W il culo di Margherita Vicario e W Orango Tango

Orango Tango è una strepitosa opera d’arte nel quale Margherita gioca a dimostrarci come saper usare rime e flow non sia caratteristica peculiare solo dei maschietti


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Ormai abbiamo scavallato l’anno solare.

Quindi direi che è arrivato il momento di dare uno scrollone a questo diario online.

Avevo anche pensato di chiuderlo, seppure le vicende legate al Covid e al lock down siano tutt’altro che risolte, così, de abrupto. Mi sono rotto le palle di star qui a scrivere tutti i santi giorni, e magari voi vi siete rotti di leggermi. Salvo che voi potete non leggermi, io non posso non scrivere, se non dichiarandolo, prima all’editore e poi a voi. Non è un blog, questo. Certo, se voi non leggeste è facile che l’editore mi suggerirebbe di non scriverlo, nel più classico cane che si mangia la coda, ma resta che avevo deciso di interromperlo. Prima toccate le cento puntate, i cento capitoli, poi superato l’anno.

Sono invece ancora qui, perché in fondo scrivere rimane il mio impegno unico in questo periodo di isolamento e di stasi, quindi smettere di fare quello equivarrebbe davvero a una sorta di premorte.

Però, dovendo continuare, o volendo continuare, o dovendo e volendo continuare, credo che sia bene sparigliare un po’ le carte, provare una qualche lieve modifica dei codici ormai dati per assunti, da me, dall’editore e quindi, senza avervi per altro chiesto opinione, magari tramite Rousseau, da voi, qualche piccola modifica per rendere il tutto più pepato. Quindi, per il terzo giorno consecutivo, questo è, provo a tendere un ulteriore filo nella narrazione, un filo che esuli il semplice, si fa per dire, fatto che siamo in piena pandemia, che io me ne sto a casa con la mia famiglia, insomma, sapete di cosa parlo.

Il filo che provo a tendere, come una sottotrama che si affianca alla trama principale, forse a una seconda trama che arriva in corsa ma che nei giorni e le settimane, non dico mesi anche se lo penso, vedremo quanto a lungo andremo avanti con questo deliro e di conseguenza con questo diario, il filo che provo a tendere, come una sottotrama che si affianca alla trama principale, quindi, o forse a una seconda trama che arriva in corsa e col tempo diventerà la trama principale, vallo a sapere, è quello della provocazione, dell’essere o meno riconoscibili o visibili, dell’essere comunque multiformi, variabili, duttili.

Dell’essere, cioè, artisti d’oggi, e artisti oggi, che poi sembra la stessa cosa ma non lo è in tutto e per tutto. Margherita Vicario.

Se non la conosceste già segnatevi questo nome. Se non la conoscete già andatevi a nascondere, perché non siete tra quanti leggono questo mio diario, Margherita Vicario è già passata più volte su queste pagine, non siete tra quanti seguono in genere cosa scrivo, in particolar modo riguardo il cantautorato femminile, vedi sopra, e soprattutto non siete tra quanti sanno cosa si muove nel mondo della musica, intendendo con questo non tanto e non solo quel che si muove nelle classifiche, anche, ma quel che si muove di interessante a prescindere delle classifiche, spesso finendoci anche, in classifica.

Mi fermo. Mi volto.

Guardo da un’altra parte, poi torno.

Giorni fa ho preso parte a una sorta di chiacchierata collettiva riguardo la musica emergente e la musica emergente al femminile.

L’ho fatto, ca va sans dire, su Clubhouse, che almeno per un po’ sembra essere il luogo dove chi opera nel mondo della musica si è spostato, incapaci di tornare a incontrarsi dal vivo, e soprattutto incuriositi dalle possibilità che un nuovo social che in tutti i casi ricrea bolle assai più degli altri, a partire dall’elitarismo del potervi accedere solo se invitati e in possesso di device Apple, e di poter parlare solo se invitati da chi gestisce le stanze, luoghi dentro i quali ci si raccoglie per parlare di determinati temi.

So che ne ho parlato diverse volte, nei giorni  scorsi, ma questo è un diario, funziona così, si parla di quel che succede, e ultimamente è successo Clubhouse.

Comunque, lì su Clubhouse ci si è ritrovati per parlare di musica emergente e musica al femminile. Tema, come sapete, non starò a dilungarmi, a me caro. Non a caso, appena sono entrato, mi hanno invitato a parlare. Non perché io sia stocazzo, anche, ovviamente, sono un signor Stocazzo, ma perché ho una esperienza riguardo questo tema piuttosto corposa, forse quella più corposa tra quanti operano nel settore e non siano, appunto, cantautrici.

