Silvia Oddi, un mash-up tra Wendy Melvoin e Harley Quinn

Nel 2021 per il mio decimo anniversario di Anatomia Femminile, auspico che Silvia possa dare corpo alle sue canzoni, tra le più interessanti circolate negli ultimi anni


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Mi capita di pensarci spesso. Molto spesso. A volte credo troppo spesso.

Mi capita di pensare a come era la mia vita prima del Covid, quindi suppergiù come era la mia vita, dieci, undici mesi fa. E mi capita di chiedermi se prima o poi ritornerà a essere uguale a quella, o almeno a avvicinarcisi.

Ci raccontiamo spesso che se abbiamo fatto qualcosa a lungo poi riprendere diventa naturale, spesso facciamo l’esempio della bicicletta, se hai imparato a andarci, se lo sapevi fare, basta saltarci su, anche a distanza di anni, e riparti subito come niente fosse. Quindi ripartire, quando ci sarà permesso di farlo, e uso non a caso il termine “permesso”, da una parte per ironizzare su certe uscite fuori luogo di alcuni politici, Di Maio in testa, dall’altro perché è evidente che al momento, vuoi per DPCM, vuoi per buonsenso, un sacco di cose non ci sono permesse, praticamente tutte quelle che rappresentavano la parte consistente del mio lavoro prima del Covid, per questo posso dire che quando ci sarà permesso di ripartire il ripartire dovrebbe venirci naturale, pronti via, ma non sempre credo che le cose siano semplici come ce le raccontiamo.

Ho una famiglia numerosa, per fare un esempio, siamo sei, noi, più mia suocera, che vive buona parte dell’anno con noi, sette. Ho quindi una macchina piuttosto grande, una monovolume da sette posti. Ce l’avevo anche prima dell’arrivo dei gemelli, che hanno portato la nostra famiglia alla condizione di famiglia numerosa, prima dell’arrivo dei gemelli quando mia suocera veniva ogni tanto a passare qualche settimana da noi, e quindi tecnicamente eravamo solo in quattro. Ce l’avevo perché vivo a Milano ma ho i miei cari a Ancona, e a Ancona ho sempre passato parte delle vacanze, tutte quelle di Natale, quest’anno è stato il primo in cui questa consuetudine è venuta meno, per i motivi che conosciamo, e parte delle vacanze estive, avere una macchina che consentisse di caricare tanti bagagli, magari anche le biciclette dei bambini, ci era parsa sin da subito una buona idea.

Comunque ho una monovolume da sette posti, ho una monovolume, non sempre la stessa, diciamo che guido una monovolume da quindici anni. Anni fa la mia vecchia monovolume ha avuto un guasto ai tergicristalli, si è fuso il motorino che li fa azionare. Sembra una sciocchezza, ma parliamo di un guasto da quasi mille euro, grandi macchine grandi spese direbbe Stan Lee, e soprattutto, grande casino a trovare i pezzi di ricambio, perché la macchina in questione era vecchia e soprattutto di un marchio che nel mentre era stato acquisito da un altro marchio. La faccio breve, trovo un ricambio usato del motorino del tergicristallo, a un’ora circa da Ancona, a Fossombrone. Lo prenoto online e vado a prenderlo con la macchina di mia suocera, una utilitaria. Viene con me mio padre, per farmi compagnia. Bene, passare dal guidare una monovolume, pensate solo che lì sei a circa settanta centimetri da terra col sedile al guidare una utilitaria, specie nel tratto in autostrada, coi camion che ti spostano la macchina se ti superano, è stata un’esperienza terrificante. Non ci ero più abituato, nonostante io avessi guidato utilitarie per buona parte della mia vita da patentato.

Per la cronaca, poi, a vendermi a un prezzo decisamente vantaggioso rispetto a quanto lo avrei pagato fosse ancora disponibile sul mercato quel motorino è stato un maghrebino che non solo aveva la mia stessa auto, ma in garage, era una casa singola di campagna con un garage paragonabile a un qualsiasi bilocale di Milano, in termini di metri quadri, aveva smantellato pezzo per pezzo almeno altre due macchine del nostro modello, avendo così a disposizione per sé e per chi ne avesse bisogno, era il mio caso, tutto l’occorrente. Quando ho comprato la macchina nuova, tre anni fa, il concessionario si è ripreso la mia vecchia indietro. Una monovolume che aveva fatto oltre trecentomila chilometri, il motore ancora perfettamente funzionante, ah le auto tedesche di una volta. Sono sicuro che al momento quella macchina stia ancora circolando da qualche parte, con a bordo un’altra famiglia numerosa come la mia, i pezzi di ricambio comprati online da qualcuno come il tipo di Fossombrone.

