Chi aggira le regole è assai più pop e omologato di chi le rispetta

L'eversione vera si ha solo quando si forzano i limiti, sovvertendo le formule che nel mentre sono diventate routinarie, pop


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È domenica. Vivo a Milano. Vivevo a Milano anche ieri, che ovviamente era sabato. Ci vivrò anche domani, lunedì, sempre che non muoia oggi.

Ma è domenica, sono vivo e sono a Milano. È a Milano anche tutta la mia famiglia, viviamo insieme e viviamo insieme qui.

Uno dirà, ok, vivi a Milano e ci vivi con la tua famiglia, quindi?

Niente, il fatto è che, stando ai social, e i social in teoria tendono oggi più che mai a essere la finestra che abbiamo sul mondo, specie oggi che in qualche modo la socialità ci è stata in parte negata, si è ristretta, meno possibilità a causa delle misure di contenimento, col tempo anche un po’ meno voglia, la pigrizia della tana, la paura, mettetela voi come meglio credete, il fatto è che, stando ai social, oggi, domenica, siamo tra i pochi milanesi, avrei mai pensato un giorno di definirmi così?, rimasti a Milano.

Zerocalcare, che a questo punto vorrei al posto di Franceschini come Ministro dei Beni Culturali e del Turismo in un governo guidato da Zlatan Ibrahimovic, sosteneva, parlando di sé, parlo del primo lock down, di avere a volte la percezione di essere come l’ultimo giapponese rimasto nell’isoletta sperduta del pacifico, quello, per intendersi, che ha continuato a difenderla anche anni e anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, senza che nessuno lo avesse avvertito che nel mentre era tornata la pace, tutti in giro a fare casino e lui tappato in casa, ligio al dovere e al buonsenso.

A tratti credo anche io di essere l’ultimo giapponese. L’ultimo giapponese sull’isola deserta con la propria famiglia, però. Noi siamo qui, che rispettiamo le regole, ci atteniamo alle indicazioni, seguiamo il buonsenso, cerchiamo di fare i bravi cittadini, quelli responsabili, parola che al momento sta subendo lo stesso trattamento subito in era Covid dalla parola “positivo”, solo che responsabile oggi equivale a essere Mastella o Scilipoti, comunque, noi siamo qui a fare i responsabili e nel mentre tutti stanno in montagna, a fare gite, al molti sciano, vanno al ristorante in teoria chiuso, si fanno i fatti prorpi.

Per dire, so per certo, lo so perché ho visto i video di persone che conosco, non su gruppi IG di tipo goliardico o robe del genere, che in alcune regioni si sono organizzati per sopperire alla assenza di skylift utilizzando Jeep 4×4 con cavi legati al gancio posteriore, una lunga fila di sciatori aggrappati alla bene e meglio per essere portati in alto, così poi da poter scendere in tutta agilità, vedi a volte il genio dove ti può portare. Roba che, a prescindere dall’aver aggirato le regole che vogliono la chiusura degli impianti sciistici e anche l’impossibilità di andare a fare gite fuori dal proprio comune a meno che non si vada in una seconda casa, non su una montagna a sciare, ma in una seconda casa, viola non saprei dire neanche quante norme che regolamentano la viabilità, il tutto in barba a controlli e divieti. E chissà quante altre simpaticissime trovate saranno state escogitate, noi in questo siamo famosi nel mondo, tutti avremo sentito le famose barzellette “c’è un italiano, un tedesco e un inglese”, nelle quali noi siamo quelli furbi che fregano gli altri, rigidi e poco inclini alle trovate fantasiose.

Ora, so che nel mio discorso c’è il fortissimo rischio di sceriffaggine, cioè di quella antipaticissima modalità che vuole chi rispetta le regole star lì con l’indice puntato verso chi, apparentemente o meno quelle regole non le rispetta. Qualcosa che tira in ballo la delazione, l’infamia del fare essere una spia, roba comunque poco consona a chi poi si definisce per sua natura non allineato.

