Abbiamo bisogno anche noi di una Debbie Harry che ci mostri di non essere bionda naturale

Bisognerebbe abbattere certi stereotipi sul corpo femminile con meno corpi da macello nei testi dei trapper


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Ci ho scritto su parecchio, torno a farlo.

Il corpo. Il corpo delle donne. Il corpo delle donne dentro le canzoni italiane. Il corpo delle donne fuori delle canzoni in Italia. Il corpo delle donne fuori delle canzoni e dell’iconografia in Italia.

Ci siamo capiti, insomma.

Ovvio che questo mio parlare prende le mosse dal capitolo di ieri, in questo mio tentativo di costruire una sottotrama al mio diario del secondo lock down, una sottotrama che esuli la pandemia, leggetela come un mio proposito ottimistico di tornare a guardare al mondo solo come un posto meraviglioso fatto di arte e di intrattenimento, o magari anche di sfaceli e storture, certo, ma comunque che nulla abbia più a che spartire con il Covid e con quello che da oltre un anno ci tiene in ostaggio.

O più semplicemente pensatelo come un mio tentativo vano di sfuggire alla noia e alla paranoia, come certi carcerati di certi film che finiscono per parlare col topino che viene a far loro visita mentre sono in isolamento, la barba incolta, gli occhi cerchiati di nero, la follia a portata di mano.

Nei fatti ieri ho chiosato il capitolo nel quale vi parlavo in toni enfatici di Margherita Vicario tirando in ballo il suo culo, all’aria, lei stesa sul lettino dei massaggi, non una mia fantasia, intendiamoci, ma parte integrante e portante del video di Orango Tango, il suo nuovo singolo, oggi riprendo esattamente da lì, provando a sviluppare un ragionamento che, già lo so, non potrà concludersi qui.

Proviamo a dare un’occhiata in giro, parlo di iconografia, per ora.

Da una parte abbiamo l’immaginario dal talent per antonomasia, Amici di Maria De Filippi, tutti i concorrenti sono in partenza i “ragazzi della porta accanto”, indossano la tuta, spesso si vedono privare del cognome. Il look non è parte della narrazione, perché immagino ci vogliono raccontare che quando si entra nella scuola in questione non si è ancora artisti, non si ha, quindi, diritto a avere una propria personalità troppo sviluppata, se no a che servirebbe andare a scuola. Non a caso spesso chi da lì esce e ha un qualche successo, spesso momentaneo, è la quintessenza della normalità, parlo sempre di iconografia, la riconoscibilità più appoggiata sull’essere stati così a lungo dentro le nostre (vostre) televisioni.

X Factor, che a livello di numeri di spettatori non gioca la stessa partita di Amici, ma che nei fatti ha un forte seguito a livello social, e più che altro è la sola alternativa sensata, ha ovviamente virato altrove, i troppi nomi d’arte, i look stravaganti, la caratterizzazione che spesso viene piegata nel corso delle puntate, i talent, fatta eccezione per quello di quest’ultimo anno, ma quest’ultimo anno è davvero fuori da qualsiasi logica, sono da sempre basati sull’interpretazione di brani noti, le cover, non certo sulle proprie canzoni, comunque una riconoscibilità molto basata su eccessi cromatici, su stravaganze, su eccentricità spacciate per artisticità. Che il tutto non sia affatto originale, si veda l’imitazione al limite del Taleequalismo di Casadilego con Billie Eilish, per fare un esempio, è un effetto collaterale, stiamo pur sempre parlando di tv e di tv di nicchia.

Le due scene che da anni stanno imperversando, anche se sembra con una decisa frenata negli ultimi mesi, dovuti a motivi di natura opposta, hanno a loro volta bloccato l’immagine su figurine da album Panini.

Nella trap la donna è oggetto, la stragrande maggioranza degli attori in scena sono maschietti, e maschietti che parlano di donne in termini oggettificanti e svilenti, “troia” è quasi un complimento, le poche provano a emergere sono spesso costrette a risponder pan per focaccia, andando a vestire i pochi pochissimi panni della donna alpha, provocatoria e ipersessualizzata, o a adeguarsi a quel contesto, diventandone incarnazione emancipata, la Chadia Rodriguez che parla di o la Miss Keta che ne fa parodia.

