Storie di alieni alienati, invisibili come i Sault

Chi siano i Sault non è dato saperlo e l'invisibilità che li caratterizza, rispecchia il tratto distintivo degli adolescenti italiani oggi


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Torno a parlare di adolescenti. E di scuola. Ne ho parlato pochi giorni fa, ma questo è un diario, e l’argomento sta diventando piuttosto centrale in questi giorni, anche in virtù del rientro a scuola a lungo promesso e ancora una volta slittato in avanti, dal 7 all’11 e poi al 18, per ora, con la data 25 per gli studenti della Lombardia, e 1 febbraio per quella di diverse altre regioni.

La vita di un adolescente in tempo di Covid è ben strana. Almeno di quegli adolescenti che hanno rispettato in tutto e per tutto le regole, come tanti piccoli Henry Rollins meno muscolosi o Ian McKay meno furiosi, e anche un po’ meno punk. La loro condizione di reclusi nel buio delle loro camere, Spotify e Netlfix (non cito i siti di streaming illegali, ma se avete figli adolescenti sapete bene di cosa parlo) unica compagnia, li ha visti per qualche mese passare dall’essere una anomalia all’essere la cosa più normale, come se di colpo tutti quanti fossimo stati proiettati in quel periodo della nostra vita dalla quale siamo scappati a gambe levate, Carrie di Stephen King credo abbia abbondantemente spiegato perché.

Quindi di colpo siamo tutti diventati adolescenti, tutti in clausura a guardare serie Tv compulsivamente, tutti a cantare a voce alta e in pubblico, sempre che tale si possano definire gli altri che come noi stavano lì a affollare i propri balconi, canzoni delle quali in genere ci si dovrebbe vergognare. Ma al tempo stesso loro, gli adolescenti, sono stati privati dell’altra parte della loro medaglia, loro che sono per statuto né carne né pesce, donne non ancora fiorite, uomini con la voce di Farinelli, bambini che si credono adulti, adulti con facce e corpi ancora da bambini.

Niente fughe da casa, mangiandosi spiegazioni altrimenti impossibili da accettare, niente “vado a dormire dalla mia compagna di classe”, niente “abbiamo da fare un lavoro di gruppo”, niente “oggi Tizio compie gli anni, gli facciamo una festa a sorpresa”, niente di niente.

Solo cameretta e buio.

Anche niente scuola, di colpo diventata vitale e consolatoria anche per chi la scuola era magari più l’incarnazione del Male assoluto, l’imposizione questurina dei genitori, il dovere morale che è dentro di noi laddove vorremmo solo vedere il cielo stellato sopra le nostre teste.

Niente di niente.

Il 2020 è passato praticamente senza lasciare traccia della presenza fisica dei nostri adolescenti a scuola, con quella orribile formula ormai diventata familiare: in presenza.

Poche settimane in tutto di “in presenza”, divise tra prima che Bugo lasciasse il palco di Sanremo a poco prima che un Amadeus posseduto dal proprio egocentrismo narcisista annunciasse il ritorno di Bugo nel prossimo Sanremo, gennaio, una parte di febbraio, qualche giorno a turni tra settembre e ottobre.

Il 2021 sembra promettere la stessa cosa. Tutti a scuola dal 7 gennaio, ne va della credibilità del governo. Mhmmm, no a scuola dal 7 gennaio, ma al 75%. Scusate, volevamo dire il 50%. Ok, aspettiamo l’11 e vediamo i dati, ma siamo pronti, assolutamente.

Tutto molto imbarazzante, e sapere che in questi mesi nulla si è fatto perché i problemi evidenti del ritorno a scuola degli adolescenti, i mezzi di trasporto insufficienti, i vetilconvettori inutilizzabili, le classi troppo piccole per contenere quella moltitudine, rende il tutto addirittura tragico. Rimandare un problema non facendo niente per risolverlo se non dire che è un fatto grave che il problema non venga risolto è da stolti, non da saggi.

Per questo alla smania iniziale, condita con sprazzi di paura per l’ignoto e esplosioni improvvise di irrequietezza, è sopraggiunta una sorta di disincanto, o meglio, di rassegnazione.