Essere padre, e essere padre di figli maschi, io di figli ne ho quattro due maschi e due femmine, ma ora vorrei concentrarmi solo sui figli maschi, comporta un serio problema parlando di delazione. So che quanto sto per scrivere potrebbe aprire ampi dibattiti su un mio presunto sessismo, ma sto raccontando, non giudicando, e quando uno racconta una situazione e questa situazione ha anche a che fare col sessismo andrebbe preso per quel che è, una voce narrante, non confuso con chi questa situazione ha generato, nel tempo, o creato. Perché tra maschi, in genere, specie quando sei piccolo, i problemi si risolvono usando le mani. Sbagliato, lo so, ma è così. Chi non ricorre alle mani, non potendo in giovanissima età sull’arte oratoria, difficilmente la persuasione o la diplomazia entrano in campo prima di una certa maturità, in genere deve rivolgersi alle insegnanti, alle maestre nello specifico. Succede sempre così, quando tuo figlio torna a casa e ti dice che Tizio o Caio hanno alzato le mani, e magari te lo dice perché gli ha risposto, non potrebbe non dirtelo perché ha preso una nota o è stato sbattuto fuori dalla classe, faccio un esempio tipo, tu genitore devi assolutamente diventare molto serio e dire che non è con le mani che si risolvono i problemi, che bisogna essere civili e che se Tizio alzasse ancora la mani la sola soluzione è andare a dirlo alla maestra, ci pensi lei. Al più puoi dire che parlerai coi genitori di Tizio, contando sul fatto che il padre di Tizio è più piccolo di te, fisicamente, e ha comunque la faccia di uno che, in caso, attaccheresti al muro senza problemi. Sto ovviamente scherzando. Dici a tuo figlio che ha sbagliato, che avrebbe dovuto dirlo alla maestra, e magari lo metti pure in punizione. Mentre dentro di te avresti voluto solo sapere chi ha avuto la meglio e magari spiegargli che dare un calcio sulle palle è sempre la prima cosa da fare in questi casi, salvo poi colpire il naso di Tizio col ginocchio nel momento in cui il dolore per il calcio sulle palle lo avrà fatto piegare su se stesso. Volendo poi, un paio di calci ben assestati sulle costole, mai mirare alla testa, mi raccomando, e la faccenda non si ripeterà, perché ovviamente il tutto va fatto davanti agli altri, come monito futuro. La platealità di certi gesti è fondamentale, se serve potete anche spiegare loro la faccenda dell’albero che cade nella foresta senza che nessuno lo sappia. Non sono sicurissimo che anche ora io stia scherzando, sicuramente non sulle questioni tecniche, forse neanche su quelle comportamentali, ma voi fate finta di sì.

Dirlo alle maestre, questa è la soluzione, cioè essere dei delatori.

Tutti, da piccoli, abbiamo imparato quella stup

ida filastrocca su chi fa la spia, quella che tira in ballo Maria e il Diavoletto. Tutto vero.

Chi fa la spia è un infame, questo anni e anni di letteratura e film divorati ce lo hanno insegnato, gli inni da stadio che tiravano in ballo le lame pure, ma noi siamo lì a dire ai nostri figli di andare a dire tutto alla maestra.

Col risultato, poi, magari, che i nostri figli andranno a dire altro, magari che hanno sentito Tizio, sto Tizio è proprio una pezzaccia, dire qualcosa che non doveva dire, o che sempre Tizio, e chi se no?, ha fatto a qualcun altro qualcosa di sbagliato, non per spirito di giustizia, magari, ma per amore di delazione. Alla faccia dei tanti che pur di non fare la spia hanno dato la vita. Certo, in quei casi si trattava di difendere gli indifesi, qui di denunciare un torto, ma sempre di delazione si parla, e nell’incertezza io un paio di mosse di quelle che nella vita mi è capitato di usare in situazioni nelle quali parlare o fare la spia non sarebbe stato comunque praticabile gliele ho insegnate, poi facciano loro.

Abbasso i delatori, quindi.

E abbasso anche gli sceriffi.

A me gli sceriffi, quelli allegorici che fanno la spia come quelli dei film western, a tutelare la legge salvo non far mai le pulci ai potenti, solo a quelli che si dimostravano banditi a partire dal look, non sono mai stati simpatici, sempre fatto il tifo per i banditi, almeno nei film.

