Moltheni ci lascia orfani e “Senza Eredità”

Quest' ultimo album inciso è un addio prima di lasciare definitivamente la scena, ma che porterà sicuramente un' insopportabile mancanza nelle nostre vite


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“Nella vendetta trovo piacere, come nel bere.”

Questi sono versi tratti dalla canzone degli Stella Maris che porta come titolo Quella Primavera Silenziosa, lo dico con la stessa perentorietà con la quale affermavo e affermo che S.U.N.S.H.I.N.E. è la più bella canzone rap mai incisa in Italia, una delle più belle canzoni pubblicate in Italia negli ultimi venti anni. Roba che la ascolti e ti chiedi se Umberto Maria Giardini, perché è Umberto Maria Giardini a cantare negli Stella Maris, non abbia superato in capacità di scrittura e interpretazione quella forma di malinconia dilaniante che siamo soliti identificare con il Morrissey epoca The Smiths, domanda retorica alla quale tenderei assolutamente a rispondere sì.

Il testo di quel brano sarebbe da riportare qui per intero, ma più che altro andrebbe inculcato anche con la violenza nella testa di chiunque voglia approcciare la forma canzone, per altro come buona parte della produzione del nostro, sia quando si firmava Moltheni, che da quando ha preso a pubblicare a nome proprio, su tutte Vita Rubina, una delle altre canzoni che possono ambire con Quella Primavera Silenziosa a entrare nel gruppetto ristretto di capolavori usciti in questa nostra landa desolata.

Se sono partito da questi versi, nei fatti di una canzone uscita ormai qualche anno fa, fresca la notizia di una prossima pubblicazione della band, ripeto, Stella Maris über alles, è perché la figura di Umberto Maria Giardini è sempre stata considerata “ostica” nel mondo della musica italiana, specie in quella che un tempo veniva chiamata “alternativa”, poi “underground”, infine indie, e Dio non voglia che io dica che Umberto Maria Giardini è indie, sarebbe come dire che Michelangelo è uno che faceva disegni sui margini dei fogli su cui prendeva appunti a scuola. Ostico perché è uno che non le manda a dire, probabilmente, o perché ha una personalità importante, quindi più difficile da trattare, ma forse ostico perché se ne è sempre sbattuto di voler compiacere gli altri, si intenda per altri sia il mondo della discografia sia quello dei suoi colleghi artisti, figuriamoci quello dei miei, di colleghi, gente che in buona parte faticherebbe a riconoscere un Do (cit.).

Questa frase tratta da Quella Primavera Silenziosa, quindi, mi sembrava particolarmente evocativa, oltre che piuttosto condivisibile, magari in questo le nostre comuni radici marchigiane, il nostro essere sempre e comunque outsider, ha facilitato una mia identificazione, e sia messo agli atti che io non bevo.

Avrei potuto cominciare prendendola ancora più alla larga, come in genere faccio. Sarei potuto partire parlando di me ragazzino, per finire poi, dopo lunghe dissertazioni costellate di aneddoti, arrivare alla pubblicazione dell’ultimo, ultimo in senso di nuovo e anche nel senso di definitivamente ultimo, senza un seguito, album a firma Moltheni, titolo quanto mai emblematico, Senza Eredità, sempre a proposito di ricercare a tutti i costi di farsi volere bene dagli altri, colleghi in testa.

Ho un racconto che farebbe al caso mio, in effetti, e come sapete, se siete tra quanti abitualmente mi leggono, quando ho un racconto non c’è nulla, ma proprio nulla nulla, che mi faccia tergiversare dal metterlo qui, nero su bianco. Sapete che tifo Genoa. Se non lo sapevate ancora, male, significa che non siete miei lettori abituali, non rientrate non dico tra i miei adoratori, ma neanche tra quanti mi leggono saltuariamente, pensa che vita mesta che avete condotto fino a oggi.