“Sto passando dentro casa i miei anni migliori,” nostra figlia Lucia, ultimo anno di liceo, ha ripetuto a me e mia moglie questa frase come fosse il ritornello della per troppo tempo attesa, da lei, nuova canzone de I Cani.

“Non celebrerò i cento giorni all’esame, non festeggerò la maturità, non potrò neanche fare un viaggio subito dopo. Passerò direttamente dallo studiare da casa alle superiori e studiare da casa per l’università. E neanche a dire che poi troverò un lavoro, neanche quello.”

Difficile controbattere a tutto questo. Tutto questo che lei stessa ci ha sentito più volte ripetere con rabbia verso questo o quel politico che compariva senza vergogna dentro la nostra televisione.

Certo, si può azzardare il placebo di un esame di maturità fatto in formula ridotta, e voglio ben sperare che dopo centinaia di giorni di DAD nessuno osi pensare a qualcosa di canonico, ma sul resto ha perfettamente ragione lei. Si sta perdendo gli anni migliori della sua vita chiusa in camera. E come lei tutta la sua generazione.

Li hanno incolpati di essere poco rispettosi, incivili, di essere gli untori per una movida che neanche sanno cosa sia, confusa da chi cerca sempre colpevoli a buon mercato per la semplice necessità di vivere. Si sono anche sentiti rinfacciare l’essere dei privilegiati rispetto a chi ha fatto la guerra, detto da gente che la guerra non la deve neanche aver studiato troppo sui libri di scuola, come se essere giovani oggi fosse a sua volta una colpa.

Nei fatti se essere adolescenti è esattamente come essere degli alieni, lì dentro un corpo che si fatica a riconoscere, circondati da esseri che si dicono nostri parenti e amici ma che non ci sembra di aver mai visto in vita nostra, gli adolescenti di oggi rischiano di essere la prima generazione di alieni alienati, roba che neanche Ennio Flaiano avrebbe saputo decifrare e proporre in maniera ironica e incisiva.

Sono un padre geloso, lo sapete, ho provato a crescere mia figlia col mio culto e nella speranza che mai riuscisse a guardare a un altro uomo con lo stesso sguardo con cui, sin da piccola, ha guardato me, ma pagherei quel che ho, oggi, perché potesse vedere il suo ragazzo, residente in altro comune, e quindi bloccato lontano da lei dalla questione delle zone colorate. Ecco, magari proprio tutto quel che ho no, diciamo che potrei non ucciderlo nel caso lo incontrassi, mi limiterei a spaccargli qualche ossa, lasciandogli però qualche speranza di riprendere a camminare, nel corso degli anni, magari aiutato da un deambulatore tipo quella specie di girelli in metallo.

Guardando a questo anno incredibilmente fuori da ogni barlume di normalità ho spesso momenti di scoramento, ma confesso che quelli più cupi ruotano tutti intorno ai miei figli adolescenti, specie a lei, Lucia. Tommaso, il quindicenne, neanche ci pensa a uscire, lui pagherebbe quel che ho perché il lock down vada avanti a oltranza finché non verrà inoculato a tutti il vaccino. Probabilmente anche allora opterà per uscite sparute, come un Prince in fase particolarmente ispirata passerà la sua vita recluso, vivendo di notte.

Sapere che il loro destino è in mano a chi ci dovrebbe traghettare fuori dall’emergenza non aiuta, di certo, spero almeno che da adesso in avanti la loro vita torni a essere una continua esplosione di emozioni e di cambi di umore, l’odio verso noi adulti dovrebbe poter essere la loro unica fonte di irritazione, non certo dover aspettare la mezzanotte dell’ultimo giorno di vacanze per sapere se dovranno, potranno o saranno costretti, a seconda dei casi, a tornare a scuola.

Del resto, diciamocelo altrettanto apertamente, noi genitori, come mi hanno confessato anche alcuni professori, abbiamo tendenzialmente un solo metodo empirico per capire l’umore di quegli alieni alienati che abbiamo in casa, vedere di che colore sono gli abiti che indossano. Sempre che non siano tra quanti usano vestirsi sempre e comunque di un solo colore, io per dire abitualmente vesto di nero.

