I miei pensieri sul valore dell’arte e del mercato, mentre ascolto il funky dei Denovo e D’Angiò

Un certo funky italiano mi salverà dal baratro verso cui stiamo andando


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Il mio scritto di qualche giorno fa sull’insegnamento ha dato vita, era inevitabile, a tutta una seria di ragionamenti, chiamiamo generosamente così anche quelli che proprio ragionamenti non erano, più sfoghi isterici, sui social. Non poteva essere altrimenti, la scuola è un tema che riguarda non solo un numero piuttosto alto di lavoratori, ma anche un numero ancora più alto di genitori, e anche di studenti.

Non voglio tornare nel merito di quanto ho scritto e penso, quanto piuttosto prendere spunto dalla parte più sana di quelle discussioni per provare a spostare un pochino più in alto il discorso, includendo in esso anche le sorti, presenti e future, del comparto dello spettacolo, quello confrontandomi col quale io in effetti lavoro, un critico musicale in assenza di musica, converrete, ha ben poco da scrivere e analizzare.

Un mio amico, Cristiano, professore presso l’Alberghiero di Senigallia e commercialista, il mio commercialista, con un passato anche da dirigente sindacale nel campo della scuola, ha buttato sul tavolo dei raffronti col passato, quando cioè la scuola iniziava a ottobre, senza che a nessuno venisse in mente di alzare lamenti e indignazioni per i mesi di vacanze degli insegnanti. Ha alzato ulteriormente il tiro citando il mondo dell’Università, che a tutt’oggi inizia mediamente a novembre le lezioni, e dove gli stipendi viaggiano su cifre decisamente più importanti di quelli di maestri e professori scolastici, in un rapporto minimo di uno a tre. Anche lì, nessuno in questi giorni ha tirato in ballo loro.

Tutto vero, Cristiano è una persona estremamente equilibrata e intelligente, non a caso metteva serenamente sul tavolo i privilegi del corpo insegnanti, e più in generale dei lavoratori pubblici, niente licenziamenti e niente cassa integrazione, sottolineando però come con lo stipendio medio dell’insegnante sia praticamente impossibile diventare autonomi economicamente.

Provo a partire da qui.

Vengo da una città di provincia. Un capoluogo di regione, di provincia. Ho sottolineato la cosa perché, quel dettaglio lì, che Ancona sia il capoluogo delle Marche, ha sempre indotto i miei concittadini a pensarci quasi metropolitani, ma nei fatti vengo da una città di provincia, pure piuttosto periferica. Essere insegnanti, dalle elementari alle superiori, come certi altri lavori, penso a chi lavorava in banca, per dire, equivaleva a occupare una posizione sociale di rilievo, almeno agli occhi della gente comune. Essere un professore, per intendersi, era oggetto di stima e anche di vanto, spesso capitava di trovare l’abbreviativo “prof.” sul citofono, le riverenze che i suddetti si vedevano rivolgere mentre si passeggiava in centro erano evidenti anche ai miei occhi di bambino, insomma, così girava il mondo. Se ci mettete che buona parte del corpo insegnante era composto da donne, istruite ben più della media, in un mondo, non che oggi sia diversissimo, in cui tendenzialmente le donne lavoravano meno, mia madre è stata licenziata dall’azienda per cui lavorava quando è rimasta incinta di mio fratello, l’emancipazione credo fosse parola praticamente sconosciuta una sessantina di anni fa, o comunque ricoprendo ruoli meno dignitosi di quelli svolti dagli uomini, capite come ci si trovasse in quel caso di fronte a professioniste stimate che spesso erano parte di un nucleo familiare alto borghese, insegnanti mogli di professionisti, quindi con nell’insieme un certo agio economico.

Chiaramente, immagino, nelle città davvero tali, quelle grandi, per dire nella Milano nella quale vivo ora, suppongo che questo tipo di situazioni fosse più sfumata, non fosse altro perché, almeno da un punto di vista economico, lo stipendio da insegnante era meglio di quello da operaia o segretaria, ma sicuramente in provincia quell’essere meglio pesava di più che in una città con un costo della vita più alta, e l’anonimato che la grande città impone, per certi versi qualcuno potrebbe dire “offre”, toglieva parte di quella condizione privilegiata, ma l’Italia è una nazione fatta di provincia, più che di metropoli, è un fatto.