Torno a quell’esperienza terrificante, quindi. Al passare di colpo dal guidare una macchina grande, pesante su strada, allo stare al volante di una utilitaria, leggera e piccola.

Ora, non voglio certo star qui a tirare su paragoni tra la mia vita precedente il Covid e il guidare una utilitaria, anche perché in caso starei a dire che stare chiusi in casa, impossibilitati a incontrare gente, a lavorare normalmente e spesso anche proprio a lavorare, i figli che non vanno a scuola e fanno la DAD, la spesa grande da fare per evitare di stare troppo tempo e troppo spesso in giro, sia paragonabile al guidare una comoda monovolume, sarei un idiota e credo e spero di non essere un idiota.

Volevo solo dire che non sempre ci si riabituata così velocemente a qualcosa che per lungo tempo ci è stato familiare. Anche quando l’oggi ci presenta davanti un menu meno entusiasmante, quando ero nel pieno della mia dieta, sono ancora in dieta, ma dopo due anni più che una dieta è un nuovo regime alimentare, quando però ero nel pieno della dieta, nei primi mesi, quando mai mi fosse capitato di mangiare di più, o quelle cose che la dieta mi impediva di mangiare, soprattutto i dolci, il fisico aveva una reazione di rigetto, comunque di malessere, e io adoro i dolci, per dire.

Pensate di tornare a vivere a casa coi vostri genitori, se siete adulti che non vivono più in casa coi vostri genitori. Chiaro che vi farebbe piacere condividere con loro dei momenti, tornare a una intimità che col tempo è stata sostituita da un tipo diverso di affetto e di amore, il pudore che in qualche modo ha tirato su un muro, toh, un muretto tra voi, ma ritornare a rispettare regole che al momento vi sembrerebbero assurde, orari che non sono i vostri, spazi che non sono i vostri, perché è ovvio che a casa vostra vi siete organizzati certo come potevate, ma anche come volevate, beh, vi risulterebbe sicuramente difficile, forse anche impossibile. Poi nella vita ci si abitua a tutto, è chiaro, lo stiamo vivendo sulla nostra pelle, e se facessi esempi estremi, un tempo avrei citato Alex Zanardi, finirei per immergermi in un becero populismo da quattro soldi, perché la vita non è fatta di atti eroici e quasi sovrannaturali.

La normalità non è esattamente abituarsi a una anomalia, altrimenti non useremmo questi due termini, normalità e anomali, per indicare cose agli antipodi.

Mi capita quindi di pensarci spesso. Molto spesso. A volte credo troppo spesso.

Mi capita di pensare a come era la mia vita prima del Covid, quindi suppergiù come era la mia vita, dieci, undici mesi fa. E mi capita di chiedermi se prima o poi ritornerà a essere uguale a quella, o almeno a avvicinarcisi.

Ora, messi da parte i ragionamenti, per altro già fatti qui a voce alta, già scritti sulle pagine di questo diario del lock down, intorno al concetto di “era meglio la nostra vita prima?”, “siamo sicuri che vorremmo tornare alla nostra vita di prima?”, “questa situazione di empasse non dovrebbe farci ragionare sul rivedere la nostra vita precedente?”, ragionamenti pertinenti, li ho fatti anche io, ma non attinenti a quello di cui voglio parlare oggi qui, il punto è che mi chiedo come questo anno stia impattando sul nostro modo di confrontarci con la vita, noi e i nostri cari.

Stiamo leggendo tutti, chi con più interesse chi con meno interesse, studi e pareri riguardo quanto la DAD, la didattica a distanza, stia colpendo duro gli adolescenti, abbiamo letto pareri quasi tutti omogenei e concordi nel sostenere che la pandemia ci avrebbe poi riconsegnato una intera generazione con serie difficoltà a socializzare, per ora la sola forma di socialità che è permessa teoricamente loro è quella virtuale, tramite device, sottolineando in coro come la scuola, non fatemi usare quell’orrore che è il dire “la scuola in presenza”, è anche una palestra di vita, il luogo nel quale ci si abitua a relazionarsi con l’altro, senza il materasso, materasso che a volte è più un capestro, della famiglia.