La faccio breve, non è questo il tema del giorno, seppur questo entrare e uscire dal tema del giorno sia in effetti una delle trame che continua capitolo dopo capitolo, trama a cui si affianca la nuova trama, per tornare al discorso di prima. La faccio breve, quindi, ma la discussione, a mio parere, ha preso una piega abbastanza sconcertante. Perché molte delle presenti, artiste, promoter, discografiche, hanno parlato dell’attualità come di un panorama nel quale la differenza di genere non esistesse, grandi spazi disponibili, nessun tipo di emarginazione, nessun tipo di discriminazione. Molto ottimismo, anche, e questo ben venga, ma più che altro una cronaca nella quale ho faticato molto a ravvedere brani di verità. L’ho ovviamente detto, finendo per fare come sempre la parte del vecchio brontolone, dimostrando coi numeri e coi fatti come la situazione sia tutt’altro che sanata, e come, fatto per me piuttosto agghiacciante, il non accorgersi di vivere in un mondo ancora fortemente maschilista è parte stessa del problema, perché tutte le difficoltà del caso, nessuno e nessuna ha negato ce ne fossero, venivano costantemente ricondotte a non meglio identificabili “input che arrivano dal pubblico, dal sistema, dal gusto della gente”, come se tutto questo non fosse frutto di decisioni prese a monte, di influenze radicate nel tempo, di scelte operate sempre e soltanto da uomini. Certo, il fatto che a fare questo discorso fosse un uomo, un uomo quindi a forte rischio di mansplaining, ha reso il tutto quasi surreale, ma spero che almeno questo tutti me lo abbiano riconosciuto, il mio sbattermi anima e corpo per una scena che non mi vede non solo protagonista, sono un uomo e non sono neanche un cantautore, ma addirittura che mi ha visto negli anni spendere tempo e denari senza che mai questo mio spendermi fosse in alcun modo ripagato.

La chiacchierata, chiamiamola così, è anche un po’ degenerata, perché su Clubhouse si corre il rischio di parlarsi sopra, e perché evidentemente le diverse visioni sul mondo della musica non hanno necessariamente punti di incontro. Quello che però decisamente non mi va giù, non può andarmi giù e sono disposto a combattere davvero fino all’ultima stilla di sangue, è che spesso, troppo spesso, quasi sempre, il discorso finisca per vertere su questioni tipo: “le donne non fanno musica perché poi il pubblico femminile non le segue”, “le donne non sanno fare squadra”, “le donne sono troppo poche nel sistema musica perché troppo poche sono le donne di talento”, “le donne sono troppo poche perché si somigliano tutte tra loro, mentre gli uomini no”.

Tralascio il tipo che ha detto che il problema di alcune donne, si parlava di Cristina Donà, è l’età, perché onestamente mi sembra un commento di una pochezza e di un sessismo senza pari, sfido chiunque a fare lo stesso discorso a un Niccolò Fabi, a un Samuele Bersani, a un Manuel Agnelli, a un Max Gazzè, tanto per citare alcuni suoi e miei coetanei (per altro il fatto che il suo crowdfunding dopo una settimana veleggi verso il triplicamento del goal prefissato, direi, è indice di come anche chi è fuori apparentemente dal mercato un mercato ce l’ha eccome, solo che il mercato è troppo idiota per accorgersene).

Margherita Vicario, quindi.

Sì, sono tornato al tema principale, poi capirete.

Ogni volta che qualcuno mi dice che le donne in Italia hanno poco spazio nel mercato per colpa loro, per uno dei motivi che trovate su elencati, subito essermi pulito il sangue dagli occhi, perché ogni volta che qualcuno mi dice una cosa del genere non mancano di sanguinarmi gli occhi, mi viene da sciorinare un elenco di cantautrici che, a mio avviso, hanno talento così chiaro e sfacciato da mettere a tacere qualsiasi “sì però”. Di più, donne che hanno un talento così chiaro e sfacciato da spingere chiunque abbia un minimo di conoscenza del sistema musica a imprecare anche palesemente pensando a come queste medesime donne non vengano considerate un punto fermo del sistema musicale tutto, non certo una delle tante nicchie indipendenti, per intendersi.

Dovendo io pensare a questo elenco, non lo faccio mai, parlo d’istinto, quindi finisco spesso per scordare qualcuna, tante sono, cito le Irene Ghiotto, le Ilaria Porceddu, le Mimosa Campironi, le Giorginess, le Patrizia Laquidara, le Serena Brancale, le Serena Ganci, le Carolina Bubbico, le Micaela Tempesta, e davvero troppi sarebbero i nomi da fare, anche stavolta ne dimentico sicuramente chissà quante.