L’indie, per contro, non ravvisa proprio spazi per le donne, anche a livello testuale, quindi le ipotetiche protagoniste, per ora non pervenute, avrebbero non solo difficoltà a trovare un cliché al quale aderire, ma anche una iconografia cui rispondere con il più classico degli “specchio riflesso”, anche solo immaginare qualcuna che si presenti sul palco alla Frah Quintale o alla Calcutta fa sanguinare gli occhi (e so che dire questo apre una ennesima sottotrama sul mio aver appena scritto qualcosa che potrebbe essere interpretato come sessista, la donna che a differenza dell’uomo deve essere curata, diciamo che la tipologia del cantante indie è di suo molto sciatta e raffazzonata, deve essere bella, le linee estetiche vigenti che non permettono variazioni sul tema, ma io non sto ragionando dal mio punto di vista, sto provando a raccontare quel che vedo confrontandolo con quel che oggi passa il convento, poi proverò a dire la mia). Del resto, negli ultimi mesi, diciamo anche anni, la trap è diventata parte integrante del pop tanto quanto l’indie, la prima per carenza di spinta dal basso, direi, la seconda perché è lì che voleva andare evidentemente a parare, andando a creare una nuova scena mainstream, il cast del prossimo imminente Festival di Sanremo ne è in parte fotografia, che vede appunto fuoriusciti dal talent, indie e affini uno a fianco all’altro, in un’unica soluzione. Anche  in questo scenario, quindi, le donne occupano ovviamente un ruolo minoritario, perfetta fotografia di quel che succede anche nel resto del mondo conosciuto, sempre e comunque sprovvisto di personalità, o oggetto o mimesi.

Non basta, proviamo a spostare lo sguardo sul pubblico, sulla vulgata, sull’omologazione dello sguardo allo stereotipo, forse avvenuta per stanchezza, forse per semplice reazione indotta, noi come tanti cani di Pavlov.

Ipotizziamo che oggi arrivi sulle scene una Debbie Harry, bionda nei capelli, mora là sotto, tutto ben visibile nelle immagini di repertorio, per dire.

No, troppo ricercato, proviamo a ipotizzare che arrivi sulle scene oggi una nuova Madonna, o volendo anche una nuova Lady Gaga, ma italiana. Una artista, quindi, che metta l’iconografia al fianco della poetica, l’immagine elevate al ruolo espressivo che in genere si riconosce nei cantanti alla sola musica, questo del resto ci hanno insegnato per anni i cantautori, addirittura mettendo spesso la musica un passo dietro le parole, le liriche, i testi.

Ne abbiamo avute, so che può sembrare impensabile oggi, ma ne abbiamo avute eccome, al punto che è evidente che proprio le varie Lady Gaga hanno avuto modo di affondare le mani nel loro forziere di intuizioni, si pensi al vestito col pancione finto che ha esibito Miss Germanotta, anno del Signore 2011, venticinque anni dopo il passaggio in quella mise di Loredana Berté al nostro Festival di Sanremo, anno di grazia 1986, canzone portata in gara Re, scritta per lei da quel genio mai abbastanza celebrato di Mango, o si pensi, sempre per rimanere in casa Bertè, alla copertina del suo esordio, Streaking, anno del Signore 1974, dove la nostra posa seduta a gambe incrociate, nuda, per altro senza nessun tipo di censura, oggi sarebbe davvero impensabile, esattamente come farà per la copertina di Revival nel 2015 Selena Gomez, reginetta del pop, ovviamente la censura presente in quel mostrare e non mostrare nulla, la geometria e le prospettive capaci davvero di occultare allo sguardo quel che c’è da occultare.

Abbiamo avuto le Loredana Berté, le Donatella Rettore, le Anna Oxa, cito tre nomi ultrapopolari, quintessenza del nostro mainstream dell’epoca, artiste che hanno al tempo stesso incarnato una evidente voglia di trasgressione, stiamo parlando degli anni Settanta e Ottanta, epoche per noi dolorose e difficili, il famoso edonismo reaganiano di dagostiniana memoria a fare da contraltare agli anni di piombo, alla fine del boom economico, al ritorno alla realtà, dall’altra importanti contributi a una emancipazione almeno apparente della donna, non più mero oggetto di narrazione, ma vere e proprie voci narranti capaci di arrivare anche a chi nulla sapeva della controcultura, del femminismo radicale, credo sia valso molto più l’inno alla masturbazione femminile contenuto nel testo di America di Gianna Nannini, o l’ironico sguardo sessualizzato esibito dalla Rettore in Cobra, che anni e anni di manifestazioni a suon di “l’utero è mio e me lo gestisco io”, in termini di rivendicazioni riguardo al proprio corpo.