Tutti pareri di esperti, ovviamente, e tutti atti, più o meno, a puntare a una riapertura delle scuole superiori, faccenda rispetto alla quale ho tanti, troppi dubbi, perché so bene che il problema riguardo la riapertura delle scuole è altro, sono altri, dai trasporti alla gestione dei riscaldamenti.

Tutti pareri che, immagino, partano dal constatare una fragilità pregressa nei nostri adolescenti, esattamente come fragile era il sistema scolastico prima di impattare con la pandemia, per altro, motivo che fuga decisamente tutti i confronti con le generazione anche troppe volte citate dei nostri nonni, di chi ha fatto la guerra, di chi è sopravvissuto a situazioni di analogo pericolo e segregazione anche in assenza di device e mondo virtuale. Il tutto tralasciando la baggianata immensa del voler evocare una ulteriore divaricazione del delta tra agiati e disagiati, perché è ovviamente sacrosanto lamentare come la DAD fatta in un contesto di benessere, device e banda larga a disposizione, contesto familiare adeguato intorno, casa ospitale e con spazi adeguati per ognuno sia ben altra cosa rispetto a chi tutto ciò non può vantare, discorso che valeva per i vari #IoRestoACasa sbandierati da ricchi vip nelle loro ville e che dimostra come non siamo affatto tutti sulla stessa barca, quanto semmai tutti sullo stesso mare in tempesta, chi a bordo di una bagnarola arrugginita chi su un transatlantico, ma è anche vero che chi vive in un contesto agiato viveva tutta un’altra vita e quindi tutta un’altra scuola anche prima della DAD, non nascondiamoci dietro un dito e dietro la leggenda della scuola capace di superare il gap sociale che vuole la nostra società sempre divisa tra ricchi e poveri e con il dislivello tra le due categorie che si fa anno dopo anno più ampio, altro che Covid.

Mi chiedo comunque come questo anno stia impattando sulla nostra vita, quindi.

Mi capita di pensarci spesso. Molto spesso. A volte credo troppo spesso.

Non so se succede anche a voi, ma tendo a stancarmi molto più facilmente di prima.

Esco per andare a fare la spesa, nel mio caso fare la spesa è operazione complessa, siamo in sette, parliamo di almeno due, tre carrelli al supermercato, quindi, visto che la faccio da solo, due o tre giri al supermercato, con tappe nel mentre per infilare i prodotti comprati nelle bustone riutilizzabili, lì davanti al bagagliaio della macchina nel parcheggio, e poi via, di nuovo dentro. Diciamo che il tutto mi porta via un’ora e mezzo, due al massimo. Torno a casa e sono sfinito, neanche avessi corso a una di quelle maratone che sono la passione di Linus. Boccheggio, ho mal di testa, mi mancano le forze.

L’altro giorno sono andato a ritirare due raccomandate alle poste, per dire, operazione che non facevo dal 2019, a occhio, di andare alle poste, arrivando presto perché sapevo che c’è sempre coda, la filiale si trova non troppo lontano da uno dei supermercati presso i quali faccio la spesa di cui sopra. Ci ho messo un paio d’ore, perché ogni volta che stava per arrivare il mio turno arrivava qualcuno che aveva appuntamento, non essendo un assiduo delle poste neanche sapevo si potesse prenotare il proprio appuntamento. Due ore passate in piedi, al freddo, fuori dell’ufficio postale presso il quale finiscono le raccomandate della mia zona, non proprio dietro l’angolo, ma neanche troppo lontano. Due ore passate a debita distanza dagli altri che come me erano in coda, a due persone di distanza da me, dopo di me, per dire, c’era una tizia, credo fosse delle Filippine, a occhio, che ha passato tutto il tempo a ridere come una pazza guardando video tratti da programmi di Signorini e Maria De Filippi, intervallati da spezzoni di film di Checco Zalone, per dire, qualcosa che ai miei occhi avrebbe anche potuto avere un interesse di tipo antropologico, dal momento che mi sono spesso chiesto quale fosse il pubblico di riferimento di quei programmi, programmi che però, per pigrizia, non ho mai seguito, pigrizia mista a spocchia, credo di poter onestamente affermare.