Per dire, quando con Marina abbiamo visto, parlo del primo lock down, periodo nel quale abbiamo fatto il nostro felice e ritardatario incontro con Netflix, La casa di carta, non ho avuto dubbi su per quale delle due parti toccasse fare il tifo, al punto che non ho neanche pensato ci fossero davvero due squadre tra le quali scegliere, Bella ciao, le maschere di Dalì, le gesta eroiche e geniali, il fascino sfacciato di Rio, quello  conturbante di Nairobi, lo scaltro pensiero del Professore, era ovvio che si doveva stare dalla parte dei banditi. Marina, che ha un senso della morale un po’ più sviluppato del mio, credo, e che comunque è meno avvezza a studiare lo storytelling in tutte le sue sfumature, nella vita si occupa di altro, ha invece sempre fatto il tifo per la polizia, anzi, siccome la polizia nella serie in questione, è impresentabile e quando finalmente prende dei contorni riconoscibili li trova nel volto tagliente e psicopatico dell’ispettetrice Sierra, l’ispettrice Murillo è ambigua sin da subito, nessuno può prenderla seriamente in considerazione come una che stia in tutto e per tutto dalla parte della legge, lei, Marina, ha deciso di non tifare per nessuno, segue la serie ma detesta tutti, fa il tifo, credo, per un meteorite che spazzi via quella manica di irresponsabili.

Quindi confermo, gli sceriffi mi sono profondamente ostili, ciò non di meno in questo momento mi sento confuso.

Non starei mai qui a postare foto di gente che si fa gli affari suoi, anche se li facesse sotto casa mia, durante questi mesi è stato pieno di gente che si faceva gli affari propri anche sotto casa mia, abito in una zona densamente popolata e anche piuttosto di passaggio, ma la delazione proprio non la sopporto, ma sapere che mentre noi ci atteniamo alle regole c’è una stragrande maggioranza silenziosa, manco tanto silenziosa, anche composta di gente cui voglio bene e che stimo, che se ne va in montagna, a zonzo fuori città, la zona arancione prevede che tu non possa spostarti fuori dal tuo comune, a meno che tu non stia andando nella seconda casa, e molti di quelli che ho visto non sono nella loro seconda casa, lo dico con cognizione di causa, li conosco, so di chi parlo, ecco, vedere questo “facciamoci gli affari nostri” come qualcosa che mi destabilizza.

Sono scemo io, e con me la mia famiglia, o sono irresponsabili loro?

O peggio, sono scemo io e sono loro quelli normali?

Perché non voglio pormi domande che comprendano nella domanda stessa la risposta, domande retoriche si dice tecnicamente.

Ovviamente, questo essere rispettoso delle regole, anche di quelle che ritengo ingiuste e stupide, e di conseguenza questo mio imporre il medesimo rispetto delle regole anche ai miei figli, ne ho una maggiorenne, la prima, ma vive in casa con me, le regole sono le medesime per tutti, finché si vive sotto lo stesso tetto, mi pone dentro un ulteriore dilemma.

Come posso dire ai miei figli di rispettare le regole, anche quelle stupide, per un bene comune, perché se le regole sono atte a contenere un virus è bene rispettarle abbuonando a chi quelle regole le ha scritte tutti gli errori plateali fin qui commessi, concedendo quindi loro un supplemento di fiducia cieca, come posso dire ai miei figli di rispettare le regole, anche quelle stupide, per un bene comune se poi loro, come me, più di me, perché sono nativi digitali e i social li sanno usare decisamente meglio di me, seppur io coi social ci lavori e loro no, come posso dire ai miei figli di rispettare le regole, anche quelle stupide, per un bene comune se poi loro vedono che a rispettare quelle regole siamo solo noi? Lasciamo da parte la follia della marea di deroghe previste per qualsiasi regola, un modo molto italiano di permettere di aggirarle, dando quindi parvenza di essere sul pezzo, di tenere  il pungo di ferro, quando in realtà si sta bellamente invitando tutti a trovare la propria formula per farsi gli affari propri, il punto è proprio non seguire le regole, andare per la propria strada, perché siamo dentro casa da troppo tempo, perché se sono in montagna a chi farò mai di male, perché oltre alla salute fisica c’è quella mentale, e via discorrendo, deroghe non scritte ma su cui ognuno di noi può agilmente lavorare facendo ricorso a una quantità minima di fantasia.

Mai avrei pensato in vita mia di essere esempio di ligia adesione alle regole, neanche se me lo avesse detto l’Arcangelo Gabriele in sogno. Di essere un coglione, invece, ho più volte avuto sospetto, molti me lo fanno notare come in un mantra, ora ne ho conferma.