Bene, abbiamo appurato che anche noi abbiamo avuto artiste sfrontate, uso un termine che potrebbe usare mia madre, spudorate, anche, e si legga in questi due aggettivi, usati da me, uno sguardo carico di stima, il pudore in un paese fortemente non laico come il nostro è qualcosa da guardare con gli occhi carichi di risentimento, perché colpevolizzare i corpi è qualcosa di profondamente sbagliato, causa a sua volta di tutta una serie di storture, le visioni distorte non possono che portare a identificare mostri laddove non ci sono, radicare un immaginario sbagliato, l’occultamento dei corpi, colpevolizzati, alla base dell’attecchimento di stereotipi, quelli sì sessualizzati e sessisti, predisposti a dettare una serie di comportamenti sociali da terzo o quarto mondo, la donna come oggetto, la donna sempre giovane, la donna accogliente e disponibile (sia essa mamma o puttana, quindi), la donna donna solo se entro i canoni estetici molto stretti e rigidi, quelli della moda. Pensiamo cosa accadrebbe se ciò avvenisse, oggi come allora, o da noi come altrove anche oggi.

“I tempi sono cambiati, direbbe qualcuno, che necessità avremmo di provare a scardinare certi canoni?”

Sicuri, sicuri? Non abbiamo ancora oggi uno sguardo non laico sul corpo, sulla sessualità? Non abbiamo ancora oggi degli stereotipi rigidi dai quali è impossibile uscire, se non strattonando e strappando, alla faccia della tanto ventilata fluidità?

“Eh, ma è facile fare successo mostrandosi, un’artista è un’artista se arriva anche senza bisogno di mostrarsi, quella è una scorciatoia.”

E chi lo ha detto? Fosse così avremmo uno stuolo di icone spudorate, perché è evidente che chi ambisce a un ruolo nel mainstream non lo fa certo cercando la strada più difficile, l’idea che il successo debba essere necessariamente raggiunto col sudore della fronte e a fronte di immani sforzi è parte di una narrazione a beneficio del pubblico, non certo un modus operandi dato per scontato. Nei fatti, questi stessi discorsi lo confermano, mostrarsi viene oggi identificato come un comportamento amorale, come se per altro l’arte e quindi gli artisti, dovessero essere dotati di senso morale, fatto che la storia dell’arte tutta, dalla letteratura alla pittura, passando ovviamente per la musica, ha sempre negato con decisione, un comportamento amorale che quindi rischia di incappare non tanto nella censura, anche, in questo i social sono la perfetta fotografia del presente, quanto piuttosto in una sorta di reazione contraria e violentissima, un respingere al mittente tutto ciò che possa disturbare o conturbare, l’arte vista come qualcosa di consolatorio, Dio mio, quanta mestizia.

“Se hai qualcosa da dire, un messaggio da veicolare, dovrebbe essere sufficiente l’arte, non è certo necessario esibire il proprio corpo per trasmetterlo.”

Questa affermazione, complementare alla precedente, non mi sto inventando nulla, sto limitandomi a riportare cose che negli anni ho letto e sentito dire a riguardo, spesso nei commenti ai miei articoli a proposito, a volte anche durante conferenze e confronti pubblici sul tema, parte dal presupposto che l’iconicità, e quindi l’estetica, sia da porre in una condizione di subalternità alla poetica. Fatto, come accennavo prima, che in qualche modo è figlio dell’aver imposto come culturalmente superiore la forma canzone cantautorale, penso al cantautorato degli anni Settanta, la musica d’autore da quel momento è stata sempre su un piano superiore, sia per la critica che per gli artisti stessi, rispetto al pop, nonostante quel che ci hanno da sempre detto i numeri, il testo che viene prima della musica, l’immagine che neanche viene presa in considerazione, almeno a livello artistico, negando non solo una opportunità, ma assurgendo a dogma di un pensiero unico, come tutti i pensieri unici quindi da guardare con ostilità, da abbattere a ogni costo, fosse anche da riempire un suv di diserbante e nasconderlo nei garage. Discorso, questo, che ovviamente si incrina nel momento in cui a muoversi nei locali angusti e ristretti della musica d’autore è una donna, perché in questo il bell’aspetto rimane un plus, l’estetica che si affaccia sulla scena solo come ulteriore paletto, non certo per ampliare la proposta artistica, assolutamente estraneo al messaggio da veicolare, anzi, se si pensa appunto alla sudditanza psicologica che il pop da sempre vive nei confronti del cantautorato, quasi un controsenso bello e buono.

Per non dire che nessuno pretende certo che mostrarsi diventi obbligatorio, o che sia di suo necessario, è semmai il negare questa possibilità a priori, tirando su muri e palizzate, che lascia perplessi. Saranno o non saranno affari delle artiste se vogliono o non vogliono usare il proprio corpo, vestito o non vestito, come parte della propria iconografia e quindi come parte della propria poetica? Saranno o non saranno affari delle artiste se vogliono o non vogliono, quindi, parlare del proprio corpo, accompagnano o meno quel parlare con il mostrare il proprio corpo, mettendolo letteralmente o metaforicamente dentro i testi delle proprie canzoni, al pari di quanto non accadeva in quel passato cui si faceva riferimento prima e al pari di quanto accade nella musica pop internazionale?