Nel caso di Lucia, che in quanto a vestirsi è davvero molto cool, quando arrivano magliette, pantaloni, gonne e abiti che acquista categoricamente online tocca sempre infilarsi gli occhiali da sole, il rischio di finire in trance come ascoltando i KLF dopo essersi calate due paste lì, dietro l’angolo, entra in campo anche il colore dei capelli.

Per lungo tempo anche il taglio di capelli.

Si alza la mattina che è euforica, l’adolescenza è fatta di picchi emotivi, l’adolescenza femminile, mi sentirei di dire non sapessi che andrei a infilarmi in un ginepraio, ancora di più, e eccola che si va a chiudere in bagno e ne esce dopo un paio d’ore coi capelli rosso fuoco, una frangetta alla francese a far bella mostra di sé sulla fronte.

Si alza che neanche tira su le tapparelle della camera, tapparelle elettriche la cui elettrificazione è stata oggetto di casini e ripensamenti, cupa come può essere cupa una adolescente, eccola chiudersi per un paio d’ore in bagno e uscirne con capelli cortissimi del colore nero corvino che immagino abbia l’anima di Lucifero.

Questa faccenda dei colori, volendo cercare una morale a tutto questo o quantomeno volendo provare a iscrivere tutto questo in un contesto che fuoriesca dai confini ormai diventatici fin troppo familiari della nostra nuova casa, mai avremmo pensato di passarci così tanto tempo in così poco tempo, quando ci siamo trasferiti qui due anni e mezzo fa, questa faccenda dei colori è piuttosto attuale, anche fuori dal micro mondo delle nuance scelte da Lucia per farci capire di che umore è attraverso i suoi capelli.

Sono infatti almeno tre mesi, durante la pandemia il susseguirsi veloci di nuovi termini, come anche di nuove consuetudini è talmente convulso che quel che ieri sembra ormai diventato definitivo oggi è scomparso dai radar, per lasciare spazio a altro, pensate al fatto che inizialmente era più urgente munirsi di Amuchina che di mascherine, per dire, sono almeno tre mesi che i colori sono diventati parte della narrazione del Covid, e della nostra conseguente condizione di reclusi, non si legga queste mie parole come lo sfogo di chi invoca la dittatura sanitaria, figuriamoci, quanto piuttosto come la disillusa constatazione di chi a furia di non mettere più il naso fuori di casa da una parte per le imposizioni decretate nottetempo da Conte, dall’altra perché lavora in un comparto economico fermo al palo da febbraio, e quindi anche volendo non saprei davvero dove andare e cosa andarci a fare.

Viviamo in quelle che ormai più che regioni sono sottogruppi colorati, tipo le squadre del Palio di Siena, una volta in zona gialla, raramente, una volta zona arancione, troppo spesso zona rossa.

Viviamo, peggio, in zone che diventano rosse praticamente tutte le volte che in effetti avremmo qualcosa da fare in giro, tipo svagarci un attimo, provare a farci una full immersion in quella natura che, anche questo ce lo stiamo dicendo e soprattutto ce lo dicono da mesi, si sta riprendendo i propri spazi, tutto vero, certo, ma noi viviamo in città, che spazi mai si potrebbe riprendere la natura sotto casa o nel nostro isolato?

Insomma, viviamo di conseguenza al colore della zona nella quale risediamo, iniziare a ragionare anche in termini di colore dei capelli dei membri della nostra famiglia per capire a priori cosa ci è consentito e cosa no, chiedere di portare giù la spazzatura, dare una mano ai gemelli coi compiti, apparecchiare, o semplicemente ambire a fare un po’ di conversazione dopocena, conversazione che non verta sul tema onnipresente “questi ci vogliono far marcire qui dentro”, ecco, iniziare a ragionare anche in termini di colore dei capelli dei membri della nostra famiglia per capire a priori cosa ci è consentito e cosa no non mi sembra al momento una cosa così strampalata.

I colori, quindi. Al momento ci è stato detto che le scuole superiori riapriranno sicuramente al 50% l’11 gennaio. Forse. Dipende dai dati. Quindi ci è stato detto che non si sa se riapriranno, ma lo si è detto con la voce ferma di chi sa per certo che qualcosa succederà.