Bene, dopo quelle due ore sono tornato a casa provato come neanche dopo una settimana di lavoro a Sanremo, e per me una settimana di lavoro a Sanremo è qualcosa di titanico, come una gara olimpionica di Decathlon, probabilmente molto di più, non so come si chiamano quelle prove di forza tutte corse in mezzo al fango, alberi da scalare, strapiombi da affrontare camminando sospesi sul vuoto sopra una corda logora, ma ci siamo capiti.

Sono stanco, e lo sono perché nel mentre ho praticamente smesso di fare quell’attività fisica che per me, refrattario a ogni forma di sport che non contempli lo scontro fisico e un pallone da colpire coi piedi, equivaleva a lunghe, lunghissime camminate per la città, una media di dieci chilometri al giorno, ma sono stanco anche perché stare sempre nello stesso posto mi spossa, specie se il posto è quello nel quale lavoro, mangio, dormo, passo le serate, i weekend e, new entry, anche le vacanze natalizie. Poi, sia chiaro, sono una persona dotata di senno, sono un privilegiato che abita in una casa spaziosa, con gli spazi giusti, la mia barca è congrua al numero di persone che questa barca affollano, ma la spossatezza resta. Forse più fisica che mentale, vallo a sapere, ma nei fatti mi ritrovo spesso a boccheggiare dopo aver passato qualche sparuta ora fuori di casa, incapace di ricordarmi come facessi prima del Covid a passare così tanto tempo in giro, spesso per altro sottoposto a pressioni, quali parlare in pubblico, magari davanti a un microfono e una telecamera.

Mi capita quindi di pensarci spesso. Molto spesso. A volte credo troppo spesso.

Mi capita di pensare a come era la mia vita prima del Covid, quindi suppergiù come era la mia vita, dieci, undici mesi fa. Senza star lì troppo a soffermarmi su cosa ci ha riservato il futuro, sia quello prossimo che quello di là da venire.

Penso a ieri e mi rendo conto che, salvo credo cinque o sei occasioni, sporadiche, rarefatte, un paio di riunioni fatte coi miei collaboratori, una visita a Red Canzian nel suo studio, per ascoltare il suo bellissimo progetto Casanova, un’intervista fatta a debita distanza e munito di mascherina con Francesco Bianconi, a settembre, una serata sul palco con Tosca, nella mia Ancona, questa estate, io a intervistarla, lei a rispondermi e cantare, un incontro di persona a Bologna con Cesare Cremonini, quando Let Them Talk era um progetto lì lì per cominciare, l’ultima volta nella quale mi sono ritrovato a svolgere il  mio lavoro in presenza di altre persone, di molte altre persone, di moltissime altre persone è stato proprio al Festival di Sanremo, l’Attico Monina che in questa sede avete avuto modo di seguire pieno in ogni ordine di posti di persone.

Fatemelo ricordare, fatelo per me: oltre una quarantina di persone fisse, questo prevedeva la giornata tipo di Attico Monina, tra registi, tecnici, i cuochi dell’Osteria di Rendola, Franca e Massimiliano, e poi Roberto Prosdocimo e Federico Lanzani, i fotografi artisti di F31 col loro team di collaboratori, gli artisti residenti, l’Orchestra Do Moon di Giuliano Gabriele con le loro sonorità folk e world e i loro ospiti hanno ridisegnato le canzoni degli artisti in gara, il Team Mirò coi loro inediti freschi e contemporanei, Lilith Primavera e Giuditta Sin a portare la loro ventata di sensualità con la loro musica e performance, sigle uniche e invidiatissime, ovviamente io e Mattia Toccaceli, mio partner in crime nel condurre il tutto, i The Loops, che la messa in onda di Attico Monina su OMTV.it hanno realizzato, Rosa Bulfaro di Mirò Music School che ne ha curato la logistica, la squadra di RTL 102,5, che ha permesso la diretta serale che mi vedeva ottima compagnia di Mara Maionchi e la Gialappa’s, coadiuvati da Laura Ghislandi e Gigio D’Ambrosio, più gli artisti di passaggio e quelli in gara al Festival, con i loro accompagnatori, gli uffici stampa, i manager, i personal, le impagabili artiste del Festivalino di Anatomia Femminile, cantautrici orgoglio mio e della musica italiana tutta, anche qualche sporadico spettatore, i vicini di casa ci hanno legittimamente chiesto di poter assistere a qualche sprazzo di intervista, incuriositi dalla varia natura che ha per una settimana frequentato il palazzo, cinquantadue ore di diretta in cinque giorni di Festival, qualcosa come neanche dieci ore dormite in una settimana, oltre settanta persone passate sui nostri schermi, un progetto ambizioso, certo, ma vitale e vivido.