Faccio un salto in avanti, piuttosto lungo, arrivo a oggi.

Abbiamo sentito tutti, per mesi, per anni, un politico con ampio seguito come Salvini usare i termini “professorone” e “intellettualone” a mo di insulto, spesso crogiolandosi in comportamenti ascrivibili al genere “tamarro”, come a voler erigere un ponte tra lui e la gente comune (nessuno avrebbe pensato che il De Michelis che scriveva la guida alle discoteche era impresentabile, il suo era un vezzo che si poteva permettere dall’alto di una preparazione politica di altissimo livello, mentre il Salvini che fa cadere il governo a torso nudo e col mojito in mano dal Papete è chiaramente uno spettacolo impresentabile, senza se e senza ma). Abbiamo sentito tutti, per mesi, per anni, politici e sostenitori del Movimento 5 Stelle mettere in dubbio con ragionamenti piuttosto risibili e del tutto sprovvisti di alcuna evidenza scientifica quelle certezze che la scienza ci ha proposto come tali dall’Illuminismo in poi, complice l’idea che uno vale uno, quindi un virologo ha lo stesso peso nella discussione scientifica del primo che passa, per rimanere all’attualità, senza dover scendere al livello di chi crede ai microcheap sottocutanei, alle influenza mentali e sensoriali indotte dal 5G e tutta quella roba lì. Al punto che ci si è poco meravigliati quando uno Zingaretti, che in teoria dovrebbe essere parte di quella classe politica che viene, appunto, dalla politica, e si legga questo termine con stima, non con disprezzo, ha bollato Concita Di Gregorio come una “radical chic”, perché essere parte di una élite pensante, seppur l’élite dovrebbe essere ostile al concetto di sinistra, mai era stato oggetto di denigrazione da parte del segretario del principale partito di centro-sinistra, o tempora o mores.

Chi usa l’intelletto, chi si dedica alla cultura, per non dire dell’arte, è da tempo stato iscritto d’ufficio nel novero di quanti rubano il pane, campano di espedienti, sono lontani dalla vita reale e quindi da guardare con sospetto, anzi, con disprezzo.

Succede se costruisci una narrazione che si basa su un linguaggio gergale, volutamente gergale e basso, volgare, con una estetica a base di felpe campaniliste, di tortellini con i wurstel, di merito e competenze guardate come vessillo di un passato da abbattere a colpi di televoti.

Del resto già negli anni addietro le cose avevano preso una piega anomala, il berlusconismo, che da una cultura classica partiva, si pensi alla bibliofilia spinta di un Dell’Utri, a Berlusconi che pubblica i classici greci in edizioni di pregio, era partito sulle solidi basi di una analfabetizzazione di massa impartita quotidianamente dalle televisioni private, a suon di Drive In e di Ok il prezzo è giusto, una poppizzazione del nostro linguaggio che ha portato a un imbarbarimento del nostro grado di comprensione, il tutto poi divenuto ostentazione di uno status quo da contrapporre proprio alla tanto sbandierata e cristallizzata intellighentia di sinistra, quella dei salotti buoni, da Inghe Feltrinelli fino a Lella Costa, quella delle Feste dell’Unità e dei cantautori, quella del “la destra può esibire solo intellettuali come Marcello Veneziani” contrapposto anche a un passato improponibile di cattivi maestri usciti dal mondo dell’Università, da Toni Negri a Renato Curcio. Un gioco delle parti il cui scotto abbiamo iniziato a pagarlo tutti quanti, chi del mondo della cultura faceva e fa parte tanto quanto il resto della popolazione, che si è trovata negli anni a guardare quel mondo sempre più con disinteresse, se non addirittura con ostilità.

Il mondo della cultura, dentro il quale va sicuramente ascritto d’ufficio il mondo dell’istruzione, come quello dell’arte è stato sostanzialmente emarginato, con conseguente smantellamento del sistema scolastico, sempre meno tenuto in conto da un punto di vista sociale, figuriamoci, se un intellettuale è diventato un intellettualone o un professorone, un semplice professore è diventato un paria, parte di quei privilegiati che agli occhi del popolo risponde al mefitico nome di “pubblico impiego”, scansafatiche col posto fisso in epoche di lavori fluidi e precari.