Se ora volessi aprire il capitolo “chi è che diceva che sarebbe andato tutto bene?”, lo so, avrei messo in pratica una qualche forma di scorrettezza nei confronti del lettore. Certo, una scorrettezza di minore entità rispetto a quelli che si fanno gli affari propri violando le regole, perché uno può sempre non leggermi e perché in generale chiunque scrive decide di utilizzare trucchi e trucchetti che, appunto, sono ferri del mestiere, mica armi detenute illegalmente, caspita, sto proprio passando dalla parte della legge, salvatemi, ma pur sempre una scorrettezza. Ho cioè costruito una narrazione, minima, non è che ci sia questa gran trama, atta a farmi alzare una palla che ora, agevolmente, potrei schiacciare, facendomi bello di un gesto atletico tutto finzione. Una sorta di riproposizione plastica di uno di quei tiri alla Holly e Banji, la palla che rimane sospesa per un lasso di tempo lunghissimo, salvo poi essere colpita e partire con una traiettoria che neanche Roberto Carlos quando azzeccava la punizione giusta, solo che lì era sempre così.

Non andrà tutto bene, non è andato niente bene, ma questo è talmente un dato di fatto che parlarne sarebbe come fare quei discorsi da pensionati che guardano i cantieri lamentandosi come una volta certi lavori venissero fatti con più perizia.

No, niente di tutto questo. Preferisco concentrarmi invece, iniziando a parlare di musica, proprio del rispetto o non rispetto delle regole. E non voglio certo parlare di violazione delle leggi, di questo mi sono occupato, saltuariamente, in passato, con le mie inchieste. No, oggi parlo proprio di regole formali, di musica, e parlando di musica e quindi di artisti, magari dimostrare come il non voler rispettare la legge e il non volerlo fare platealmente, comportamento che diviene posa, possa a suo modo diventare parte dell’immaginario, ma sempre dentro determinati canoni, anzi, dentro canoni anche piuttosto rigidi, quindi perfettamente dentro le regole formali.

La musica è matematica, ne parlavo settimane fa. È matematica il ritmo, è matematica l’armonia, è matematica la dinamica. È matematica, quindi, anche quella musica che in apparenza va contro questi principi, la cacofonia, il noise, il punk, il rock. L’idea di poter fare musica senza conoscerla, l’idea che una improvvisazione sia in effetti una improvvisazione, è più parte di una scelta comunicativa che una pedissequa adesione al vero, è narrazione. Magari anche in buona fede, intendiamoci. L’essere inconsapevoli di aver risolto una equazione complicatissima, per altro, facciamo finta di essere in una scena di uno di quei film su certi geni come A Beautiful Mind o Will Hunting, non rende quell’equazione complicatissima meno equazione, rende semmai noi personaggi naif, come quelli di quei film lì, forse anche un po’ più che naif, borderline e oltre il border.

Era già capitato nel mio primo diario, quello del lock down primaverile, capita ancora, non posso sempre far finta di niente. Adesso, esattamente adesso che state leggendo sto per fare qualcosa che, ai miei occhi, e in generale agli occhi di chi si occupa di editoria, ha del prodigioso, lasciatemene vantare: sto per raggiungere i quattro milioni di battute con un testo, un diario, fatto che esula da qualsiasi normalità, quindi che simula in tutto e per tutto il motivo che ha spinto alla sua nascita. Ecco, ci siamo. Quattro milioni di battute, seicentosessantacinquemiasettecentotrentasei parole. Andiamo avanti. Torno a parlare di musica, e di regole.

Tutto in musica è quindi matematica, ripeto, col che non voglio certo devastare un immaginario fatto di ispirazione, emozioni, pelle d’oca e lacrime agli occhi. Anche il cuore, quello che cantiamo nelle canzoni d’amore e leghiamo indissolubilmente al concetto di amore è in fondo fatto di carne e funziona né più né meno che come una pompa, complessa e a due camere, ma pur sempre una pompa. Quindi è tutta matematica, ma quella matematica può coinvolgere anima, cuore, cervello e stomaco. Ma resta la matematica.