Ecco, io sono passato da tutto quello al lock down, a Milano le scuole hanno chiuso verso il finire di Febbraio, la pandemia è partita proprio da qui, e con la pandemia le prime paure, immerso in mezzo a un folla colorata e cantante, sempre sul pezzo, ritmi pazzeschi tenuti come se niente fosse, un maestro shaolin capace di tenere testa a un delirio di massa, e subito dopo in ciabatte e tuta da ginnastica a sentire i vicini cantare dal balcone, il mio solo problema capire se il lievito sarebbe prima o poi tornato sugli scaffali.

Se ci pensate, cosa che potrebbe almeno per la seconda parte venirvi ben naturale, perché quella condizione l’abbiamo vissuta tutti insieme, e in parte la stiamo vivendo ancora, è qualcosa di scioccante, dalla quale difficilmente ci si dovrebbe poter riprendere.

Ma siccome sono pur sempre il ghepardo di una volta, e non mi va di lasciarmi andare a rammarichi o rimpianti, l’idea di star qui a rimuginare sulla vita che passa implacabile onestamente mi sembra poco dotata di fascino, preferisco continuare a lasciarmi andare a visioni future, fossero anche apocalittiche, vorrei provare a buttare un simbolico semino, andando a ripartire, sì, avete letto bene, a ripartire, esattamente da dove mi ero fermato.

No, non ho intenzione di tornare all’Attico sanremese dal quale è andato in onda Attico Monina durante lo scorso Festival, sia chiaro, se mai il Festival ci sarà, cosa che mi lascia comunque dubbioso e senz’altro perplesso, lo seguirò in altra maniera, probabilmente spostando il tutto a casa mia, Attico Monina che diventa Casa Monina, anche se lo stare al settimo piano potrebbe anche farmi bluffare, lo ammetto. Ma è da quell’ultima scena che vorrei ripartire, come in certe serie che si chiudono con un colpo di scena e che, quando mesi dopo riprendono, non possono che ripartire esattamente dallo stesso punto, ricordo una stagione di Alias, serie tv incredibile di JJ Abrams, tutta spionaggi e azione, a pensarla anche oggi ancora mi entusiasma, che si chiudeva con la protagonista, Jennifer Garner, che Dio la mantenga come è, che viene messa a conoscenza dal suo ragazzo, Michael Vaughn di non essere la persona che lei pensava fosse, di non chiamarsi neanche Michael Vaughn, il tempo di girarsi verso di lui, in auto, per fissarlo quando si vede arrivare dal finestrino alle sue spalle un camion che centra in pieno la macchina, fine episodio e fine stagione.

Ecco, io vorrei ripartire da Harley Quinn, e converrete che quando si parla di brividi e anche di piacere Harley Quinn sia in effetti personaggio perfetto, iconico, centrato, quasi pensato ad hoc.

Vorrei partire da Harley Quinn, poi, che imbraccia una chitarra elettrica bianca, un po’ come a suo tempo ha fatto Wendy Melvoin, chitarrista dei Revolution che hanno affiancato Prince nel suo periodo aureo, Purple Rain in testa, e che la chitarra elettrica bianca suona in uno dei modi più sensuali che occhio umano abbia visto in quel gioiello di video che risponde al titolo di Waterfall, insieme alla sua sodale Lisa, a sua volta tastierista dei medesimi Revolution, quindi anche lei al fianco di Prince, nonché cotitolare con Wendy del duo Wendy & Lisa.