Per contro, tanto per non dare l’impressione che la mia veloce e anche parziale lettura della contemporaneità sia totalmente di parte, proprio quel privilegio cui faceva già riferimento il mio amico Cristiano, la certezza di non perdere il posto di lavoro e neanche lo stipendio, volendo anche la possibilità di accedere a quel mondo in maniera non stringente e definita, vedi alla voce “precariato”, nel bene come nel male, ha spinto verso l’insegnamento non solo tanti laureati che cercavano il posto sicuro, anche a costo di arrivarci dopo anni e anni di incertezze, ma anche tanti professionisti di mezza età colpiti dalla crisi economica, riciclati, quindi, spesso non esattamente spinti da passione per quel mestiere così delicato e carico di responsabilità.

Resta che il mondo della cultura e dell’arte, istruzione inclusa, è finito per diventare roba superflua, cui guardare con l’accondiscendenza con la quale si guarda agli sfigati quando si è fighi, talmente fighi dal poter guardare agli sfigati con accondiscendenza, si intende. A una frase come “gli amici artisti che ci fanno divertire e emozionare” non ci si arriva mica da un giorno all’altro, come a veder confermare al Ministero della Cultura Franceschini, colui che più di ogni altro ha rivendicato la chiusura di musei e teatri, manco fossero i lazzaretti di manzoniana memoria. Licenziando definitivamente la questione degli insegnanti, che di questo mio scritto era punto di partenza, non certo di arrivo, direi che in questo scenario apocalittico o post-apocalittico il fatto che gli insegnanti siano ormai trattati alla stregua di chi vive di espedienti, poco rispettati, parte di una casta di privilegiati senza meriti, sia più un sintomo che un effetto di una patologia temo passata in modalità cronica, suppongo di quelle che portano a morte certa dopo lunga agonia.

Passo a parlare di me. La cosa non vi sorprenderà, suppongo, e se anche fosse, ve ne farete e me ne farò una ragione.

Sono uno scrittore. E sono un critico musicale. Ho studiato, invero molto più fuori dai luoghi preposti all’istruzione e allo studio, ma ho studiato, molto, e continuo a farlo. Ho praticato diverse forme di scrittura, non solo quella letteraria. Ho scritto libri, tanti, tantissimi, e anche tanti e tantissimi articoli, ma ho scritto anche per il teatro, per il cinema, per la tv e la radio, ho scritto canzoni. Ho studiato musica, e suono diversi strumenti, non benissimo, ma con consapevolezza. Sono piuttosto bravino a disegnare. Parlo in pubblico con un certo eloquio, faccio radio da oltre venticinque anni, so stare su un palco e mi capita abbastanza spesso di farlo, come mi occorre di parlare di fronte a classi di studenti o al pubblico di conferenze. Dovessi dare di me una definizione direi che sono un “artista rinascimentale”, questo credo di essere, senza paure di smentite, ma siccome provassi a far passare questa idea passerei per un arrogante, ricorro alla più canonica definizione “intellettuale”. Il che, oggi come oggi, è un po’ come dirsi una merda, salire su un piedistallo che però non comporta nessun tipo di prestigio, non che essere intellettuali miri a questo, ma neanche di ruolo civile o sociale. Dalle mie parti, la città di provincia di cui parlavo a inizio capitolo, Ancona, si dice “cala giù da quel pajaro” per spingere chi si ritiene stocazzo a darsi meno arie, letteralmente scendi da quel pagliaio, metaforizzando nel pagliaio il piedistallo di cui sopra, ma un piedistallo terra terra, roba da mondo dei campi, non certo da museo o piazza centrale. Vecchia saggezza popolare, che però, nello specifico, suppongo mi verrebbe consigliata, con toni anche piuttosto severi, per questo mio dirmi intellettuale, non fosse che appunto definirsi tali oggi è più una ammissione di colpa che il rivendicare quel che in effetti si è.