Jay McInerney, autore col tempo un po’ sparito ma che negli anni Ottanta sembrava una specie di giovane dio della letteratura americana, parte insieme a Brett Easton Ellis, Tama Janowitz e Jill Eisenstadt del Literary Brat Pack, tutti in area neominimalismo di matrice erroneamente ricondotta a Raymond Carver, tanto quanto Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr lo erano stati per il crooning e la musica, col loro Rat Pack, Jay McInerney ha coniato una frase che in qualche modo potrebbe essere ricondotta alla attuale situazione della imminente riapertura delle scuole, lì in balia di gente con la faccia e la credibilità di Speranza, Azzolina, De Micheli e Franceschini: “puoi starne certo, come quelli che ti dicono che ti hanno appena fatto un bonifico e che non ti verranno in bocca”.

Jay McInerney, però, ha scritto Le mille luci di New York, sentirselo dire da Lucia Azzolina, converrete, non è altrettanto giustificabile.

In questo periodo, non a caso, Lucia, mia figlia Lucia, ha i capelli cortissimi, neri. Credo nessuno potesse avere dubbi a riguardo.

Avendo io citato il Brat Pack, quello letterario, perché nei fatti ne esisteva anche uno legato al cinema, che comprendeva quella generazione di attori che hanno recitato in film spesso incentrati su temi delinquenziali, come Emilio Estevez o Robe Lowe, mi spingerebbe quasi a parlare del sogno, mai dichiarato ma sicuramente rincorso da molti di noi, di creare una sorta di Brat Pack italiano, un gruppo di scrittori suppergiù coetanei che in qualche modo si muovessero nel mondo delle lettere sostenendosi a vicenda. Quando sono arrivato a Milano, parlo di ventiquattro anni fa, fresco esordiente, frequentavo prevalentemente scrittori, gente che avevo conosciuto quando ancora vivevo in Ancona e che in qualche modo mi ha aiutato a ambientarmi in questo nuovo contesto. Penso a Matteo B. Bianchi, Alberto Forni, Marco Drago, Piersandro Pallavicini, Andrea Rossetti, Jacopo De Michelis e Leonardo Pelo, questi ultimi due non erano scrittori ma editori, ma tant’è. Con alcuni di loro ci siamo decisamente persi di vista, altri li incontro sui social. Nel tempo a loro sono subentrati altri nomi, penso a Giuseppe Genna, a Gianni Biondillo, amici fraterni, nel senso letterale del termine. L’idea di un gruppo, nei fatti, idea che poteva avere un senso all’inizio, quando esistevano ancora le riviste letterarie come la mitica Il Maltese Narrazione di Marco Drago o Addictions di Leonardo Pelo, poi col tempo è scemata, ognuno di noi si è ritagliato un proprio spazio o ha iniziato a occuparsi d’altro, Marco per dire è diventato uno dei più bravi autori di radiodrammi insieme al suo pard Gaetano Cappa, il loro Istituto Barlumen in questo è un vero e proprio culto, come lo sono le loro canzoni, uscite a nome Istituto Barlumen Band. Matteo B. Bianchi è il solito agitatore culturale che era allora, con la sua Tina, rivistina letteraria, i tanti programmi tv scritti, insieme abbiamo fatto Stasera Niente MTV, con Ambra, ma lui ha lavorato a X Factor e con Cattelan, tra gli altri, ultimamente anche con il suo podcast Copertine. Tanto per fare un paio di esempi. Tutti pubblichiamo ancora libri, chi di narrativa, chi no. Con un paio di loro ho anche pubblicato libri scritti a quattro mani, un paio con Giuseppe Genna, Costantino e l’impero e I Demoni, scritto anche con Ferruccio Parazzoli, Tangenziali con Gianni Biondillo.

Nei fatti io, Giuseppe Genna, Gianni Biondillo e Marco Drago ci siamo visti insieme, negli ultimi anni, in una sola occasione, per il funerale di Tommaso Labranca, occasione che tutti noi avremmo assolutamente evitato, quindi no, forse non è il caso che io parli del nostro Brat Pack. Non è mai esistito, come la possibilità che le scuole superiori riprendano in presenza a breve giro, favoletta cui non ha mai creduto davvero nessuno.