Ecco, pensate un mash up tra la Harley Quinn di Suicide Squad e la Wendy di Waterfall, se ce la fate, poi pensate a me che la sto a sentire mentre canta, una delle ultime scene prima che Attico Monina chiuda i battenti, arrivi la diretta su RTL 102,5, poi i tecnici comincino a smontare tutto, le tante, troppe cose da caricare sui camioncini, un paio d’ore di sonno e via, verso Milano e verso l’anno più lungo e anomalo della nostra vita.

È successo, fidatevi. L’Harley Quinn che in qualche modo è la protagonista di questo mio ricordo lontano nel tempo, quando si è fermi immobili il tempo passa più lento, quest’anno sembra essere durato molto di più di quanto un anno non dovrebbe durare, fossi stato più pragmatico avrei dovuto in realtà citare Giuseppe Spedino Moffa, cantautore zampognaro molisano, l’ultimo artista che in effetti si è esibito a Attico Monina, ma converrete che citare Harley Quinn che mashuppa con Wendy Melvoin e parlare di un cantautore di musica folkloristica molisana, un cantautore che molto stimo e che ci ha tenuto a farci vedere in diretta che ha scritto sulla carta di identità alla voce “professione” la parola zampognaro non implica lo stesso grado di glamourness, e mentre scrivo in ciabatte e tuta da ginnastica ho bisogno di essere glamour come forse mai in vita mia, l’Harley Quinn che in qualche modo è la protagonista di questo mio ricordo lontano nel tempo, anzi, togliete il “qualche modo”, l’Harley Quinn che è la protagonista di questo mio ricordo lontano nel tempo si chiama Silvia Oddi, non Harleen Frances Quinzel, ma per il resto ci siamo.

Silvia Oddi, cantautrice romana che insieme a Eleviole incarna talmente tanto quello che intendo io per lo spirito di Anatomia Femminile da essere loro due le sole sempre presenti in tutte le edizioni del Festivalino online e anche dal vivo, al Mei come nei due Attico Monina e anche a Femminile Plurale, la prima edizione andata fisicamente di scena a Roma, presso Officina Pasolini.

Un cantautrice che è decisamente pop, le sue canzoni sono perfettamente orecchiabili, leggere ma non superficiali, ma allo stesso tempo è punk nell’attitudine e nella forma, i canoni degli anni Ottanta, suo feticcio più o meno dichiarato, mangiati e vomitati con una sfrontatezza e una consapevolezza che ha il gran pregio di essere totalmente femminile, si leggano queste mie parole con intenti patriarcali, se volete, la sensualità a occupare militarmente la scena, mica una suona la chitarra elettrica alla Wendy Melvoin e si presenta a cantare a Attico Monina vestita come Harley Quinn per caso.

Io credo, e lo credo talmente tanto da essere qui a scriverlo, non solo evocando l’ultimo ricordo reale di quando il Covid era solo una voce lontana, ma anche ipotizzando da qui una ripartenza, visionaria, certo, ma pur sempre ripartenza, che i due album fin qui tirati fuori da Silvia Oddi, Ingenua Felicità e Niente a Metà, il validissimo supporto di Gianluca Salvi e Nik Valente a dare al tutto quel sound così splendidamente originale, siano tra le cose più interessanti circolate a livello indipendente e a livello femminile negli ultimi anni, ripeto, non è un caso che poi Silvia si sia ritrovata in tutte le edizioni del Festivalino di Anatomia Femminile, e siccome il 2021 è anche l’anno in cui in qualche modo vorrei festeggiare il decimo anniversario di Anatomia Femminile, tanti ne sono passati da quando è uscita la prima antologia, trecentocinquanta cantautrici e non saprei dire neanche più quante iniziative arrivate negli anni, auspico che Silvia dia corpo alle canzoni che mi ha già fatto in parte ascoltare sotto forma di demo, e che, indossando i panni di Harley Quinn o quelli di Wendy Melvoin, o anche nessuno, figuriamoci, è noto quanto io ambisca a un mondo dove il corpo spogliato di abiti diventi anche un corpo capace di abbattere gli stereotipi, Alanis Morrisette docet, torni a fare musica e a farla dal vivo in mia presenza. Lo auguro a Silvia, a me e a tutti voi. Ne abbiamo tutti bisogno.