A questo, in teoria, dodicimila battute dopo l’inizio di questo mio dire, sarebbe arrivato il momento di introdurre il vero tema del giorno, e dico “sarebbe il momento” ben consapevole che in genere quel momento arriva assai prima di dodicimila battute, ma anche forte del fatto che questo è il mio diario, repubblica delle rose nella quale vigono le mie regole, se site ancora qui evidentemente rientrate tra quanti hanno deciso di aderivi ciecamente, o magari non ciecamente, ma comunque aderirvi. Sia come sia è arrivato il momento, e avendo io su detto che il discorso affrontato in senso lato avrebbe comunque riguardo la musica, il mio core business, oltre che la mia evidente passione, l’ho già fatto parlando genericamente d’arte e cultura, ma non è evidentemente a questo che mi riferivo, ora dovrei dare un colpo di reni e spostare radicalmente il discorso su un artista, un genere, il sistema, insomma dare a questo mio cianciare un senso compiuto.

Ecco, il senso di quel che volevo dire, che ho già detto, ma forse è il caso io lo ribadisca uscendo dal chiaroscuro del dire generico, è che la musica, anche la musica leggera, anche la musica leggera che tendenzialmente bolleremmo, bollerei, come musica demmerda, è arte.

Che sia buona o cattiva arte, questo è un discorso che non intendo affrontare in questa sede, lo faccio tutti i giorni, credo che la mia precisa visione della contemporaneità sia piuttosto esplicito, non c’è bisogno né di disegnini né di didascalie.

L’arte, per sua natura, so che farò rabbrividire galleristi, discografici e editori, non dovrebbe avere nulla a che fare col mercato. Certo, l’arte può farsi prodotto, quasi sempre accade così, ma trattare l’arte a partire dal mercato è un errore.

Perché è vero, sacrosanto, legittimo, doveroso riconoscere all’arte un valore, il valore che ha indubbiamente, motivo per il quale non pagare per il lavoro che c’è dietro l’arte, il lavoro dell’artista e, penso ai live, dei tanti professionisti che rendono possibile la realizzazione dell’opera d’arte, nello specifico il buon esito del concerto, ma il discorso può essere applicato al teatro, all’editoria, a tutta l’arte, è una aberrazione, aberrazione figlia proprio di quanto su raccontato, il filo color marrone che porta dal berlusconismo stile Drive In dritto dritto verso gli intellettualoni e i professoroni, passando per i “con Dante non si mangia”, sto procedendo armato di un affilato machete, mi perdonerete, ma di qui a considerare l’arte solo in virtù del posto che occupano nel mercato, sempre che ne occupino uno, beh, non è affatto corretto. Proprio perché il mercato, il ritratto dell’involuzione del nostro rapporto con la cultura ben lo dimostra, può essere influenzato in maniera determinante da fattori esterni, essere indotto e imboccato, a furia di mangiare i panini del fast food, è un fatto, ci disabitueremo a gusti più forti e naturali, al punto dal non riuscire a mangiare altro, trovando roba più genuina affatto buona al palato, lo stesso succede nell’arte, l’essere dentro il mercato in buon posizionamento, quindi avere un qualche consistente valore commerciale non implica anche avere un qualche valore artistico, avete presente il discorso sull’arte che può essere buona arte o cattiva arte, frase a effetto in genere appioppata a Dizzie Gillespie, ma come capita a quella sul non condividere le idee di qualcuno ma essere disposti a dare la vita perché questo qualcuno possa esprimerle con Rousseau, ne esistono tante versioni differenti, da Louis Armostrong al solito Frank Zappa.

Quindi ribadisco, l’arte per sua natura non dovrebbe avere a che fare col mercato, ma l’arte, a prescindere dal mercato ha un valore. Negare questo elementare assioma equivale a pensare che davvero aveva Tremonti, è lui il politico a aver pronunciato la nefandezza riguardo a Dante e all’impossibilità di mangiare con la cultura.