Tifo Genoa nonostante io non sia di Genova, né ligure, sono di Ancona e vivo a Milano, nonostante il Genoa, da che lo tifo ma anche prima che cominciassi a farlo, bambino delle elementari, non avesse vinto nulla, anzi fosse una squadra da medio o bassa classifica, io che venivo da una famiglia di juventini sfegatati, e la Juve, invece, vinceva eccome, nonostante essere outsider per natura sia una condizione che in genere si matura, o si riconosce e quindi si applica, un po’ dopo delle elementari. Nei fatti tifo Genoa per una faccenda legata al Subbuteo, l’ho raccontata anche troppe volte. Ho iniziato a giocarci da bambino, causa folgorazione avvenuta guardando Mario Kempes ai Mondiali di Argentina, quando cioè il Subbuteo è esploso in Italia.

Tutti volevano le squadre fighe, cioè quelle che vincevano, o quelle con le magliette fighe, come la Samp, io per spirito di eversione ho scelto il Genoa, la squadra davvero di Genova, e da quel momento ho sempre tifato per i Vecchio Grifone, regalandomi decisamente più dolori che gioie, più delusioni che esaltazioni.

Ai tempi, però, il mio giocare a Subbuteo portando sul panno verde una squadra non esattamente imbattibile nella realtà mi ha fatto sì esaltare, perché io a giocare a Subbuteo sono ben presto diventato piuttosto forte, e perché per altro chi giocava anche quotidianamente con me non poteva vantare la stessa capacità o lo stesso talento nel farlo.

Facevamo i nostri tornei e vincevo immancabilmente io, praticamente imbattibile per gli altri. Ogni tanto andavo anche a giocare con amici di amici, io, anche questo l’ho raccontato, vivevo con la mia famiglia in un quartiere un pochino più agiato di noi, eravamo andati a vivere a casa del Prefetto di Macerata, in via Veneto in Ancona, quando il terremoto aveva reso inagibile la nostra casa su per le scale di San Francesco, proiettandoci in un quartiere alto borghese, le case sfitte erano state prese in gestione dal comune, e questo fatto di andare a giocare a casa di bambini che poco conoscevo ma che sapevo essere comunque assai più ricchi di me e stracciarli inesorabilmente mi infondeva non solo una grande soddisfazione, ma instillava in me il concetto di riscatto.

Nei fatti, però, come direbbe Umberto Maria Giardini, “nella vendetta trovo piacere”, e io vedevo quelle vittorie esattamente in quel modo, vendette per qualcosa che io non avevo e credevo comunque di meritarmi.

Grazie al mio amico Stefano, un anno più grande di me, che aveva partecipato ben piazzandosi ai campionati nazionali, avevo iniziato a truccarmi le squadre.

Nei campionati seri lo facevano tutti, mi aveva detto, e gli avevo creduto. Lui, Stefano, è colui che, insieme ai fratelli Bartola, Paolo e Roberto, mi ha passato buona parte dei dischi internazionali che sarebbero andati a costruire il mio background culturale, dal punk al cantautorato americano, dal paisley underground alla new wave, come avrei mai potuto non fidarmi di lui?

Truccare le squadre era una cosa facile, si aprivano i pupazzetti usando la punta di un coltello, stando attenti a non spezzare le gambine del giocatore. Si faceva leva e si staccava. A quel punto si prendevano dei pesi da pesca, di quelli fatti per far stare l’amo a fondo, in genere di forma circolare, vuoti nel mezzo, come piccoli anelli, e si infilavano nel piccolo cilindro dentro il quale si sarebbe poi ri-infilato il corpo del pupazzetto. Poi si prendeva un po’ di mastice e si riempiva tutta la base, poi si appoggiava sopra il corpo del pupazzetto e il gioco era fatto. Questo era il trucco, avremmo avuto un pupazzetto che pesava quasi il doppio di prima, passando sulla base della sciolina, nel mio caso del legno vivo, perché io non ero alto borghese e non potevo andare a sciare, non sapevo neanche cosa fosse la sciolina, si sarebbe ottenuto il modo di far andare il pupazzetto in linea retta per tutto il campo con un piccolo tocco dell’indice, il Subbuteo era anche detto “il calcio in punta di dito”, non a caso.

