peso aveva allora, ricordiamo, per dire, che pochi anni dopo, nel 1990, Renato Zero, coetaneo della Bertè e di lei grande storico amico, si presenterà sul palco dell’Ariston fresco quarantenne con la canzone che intendeva sancirne il ritiro dalle scene, parliamo pure di pensionamento, quella Spalle al muro che partiva con i versi “Spalle al muro quando gli anni son fucili contro” e che recitava nel ritornello “Vecchio, diranno che sei vecchio”, l’età anagrafica non è sempre stati decifrata alla stessa maniera nel corso del tempo, la Bertè si mostra desnuda, trasudante una sensualità fortemente caratterizzata dal suo essere donna alpha, sì, ma affatto mascolinizzata nella postura e nell’attitudine, quell’attacco sussurrato “Continuare a vivere così ha l’aria di un naugrafio, sì, quest vita mi ha fregato, mi ha insegnato ad aspettare, sognare un mondo mai creato” che si apre “Il mare è già qui che trabocca e ora che son qui l’acqua mi tocca”, il ritmo, siamo in Brasile, che prende la scena trasformando la canzone in una sorta di filastrocca, la presenza del coro di bambini sul finale vero colpo di teatro, teatro degli opposti considerando la fisicità esibita fino a quel momento, la bocca carnosa in perenne primo piano, il bikini minimo sotto le cascate, andatevelo a vedere, che le parole non sempre sono in grado di raccontare l’irraccontabile.

Tutto molto chiaro, direi, e mi sono fermato giusto un attimo prima che la stessa Bertè, anno 1986, decidesse di calcare il palco dell’Ariston di Sanremo esibendo il finto pancione da donna incinta, ne parlavo giusto in questi giorni, poi copiata palesemente da Lady Gaga e comunque entrata di diritto in uno dei momenti epici del Festival della Canzone Italiana. Lei che già aveva scandalizzato il nostro ancora non troppo bigotto mondo dello show business comparendo nuda nella copertina del suo album d’esordio, nel packaging, va beh, ma tutti all’epoca si erano concentrati più su quello che sulla copertina vera e propria, specie nella famosa foto con la farfalla, assolutamente poco lasciata all’immaginazione, album d’esordio, Streaking, anno del Signore 1974, con quel titolo atto proprio a indicare chi fa irruzione nudo durante manifestazioni pubbliche, più diffusa nella cultura anglosassone che nella nostra.

L’idea del corpo esibito, che evidentemente la Bertè sposerà con estrema naturalezza, è stata in quella prima occasione del suo discografico, Alfredo Cerruti, recentemente scomparso e, per intendersi, oltre che grande discografico anche parte dei genialissimi Squallor, il quale ben vide di far incarnare alla Bertè lo zeitgeist, quell’ondata di rivoluzione sessuale che stava in qualche modo per assalire anche l’Italia cattolica e bigotta, si pensi all’arrivo della Legge sul Divorzio, si pensi ai primi show televisivi con il culo di Nadia Cassini in primo piano, o le magliette bagnate di Sidney Rome, si pensi a una sorta di movimento controculturale che vedrà nella Bertè, nella Oxa, proprio al volgere di quel decennio a esordire vestita da uomo sempre all’Ariston, sulle note di Un’emozione da poco del solito Fossati, delle Patty Pravo e delle Donatella Rettore, Amanda Lear a vestire i panni dell’ambiguità sessuale, sorta di ponte tra noi e il mondo trasgressivo e ultradandy dei David Bowie come della Factory andyworholiana, quindi in questo contesto Streaking si erge come una sorta di manifesto, il suo parlare in maniera esplicita di sesso, di emancipazione, quel citare la parola “cazzo”, il punk a colorare di suoni scarni e dissonanti le trame melodiche e ritmiche delle canzoni (alla Bertè credo si debba riconoscere di aver portato in Italia anche questo, il punk, ma pure un certo modo di appoggiare la parola recitata sulla traccia, sorta di rap prima del rap, penso a Il tuo palcoscenico, per altro canzone nella quale si parla di sesso orale, mica di noccioline). Idea per altro sfruttata anche per copertine varie, tra tante quella di Playboy, e comunque che poi la nostra applicherà, con gli accorgimenti del caso, anche ai video e alle apparizioni pubbliche, sempre giocate su quella sensualità sfacciata e spudorata di cui sopra.