Si leggano i testi di una Beyoncé, per dire, non è che io abbia citato Peaches o Du Blonde, Beyonché, eh, regina del pop americano, o si guardino i suoi video come quelli delle sue colleghe da alta classifica, per farsi una idea di cosa sto dicendo.

Negare una possibilità non equivale a che questa possibilità diventi un dovere, anche solo sottolinearlo mi sembra imbarazzante. Negare invece la presenza del corpo nell’iconografia e nella poetica delle cantanti e delle cantautrici di casa nostra, lasciandola a appannaggio solo di chi prova a ricalcare in chiave femminile i cliché maschili, o di seguirne le indicazioni, equivale a lasciare che quella sia la sola idea perdurante, il che apre un ulteriore paradosso, per non cadere nel cliché della donna che sfrutta il proprio corpo per arrivare al successo imboccando una facile scorciatoia si finisce per lasciare che a dominare sia proprio lo stereotipo di donna che per arrivare al successo imbocca la facile scorciatoia del mostrarsi maliziosamente, con tutto il corollario di sfumature cui si faceva riferimento sopra, dalla donna sempre giovane alla donna sempre disponibile, passando per la donna conforme a rigidi canoni estetici, quelli della moda. 

Non credo di aver detto niente di particolarmente eversivo, stavolta. Né di aver detto niente di particolarmente complicato da comprendere, masticare e metabolizzare. Resta che sono un uomo che parla di donne, e magari anche involontariamente consiglia alle donne come comportarsi, o lancia lì delle suggestioni, Dio mi scampi dall’essere autore di mansplaining, nei fatti non ho alcun interesse a scansare d’ufficio simili accuse, sono un uomo che si occupa di musica, e nella musica ha scelto di occuparsi di femminile, quindi sì, forse faccio anche mansplaining, nel caso mi piovessero addosso anche queste accuse saprò bene che farmene.

Quello che auspico, verbo intransitivo, lo dico a beneficio di quanti, capita spesso di leggerlo sui giornali, continuano a usarlo transitivamente, è di vivere in un mondo sprovvisto categoricamente di stereotipi. Ho due figlie, una moglie, non vedo perché il solo fatto di essere un uomo mi dovrebbe impedire, scrivendo di musica e altro, impedire di veicolare questo mio condivisibile pensiero. E mi piacerebbe, quindi, che questa piccola rivoluzione, o rivoluzione di ritorno, perché sarebbe un ricucire un discorso lasciato a metà non saprei neanche dire quando e perché, un riprendere certa attitudine delle Berté e delle Oxa, e non solo le loro, si propagasse come a volte, raramente, capita che succeda a certe rivoluzioni pacifiche, silenziose e rumorose al tempo stesso, dolci ma ferme. Non credo che a questo basti il supporto di Margherita Vicario e del suo culo, per tornare al punto di partenza di questo arzigogolato ragionamento, anche se sicuramente anche quello potrebbe essere uno dei puntini che uniti possono portare al quadro di insieme che io ho ben preciso nella mente.

Probabilmente servirebbe altro, e servirebbe sicuramente che di pari passo con il riprendere di questa trama si tornasse, o si iniziasse, su questo non ho le idee chiarissime, a spogliare i testi e l’immaginario di certa musica di un sessismo esplicito e molto molto indegno. Ci hanno sempre detto, gli esempi si sprecano a riguardo, che la musica è incapace di guardare al colore della pelle, questo ogni qualvolta si vuole specificare come di suo l’artista sia privo di preconcetti e poco incline a dar seguito a comportamenti ritenuti criminali e vergognosi dalla società civile, per altro una dei rari ambiti nei quali gli artisti sarebbero quindi capaci di incarnare il giusto modo di stare al mondo, ripeto, arte e morale non devono necessariamente convivere, resta però che di musica sessista è davvero pieno il mondo, la trap ne è praticamente infarcita, come parte del rap, sarebbe da ipocriti negare un dato di fatto acclarato.

Ecco, meno corpi da macello nei testi dei trapper e più corpi nelle canzoni e nell’immaginario delle artiste, potrebbe essere un primo passo per abbattere certi fastidiosissimi stereotipi.

Chi sarà la prossima artista a provare a forzare questa porta mostrando il culo o facendoci capire che non è bionda naturale come si sarebbe potuto supporre?