Per rendere il tutto più spettacolare, poi, avevo cominciato a dipingermi da solo le squadre, la punta di uno stuzzicadenti come pennello e gli smalti da modellismo come pittura, andando non solo a fare le maglie esattamente uguali alle squadre originali, lo sponsor sul petto, il nome del calciatore sulle spalle, tutto quel che c’era da mettere sul resto del corpo, dagli scudetti ai marchi delle divise, ma li caratterizzavo esattamente per come i calciatori apparivano, mori, biondi, coi baffi, con le basette.

Le mie squadre erano bellissime da vedere, molto più di quelle che si compravano, e io ero uno dei calciatori più forti della mia città, sicuramente il più forte tra quanti conoscevo.

Stacco, proiezione in avanti.

2009. Moltheni si sta per ritirare dalle scene. Così, di punto in bianco decide che l’esperienza con quel nome d’arte è finita, forse, ma questo al momento non è chiaro, anche la sua carriera. Nel farlo, nel chiudere l’esperienza Moltheni, Umberto Maria Giardini rilascia interviste al vetriolo, nelle quali ne ha per tutti, dai discografici ai colleghi. Il suo addio è affidato a un doppio album, Ingrediente Novus, ma non è di questo che voglio parlarvi, l’ho già fatto a suo tempo, su Popon, rivista online dedicata alla musica italiana diretta da Paola De Simone.

Io conosco Umberto da quando ha esordito, dieci anni prima, con Narura in replay, perché all’epoca mi occupavo di curare una collana per la Mondadori di libri scritti da artisti provenienti dalla scena alternativi, artisti che ritenevo credibili anche come scrittori e che avrebbero potuto, questo l’intento dell’editore, portare lettori giovani verso gli Oscar, da sempre ai giovani destinati ma negli anni del berlusconismo un po’ appannati. Nella collana sono usciti Manuel Agnelli, i La Crus, Cristina Donà, Massimo Zamboni ex CCCP e CSI, Luca Morino, ma avevo contattato anche lui, Moltheni, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, e pure Francesco Di Bella dei 24 Grana, salvo poi non arrivare a una pubblicazione, Godano avrebbe pubblicato poi con Rizzoli, non per mio tramite. Lo avevo conosciuto a un concerto dalle parti del Politecnico, e ci eravamo sempre tenuti in contatto, anche quando poi era andato a Sanremo, per altro accompagnato da Mimì dei Massimo Volume e dallo stesso Agnelli.

Decido di intervistarlo, perché mi incuriosisce il suo attacco alla discografia e alla scena, attacco che per altro condivido già da allora. Parliamo del più o del meno, quando a un certo punto, non so perché, si finisce a parlare del suo lavoro, quello col quale campa, che non è quello del musicista. Dopo un trascorso con una major, ai tempi di Virlinzi, è infatti approdato a una indipendente, e un lavoro sicuro, in questi casi, decisamente aiuta. Il suo, di lavoro, è quello del vigile del fuoco, il pompiere. Ripeto, non so perché ma mi trovo a chiedergli perché abbia deciso di fare quel mestiere e soprattutto di continuare a svolgerlo, perché è vero che una sicurezza è una sicurezza, ma lui è sicuramente un nome con un buon seguito, anche a livello di live. È a quel punto che lui, Umberto, mi dice una frase illuminante, vi riporto, a memoria, il dialogo tra noi due.

Io: “Quindi sei ancora un vigile del fuoco, se non ho capito male, giusto?”

Lui: “Esatto, mi serve un lavoro che mi garantisca una sicurezza economica, e che mi consenta di coltivare la mia passione principale”

Io: “Certo, la musica.”

Lui: “No, che c’entra la musica, la mia passione è il Subbuteo. Io per quello lavoro, perché così poi posso giocare a Subbuteo senza patemi.”