Certo, aver citato Anna Oxa e Patty Pravo, per dire, o la stessa Amanda Lear, potrebbe darmi agio di spostarmi a raccontare anche il loro modo di abbattere la nostra cultura retrograda a furia di scossoni, il filo del perizoma esibito dalla Oxa a Sanremo 1999, so che fa brutto pensare che siano passati venti anni e passa da quel che abbiamo fin qui raccontato, ma tant’è, le copertine de Le ore con la cantante veneziana, ma di lei troppe sarebbero le immagini da dover andare a pescare, penso a un più recente Festival, credo fosse quello del 2009, durante il quale si presentò alla conferenza stampa con la sola giacca, senza nulla sotto, ero presente, ben lo ricordo.

Certo, star qui a rievocare gli anni della controcultura e della rivoluzione sessuale può suonare come qualcosa a metà strada tra la nostalgia e il revivalismo, quanto di più distante dalla prorompenza erotica e l’anarchia eversiva di quegli anni, ma è evidente che tanto lentamente si è riusciti a fare conquiste in questo ambito quanto velocemente si è riusciti a tornare sui propri passi, ricadendo in una sorta di spirito censoreo quasi medievale, non fosse che nel medioevo, ho studiato Storia Moderna, so di cosa parlo, i costumi fossero assai meno rigidi e chiusi di quelli che siamo andati indossando in seguito, specie nel Novecento.

Ecco, e so che la cosa potrebbe suonare uno svarione, arrivato a questo punto, ma credo che Loredana Bertè, specie quella Loredana Bertè lì, in particolare stato di grazia, musicalmente la migliore di sempre, sia un perfetto esempio di come il Novecento sia stato un grande secolo, almeno in musica e almeno nella sua seconda porzione. Lo dico da uomo del Novecento, cioè da uomo che nel Novecento è nato e che nel Novecento si è formato e ha iniziato a operare, anche se poi è evidente che io, come del resto la Bertè, siamo ancora vivi e lottiamo in mezzo a voi. Temo che la nostra, ognuno nei suoi campi, ognuno coi suoi modi, immagino la Bertè si guarderebbe bene dall’includermi in un ipotetico noi che includa anche lei, sempre che sappia della mia esistenza sul pianeta Terra, sia una lotta piuttosto solitaria, o quantomeno portata avanti da uno sparuto numero di persone. Credo che saperla tra i superospiti del prossimo Festival di Sanremo sia uno dei pochi validi motivi per guardarlo, la Rettore ospite nella serata dei duetti dei La rappresentante di lista è un altro, mai capito perché le volte scorse la Bertè sia dovuta andare in gara a fronte di superospiti assai meno blasonati di lei, ma soprattutto credo e spero che sia un buon motivo per i più giovani di andare a scoprire il suo repertorio, magari provando a capire che è anche grazie a lei se l’Italia non è del tutto un paese arcaico come a volte ci capita legittimamente di pensare, e che potrebbe tornare a esserlo un po’ meno se gli artisti decidessero di azzardare qualche sfrontatezza e spudoratezza in più, in questo la copertina del nuovo lavoro dei già citati La rappresentante di lista, titolo My Mamma, che ripropone una versione ultrapop de L’origine del mondo di Courbet con la vulva aperta a mostrare lo spazio siderale potrebbe essere un buon punto di partenza, va detto. C’è ancora molto da fare, basta dirselo e rimboccarsi le maniche, il resto è solo un volo a planare.