Quando quindi crediamo che certa musica che ci fa scatenare, che associamo non solo per i testi ma anche per lo stile e la forma a un’idea piuttosto precisa di eversione, di anarchia, di distruzione, anche, stiamo semplicemente nutrendo una nostra parte ingenua e anche credulona, che preferisce pensare che noi siamo diversi dagli altri, siamo fuori dalle regole, siamo contro tutto e tutti. Se  a questa musica, poi, associamo anche un immaginario in qualche modo delinquenziale, beh, il gioco è fatto, siamo letteralmente degli antagonisti, gente che è un attimo che infili una maschera di Guy Fawkes e un mantello e vada a far saltare Palazzo Chigi.

Nei fatti la situazione è assai differente.

Non è alzare il volume, distorcere uno strumento, suonare anche maluccio e comunque non inseguire un passaggio radiofonico o un facile successo di classifica che farà mai di una canzone, di un album, di un’opera d’arte qualcosa di realmente rivoluzionario e sovversivo. Pensare che il pop sia in questo più rassicurante di certo rock o rap è qualcosa che andrebbe punito con il pubblico ludibrio, tipo che ti infilano in una gogna e lasciano che la gente ti derida magari prendendoti a calci nel sedere.

L’eversione, sempre che si guardi all’eversione come qualcosa di positivo, io per mia filosofia personale tendo a farlo, avviene nel momento in cui, più o meno consapevolmente, si affrontano i canoni e le regole e si prova a muoversi dentro quell’alveo forzandone i limiti, spostandoli altrove, cercando e trovando soluzioni inedite, veicolando messaggi antisistema, quelli sì che possono essere eversivi, andando sempre e comunque a sovvertire una formula che nel mentre è diventata routinaria, ma facendolo con una idea precisa di dove questa formula rivisitata possa portarci, magari anche del perché dovrebbe portarci altrove.

Questo implica, la musica rock è stata nei decenni, quasi settanta, un susseguirsi di passaggi da una casella alla successiva, con alcuni strappi significativi, penso al beat, al punk, al rap, alla techno, una sorta di continuo ridisegnare i confini del mondo conosciuto, come fossimo cartografi alla scoperta del West, un teorico ogni tanto a dichiarare la nuova formula, giusto il tempo di fermarla su carta che era già il momento di pensare a qualcosa di nuovo, di rivoluzionario, di altro.

Stare alle regole, quelle già fermate precedentemente, quelle cristallizzate, equivaleva, è sempre stato così, a essere “vecchi”, reazionari, oggi direbbero boomer. Anche se chi andava altrove lo faceva senza saperlo, per spirito di distruzione, o più semplicemente per giovanilismo.

Sapete già dove sto andando a parare, dai, non fate i finti tonti.

Lo sapete e, per una volta, il vostro saperlo sarà appagato dai fatti, voi che quando guardate un thriller non capite chi è l’assassino neanche se vi fanno vedere l’omicidio chiaramente, stavolta avete capito la fine della storia, e non verrete smentiti dai fatti.

Oggi, dopo una buona porzione di anni nei quali quel meccanismo di passaggio di casella in casella si è interrotto, è da quasi venti anni che la musica non ci presenta un nuovo “genere”, c’è chi sostiene addirittura venticinque, indicando nel grunge la fine di questa consuetudine, sempre che il grunge sia un genere in sé, verrebbe da dire che è nel rimanere su binari già rodati che sta la vera rivoluzionarietà, sempre che si dica così, che è cioè nel guardare indietro il solo modo per non stare nell’omologazione imperante, parte di un coro che in quanto coro non ha modo di scandire bene nessun pensiero preciso, finendo spesso per dimostrarsi solo alzata di voci di accompagnamento, di sfondo.

Non forzare quindi fintamente le regole, torno forse a parlare dei weekend passati in città o quelli passati di straforo in montagna, tanto nessuno controlla, e se qualcuno dovesse controllare potremmo sempre accampare scuse, trovare la deroga che fa al caso nostro, ma provare a seguire il buonsenso, rimanendo lucidi e quindi vivi mentre tutti intorno sembrano essere vittime di uno scalmanato bisogno di credersi liberi. Ecco, sappiatelo, potrete anche essere all’aria aperta, o potete cantare di bottiglie e privè, ma siete proprio pop e omologati, altroché liberi e punk.