Immaginate la mia sorpresa. Non solo e non tanto per la genialità di aver lasciato intendere, magari è stato un gesto naturale, che stesse parlando di musica, ma nello scoprire che anche lui, come me, era un appassionato di Subbuteo. Nel suo caso, questo dicevano quelle parole, un appassionato che ancora giocava a Subbuteo, io no lo facevo più da anni, da tantissimi anni.

C’ero giusto ricascato in una sola occasione, per altro con la benedizione di mia moglie, Marina. Era successo che nel mio quartiere, Città Studi, avessero organizzato una festa, le strade interdette al traffico, bancarelle e giochi per bambini. Una domenica alternativa, questa l’idea. In un bar, un bar che si trova all’angolo tra due delle strade principali di quel quartiere, campeggiava la faccia delle Zio Sam, quella che in genere si associa all’arruolamento nell’esercito, e sotto c’era scritto qualcosa come “Il Milan Club di Subbuteo vi invia a un torneo dimostrativo”. Dalle vetrine si potevano vedere i tavoli coi campi verdi. Al quinto o sesto passaggio proprio davanti a quel bar, ovviamente passaggi non casuali, Marina mi ha detto “Se vuoi entrare e giocare vai, ci vediamo dopo a casa”. Non le ho fatto finire la frase, sono entrato e un po’ emozionato mi sono messo a guardare i giocatori che si stavano sfidando nei tre campi. Uno di loro si è avvicinato e mi ha chiesto se avevo mai giocato. Gli ho risposto di sì, ma mi sono affrettato a dire che non lo facevo da una vita, che neanche mi ricordavo più le regole. La faccio breve. Mi ha invitato a giocare e l’ho stracciato su due partite, tre a zero, la prima, due a zero la seconda. Così. Lui era il presidente del club, e credo ci sia rimasto piuttosto male. Mi ha supplicato di entrare anche io nel club, dicendomi che presto sarebbero dovuti andare a Londra per giocare la Champions o qualcosa del genere, ma ho ovviamente rifiutando, tornando nell’ombra dalla quale ero momentaneamente uscito.

Tornando però a Moltheni, o meglio, a Umberto Maria Giardini, scoperta questa cosa ci siamo messi a parlare di Subbuteo, lasciando da parte la musica, e così abbiamo scoperto anche di aver giocato nello stesso torneo, dalle mie parti, a Palombina, forse anche uno contro l’altro, quando eravamo poco più che ragazzini. All’epoca avevo fondato un Club che avevo intitolato a Andrea Agostinelli, numero dieci dell’Atalanta, nato e cresciuto nella casa sulla quale si affacciava la finestra della mia cameretta, nel mentre avevo lasciato il quartiere dei ricchi per tornare nel più consono centro storico.

Fine dell’aneddoto.

Tutto questo per dire cosa?, si chiederà qualcuno.

Motheni è tornato sulla scena, l’ho accennato prima. È tornato con un nuovo album, Senza Eredità, che in realtà raccoglie, incisi per l’occasione, vecchi brani che non avevano a suo tempo trovato spazio nei dischi ufficiali. Una sorta di ultima chiamata, che per altro lascia fuori dei veri e propri classici, evidentemente destinati a non essere davvero mai pubblicati, penso a Marilena, brano sempre eseguito dal vivo, di una lancinante bellezza.

Moltheni quindi è tornato per dirci che non tornerà più, e in qualche modo per scrivere un epitaffio sulla musica che gira oggi, perché il confronto con la sua, confronto che non si dovrebbe mai fare, è davvero impietoso.