E poi chiudo facendo il nome di Margherita Vicario, come a giocarmi un jolly, una carta che, è chiaro, la butti sul tavolo con gesto risoluto, quasi violento, e sai che la partita è chiusa, tu hai vinto e all’avversario non rimane che leccarsi le ferite e pagare quel che c’è da pagare.

Perché se un tratto distintivo di tutti i nomi che ho fatto, e tanti altri ne potrei fare, ripeto, rischio di diventare noioso, è l’estrema originalità.

Un piglio sperimentale, zero volontà di fare i conti con quei canoni stretti e rigidi che vogliono le canzoni di una determinata lunghezza, al momento circa due minuti e qualcosa, il ritornello massimo di quindici minuti, per i video di Tik Tok e le storie di IG, pochi accordi, zero armonia e melodie quindi sempre esili e simili a loro stesse, ritmo standardizzato, armonia tenuta su con lo sputo, testi scritti tutti intorno a una unica intuizione, da meme, molte parole nelle strofe, poche nel ritornello, gergo onnipresente, accenti sbagliati come fossimo tutti dentro un film con De Sica e Boldi, o troppo milanese o troppo romano, un piglio sperimentale che spesso, lasciato libero di agire, porta a risultati sorprendenti, spiazzanti, originali, fuori da ogni omologazione, l’iconicità così rifuggita dal mondo maschile, sia esteticamente che come poetica, a sua volta parte del discorso, il tutto a produrre canzoni e dischi assolutamente fuori da ogni logica, e niente come l’essere fuori da ogni logica è in grado di colpirci, un genere sessuale, quello femminile, che diventa genere musicale perché in grado di agire senza compromessi per assunta emarginazione, quello che è un ostacolo che diventa artisticamente un trampolino per spiccare un balzo notevole.

Ora, non voglio dire che sia sempre così, non lo è e non lo penso, lo è sicuramente per i nomi che ho fatto, e per altri ancora, lo è in maniera quasi imbarazzante, tanta è la profusione di idee e di intuizioni e di talento, per Margherita Vicario, una che, non fosse italiana, con buona probabilità celebreremmo come una nostra Lady Gaga, capace di prendere qualsiasi genere e farlo proprio, qualcosa che prende il discorso dei giorni scorsi della personalità artistica multipla e la rovescia, personalità singola capace di muoversi in generi differenti, multipli, nel caso di Miss Germanotta la dance, il pop, lo swing, l’alt-country, l’electro, nel caso di Margherita Vicario il pop, il rap, la musica latina, una capacità non solo di reinterpretare i generi musicali, ma anche il linguaggio verbale che a quelle musiche siamo abituati a associare, tramite i testi, e farne opere d’arte nelle opere d’arte, rovesciamenti di fronte, sfottò elevati a polaroid dello stato dell’arte, trovate lessicali e metriche davvero incredibili, il wow della sorpresa sempre in bocca mentre la si ascolta, sempre sempre.

So che quel che ho scritto suonerà come una iperbole, specie se raffrontato a quanto scrivo in genere per le canzoni che il sistema musica imbusta e impacchetta per proporceli come ipotetiche hit, roba costata milioni che bollo come merda che viene contrapposta a canzoni che elevo al grado di arte sublime, i numeri che sembrano darmi torno, e in effetti è tutto vero, ho usato una iperbole, lo faccio spesso, ma volevo proprio mettere la maggiore distanza possibile tra la musica di una artista come Margherita Vicario, e le altre su citate, e quella monnezza, indicare uno stacco incolmabile, a costo di risultare enfatico e infatuato.

Su tutto, e non è un dettaglio da poco, un discorso che Margherita Vicario sembra voler portare avanti canzone dopo canzone che, questo sì, potrebbe dar credito a quanti ravvisano nel mio parlare continuamente di cantautorato femminile come una azione a forte rischio di autoghettizzazione, come di chi costruisce una palizzata per proteggersi da ipotetici attacchi dei banditi e finisce per rimanerci chiuso dentro, irraggiungibile anche da chi dovrebbe portare i viveri e l’acqua necessari per sopravvivere, cioè un discorso femminista che non decide di contrapporsi muro contro muro al maschilismo imperante, ma, mi si passi la metafora sottile e raffinata, al maschilismo preferisce entrargli in culo e dargli gli ultimi potenti colpi ben assestati prima di averne dichiarato l’umiliazione che poi gli sarà fatale, come una Pericle il Nero che si incula i nemici del proprio capo (credo che peggio di così non avrei potuto fare, ma so che proverò a andare anche oltre).