Per dire, sono giorni cupi, questi, la variante inglese che proietta strani spettri sulle pareti delle nostre anime, anime già affranti dal constatare che alla fin fine lo scambio tra l’avvocato del popolo e l’uomo della provvidenza potrebbe non essere poi l’ancora di salvezza in grado di tenerci in salvo dentro un porto sicuro, dovessi aggrapparmi per salvarmi dallo sconcerto in cui l’assenza di prospettive mi sta facendo annegare alla musica che il mercato mi indica oggi come validi, non avrei che da tirarmi un colpo alla tempia, la disperazione pronta a entrare in scena dando il cinque allo sconforto.

Fortunatamente, però, la musica di valore, l’arte, appunto, è lì a disposizione, balsamo capace di lenire qualsiasi dolore, o almeno di stordirci con la bellezza, i contorni agghiaccianti della realtà che sfumano. Per dire, io sto trovando quel che mi serve in questo momento preciso, mentre sto scrivendo queste mie parole, un certo funky italiano che è saltato fuori così, all’improvviso, da dentro un cassetto che non aprivo da un po’ nella mia memoria. Tutta musica, immagino, che al momento non sarebbe neanche disponibile in streaming, sicuramente non in commercio in versione fisica, ma lì, nella mia personale collezione di vinili e cd. È così che mi ritrovo a muovere il culo sull’ondeggiare sinuoso di Ma Che Idea Di Pino D’Angiò, brano incredibilmente attuale per suoni ancora oggi, il testo magari no, il politicamente corretto ammazzato già da quella voce arrochita dalla nicotina, un proto-rap, in realtà un recitato a tempo, che tanta scuola ha fatto non solo in Italia, datata 1979, seppur il successo lo incontrò poderoso solo l’anno successivo. Canzone che mi fa spostare dalle parti della elle, sì, ho gli album in ordine alfabetico sul cognome dell’artista, elle come Laccone Sergio, funambolo funky poi prestato ai suoni etnici, e onestamente abbastanza sparito dai radar, che nel 1990 ha portato a Sanremo, categoria Giovani, una strepitosa Sbandamenti, un brano alla Prince, tutto sincopato, funky di primissima grandezza, sfido chiunque a ascoltarla non lasciando che la mente si muova a tempo col culo, parafrasando zio George Clinton. Ultima tappa di questo trittico dello stordimento antidepressivo Il nuovo re dei Denovo, canzone potentissima uscita nel 1988, l’album che la includeva era Così Fan Tutti, con un Luca Madonia in stato di grazia, Mario Venuti a fare i cori. Ai tempi amavo talmente tanto la band di Catania, una sorta di incrocio in chiave italiana tra gli XTC di Andy Partridge e certe istanze beatlesiane che tanto hanno influenzato i Beach Boys di Brian Wilson, che appena i capelli hanno raggiunto la lunghezza giusta ho iniziato a portarli legati con una coda alta che raccoglieva solo i capelli davanti, esattamente come Madonia, seppur lui fosse liscissimo e io decisamente più riccio. Del resto il mio amore per Madonia, per i Denovo tutti ma per Madonia in particolare, ho avuto modo di esternarlo quando, esattamente venti anni dopo l’uscita di quel brano, ho avuto modo di invitarlo a esibirsi come ospite speciale nell’ultima puntata di Stasera niente MTV, programma condotto da Ambra Angiolini di cui io ero ideatore e capoprogetto, lì in compagnia degli Avion Travel, Luca Madonia e gli Avion Travel a MTV, non so se mi spiego, dopo Branduardi, Alberto Fortis, Drupi e la PFM, dopo dite che non meriterei almeno un Pulitzer. A Luca ho chiesto in quell’occasione di eseguire l’altra canzone dei Denovo che più di ogni altra adoro, brano più consono a questi tempi, a dirla tutta, ma decisamente troppo malinconica per sortire i risultati che vado cercando, Buon Umore, capolavoro assoluto incluso in quel gioiello che porta come titolo Venuti dalle Madonie a cercar Carbone, uscito nel 1989.

Che valore hanno oggi queste canzoni per il mercato? Canzoni la cui bellezza è stata capace di resistere a oltre trent’anni, e capaci ancora oggi di salvarmi dal baratro? Diffidate di chi è incapace di andare oltre un codice a barre, diffidate di chi guarda con diffidenza o, peggio, con sufficienza alla cultura e l’arte.