Senza Eredità raccoglie invece undici tracce che attestano, non ce n’era bisogno, ma a volte davvero ripete aiuta, giova, quanto alla nostra discografia manchi davvero tanto Moltheni. Intendiamoci, Umberto Maria Giardini ci è altrettanto necessario, non ho affatto dubbi a riguardo, ma è pur vero che nelle sue differenze, una pulizia di scrittura fuori dal tempo, volutamente fuori dal tempo, ostinatamente distante dai cliché che oggi stanno rendendo il cantautorato una questione da bambini, poca cura nella scrittura, nella ricerca dei suoni, scorciatoie sciatte che finiscono per rendere tutto così miserevole da farsi respingente, fosse possibile ipotizzare una sorta di schizofrenia artistica renderebbe le nostre giornate meno cupe di quante non siano.

Non perché le canzoni che compongono la tracklist di questo album immenso non siano cupe, lo è praticamente tutta la produzione di Umberto Maria Giardini, sotto tutte le sue multiforme vesti, ma è una cupezza che, in quanto arte, tende a sublimare il nostro lato oscuro, lasciando che sia lì, nelle canzoni, il solo luogo nel quale gli è consentito circolare, l’arte serve anche a questo, no?

Tempo fa, quando stavo sotto la direzione di Selvaggia Lucarelli a Rolling Stone è capitato che decidessi di esordire con un simpatico pezzo nel quale  perculavo, il giusto, la signorina Emma Marrone, da poco fuori con un pezzo che era la copia esatta di un brano di Bono e The Edge, il titolo qualcosa che suonava come “Torna Emma mettendo su una tribute band degli U2”. L’editore, uomo non molto avvezzo a occuparsi di musica, allora come oggi, andò su tutte le furie, al mio primo articolo, perché, diceva, aveva appena chiuso un accordo proprio con l’etichetta di Emma, e temeva che il mio pezzo lo facesse saltare. Mi dedicai allora a Tommaso Paradiso, non ricordo neanche più per quale suo singolo. Anche lì, l’editore andò nel panico, perché proprio Paradiso era il testimonial di non so quale campagna che vedeva RS come media partner. Ora, lasciando da parte l’imbarazzo di lavorare per una rivista che ha a che fare sia con Emma che con Paradiso, concordai con la Lucarelli di scrivere un pezzo “positivo”, così da far calmare almeno per qualche ora le acque. Scrissi, quindi, un pezzo di oltre trentamila battute, circa dodici articoli messi uno dopo l’altro, per gli standard della rete, che era una vera e propria analisi album per album proprio di Umberto Maria Giardini, partendo dagli esordi per arrivare fino agli Stella Maris, da un estratto del testo di un pezzo da cui questo capitolo del mio lock down è partito. Ovviamente l’editore andò anche in quell’occasione su tutte le furie, perché Umberto Maria Giardini non era abbastanza figo per Rolling Stone, e perché scrivere un pezzo così lungo in cui esaltavo così tanto un artista ritenuto poco in linea col giornale dopo che avevo stroncato due loro “amici” sembrava una provocazione bella e buona.

Lo era, in effetti, non perché io non pensi che Umberto Maria Giardini, a partire da Moltheni per arrivare agli Stella Maris sia una delle massime espressioni del nostro cantautorato, forse il solo artista di casa nostra che potrebbe ambire a essere ascoltato all’estero pur cantando in italiano da un pubblico che non pensi che Laura Pausini sia una grande artista, ma perché ho la malsana perversione di pensare che esaltare a dismisura un talento dopo aver distrutto altrettanto a dismisura chi di talento è sprovvisto sia un atto politico, e supportare Moltheni e la sua Senza Eredità, oggi, è qualcosa che chiunque abbia a cuore la musica dovrebbe assolutamente fare.

Estate 83, Ester, Il Mio Tempo, Sai Mantenere Un Segreto, Nere Geometrie Paterne, difficile davvero scegliere una canzone che possa indossare i panni del testimonial di questo lavoro che ha la rara caratteristica di suonare come un classico già a dopo pochi minuti dalla sua uscita.

Un grande regalo, questo che Moltheni ha deciso di farci e di farsi, anche se col pericolosissimo rischio che la sua cocente mancanza non solo torni a farsi sentire potente, ma diventi per noi davvero insopportabile.