Perché Margherita Vicario questo fa, prende un genere, e soprattutto una poetica vigente, imperante, e la fa sua, metabolizzandone le istanze, rovesciandone i contenuti e finendo immancabilmente per disinnescarne la potenza, si tratti di parlare del corpo della donna oggettificato nelle canzoni come di un immaginario da nuovi arricchiti tutti soldi e divertimento che spesso fa da tema unico delle canzoni reggaeton, mettendo se stessa, la propria voce, le proprie parole e la capacità di trovarne sempre di nuove e il proprio corpo, questo è un aspetto che credo in seguito mi troverò a studiare meglio, su cui è evidente che la ragazza ami giocare, anche qui sovvertendo stereotipi e cliché. Prova ne è la sua nuova canzone, ennesimo singolo che sta accompagnandoci verso l’attesissima uscita dell’album Bingo, previsto per la primavera, Orango Tango. Un brano surreale, per dirla con le sue stesse parole, nel quale Margherita Vicario gioca a dimostrarci come saper usare rime e flow non sia caratteristica peculiare solo dei maschietti e come si possa giocare tra trasgressione e vita ordinaria contrapponendo slang da trapper con francese, scene di vita quotidiana, dal citofonare di corsa a mamma perché senza chiavi mi scappa la pipì a scene da sballo in discoteca, il tutto con un tiro da paura, senza lesinare critiche al malcostume del penpensantismo ipocrita di chi organizza i Family Day, vedi alla voce Meloni, o a De Luca, con inframezzi di bel canto, frizzi e lazzi.

Un pezzo in apparenza più leggero dei precedenti Piňa Colada, Mandela, Pincio o Giubbottino, che in effetti a loro volta sembravano leggeri ma leggeri non erano, magari parente più stretto della recente collaborazione con Rancore, in Equatore, ma nei fatti credo che l’opera tutta di Margherita Vicario sia fa leggere nel suo insieme, una sorta di mappatura della sua visione del mondo, lei difficile da fermare in unico scatto costretta a muoversi come uno squalo, e nel suo muoversi però capace di allargare canzone dopo canzone i suoi e di conseguenza i nostri orizzonti.

Se le indicazioni di Daniel Ek, CEO di Spotify, quel suo consigliare agli artisti di non pensare agli album, roba da vecchi, e pensare a sfornare una canzone al mese, come fossero tutti e tutte Due Lipa capaci di tirare fuori tre album in un anno, è in sé una boiata degna di chi si trova a trattare la musica con la medesima sensibilità con cui si potrebbe parlare di detersivi o di scarpe da trekking, è pur vero che anche in questo la nostra si dimostra contemporanea, non solo lavorando nel tempo su singoli, singoli che certo andranno poi a comporre un album, ma che intanto ci tengono compagnia nel mentre, ma permettendosi appunto una eterogeneità e multiformità che ci viene però distillata nel tempo, permettendoci di capirla e apprezzarla, la frammentarietà nella quale siamo precipitati tenuta in qualche modo a bada, più con l’astuzia che con la forza bruta.

Il video di Orango tango, come sempre in precedenza, è opera d’arte a supporto dell’opera d’arte, capace di mettere ulteriori elementi a disposizione di noi che di fronte all’opera ci mettiamo con la predisposizione di farci guidare in una visita con le cuffiette, numeri da digitare nel display e tutto.

Margherita gioca la carta del surreale, certo, i balletti coi gorilla questo evocano, ma anche sull’ironia, il suo essere glamourosissima vestita di rosso, il suo porsi come bimbaminkia che balla in disco, gli occhiali da sole al buio e tutto, l’esibizione del corpo a fare da fil rouge, il video comincia con lei sul lettino di un massaggiatore, supina, e prosegue con lei che balla in bikini, un rivendicare una corporeità che esula gli stereotipi, anche qui, bikini e culo all’aria, senza accennare alla malizia di certe Chadia Rodriguez, niente da eccepire, poetiche diverse, o al gioco degli eccessi di una Miss Keta, semplicemente contrapponendo la bidimensionalità del cliché alla vivida tridimensionalità della carne viva, pulsante, un culo può essere medium o messaggio, è evidente.

Ecco, credo che la straordinarietà di Margherita Vicario, servisse un disegnino o una didascalia di accompagnamento a tutto quanto sta magistralmente facendo con le sue strepitose canzoni, sta tutta in quel culo all’aria mostrato senza pudore e al tempo stesso lontano anni luce dall’essere usato come arma di distrazione di massa, interpunzione di una frase detta talmente bene da lasciarci comunque a bocca aperta.

Viva Margherita Vicario, quindi, viva Orango Tango di Margherita Vicario e viva il culo di Margherita Vicario.