L’idea del collettivo, però, continuo a ritenerla molto interessante, anche se oggi si tende a guardare ai salotti col giusto carico di pregiudizi, addirittura con ostilità, quello che era alla base dello scambio di idee tra intellettuali, nei secoli passati, è sempre stato un momento importante per la cultura, la creazione di luoghi di confronto, dark room dove le migliori menti potevano farsi brillare, inseguire intuizioni e ispirazioni protette rispetto al mondo esterno, si veda a situazione come la Confraternita dei Preraffaelliti ai tanti circoli letterari, al circolo vizioso frequentato da Dorothy Parker a quello momentaneo che vide Lord Byron, il poeta Shelley e sua moglie Mary e John Polidori passare una intera estate insieme, per non dire dei vari movimenti, da quello dada di Tristan Tzara all’Internazionale Lettrista e poi Situazionista di Guy Debord, il circuito Beatnik e via discorrendo.

In musica questa è una prassi meno diffusa, apparentemente. Certo, esistono artisti che collaborano tra loro, anche programmaticamente, magari perché legati alla stessa etichetta discografica, a un medesimo locale, penso al Folk Studio o a Il Locale di Roma, per dire, o più per una sorta di fratellanza artistica, ma raramente di veri e propri collettivi si è potuto parlare. Il rap è forse l’ambito musicale dove questo tipo di situazioni ha trovato terreno più fertile, con storie come quelle del Wu Tang Clan che in qualche modo hanno fatto storia, diventando poi paradigma, matrice per situazioni similari, penso agli Odd Future Wolf Gang Kill Them All, OFWGKTMA, collettivo dal quale sono usciti nomi come Tyler the Creator o Frank Ocean, per dire, tanto quanto dal Wu Tang era uscito quell’esercito incredibile che porta i nomi di Rza, Gza, il compianto Ol’ Dirty Bastard, Method Man, Raekwon, Ghostaface Killa e via discorrendo. Due esempi eclatanti, quindi, collettivi fatti di singoli artisti, con una propria carriera, ma capaci insieme di tirare fuori masterpiece come The OF Tape vol 2, nel caso degli Odd Future, o praticamente tutta la discografia per quel che riguarda il Wu Tang, a partire da Enter the Wu Tang (36 Chambers).

Però mettermi qui a parlare di collettivi dopo che ero partito parlando ancora una volta di adolescenti, e non volendo ovviamente andare a parare in quel calderone per me sconosciuto che risponde al nome di Kpop, non posso che azzardare un doppio carpiato e finire a parlare sì di un collettivo, e di un collettivo che pratica l’arte del rap, ma di un collettivo che ha scelto di farlo nascosto dall’anonimato, andando così a elevare a livello estetico quella invisibilità che in effetti è ahiloro il tratto distintivo degli adolescenti italiani oggi, i Sault. Premesso che indicare i Sault come rapper sarebbe come dire che Prince era uno che faceva pop, anzi, uno che faceva heavy metal, perché di rap non è che ce ne sia tantissimo, da un punto di vista canonico, e tanta e tale è la capacità del collettivo londinese di giocare con ogni forma musicale che sia riconducibile alla musica black, dal soul al new-soul, passando per l’RnB, il funk, jazz, acid jazz, la dub, un pizzico di gospel, un tocco di afrobeat, con tutta una serie di citazioni e riverberi che affondano le radici nel rock, nel punk e anche nella new wave, una sorta di prontuario di blackitudine, quindi, con l’incredibile capacità di non risultare nonostante le premesse affatto citazionisti, né post-moderni né ipermoderni. Semplicemente originali, molto originali, con un furore politico che attraversa e occupa militarmente i testi, almeno fino all’ultima opera, uscita sul volgere del 2020, Untitled (Rise), quarto album in due anni scarsi, dopo la doppietta 5 e 7 uscita nel 2019, e Untitled (Black Is), uscito subito dopo le sommosse di Minneapolis, vero e proprio manifesto di cultura e pensiero blackness, un album, l’ultimo, per ora, che vira verso una presa di coscienza quasi spirituale quello che nei precedenti era denuncia e rivendicazione, oltre che espressione di orgoglio e spirito di appartenenza. Chi i Sault in effetti siano, nel complesso, non ci è dato saperlo. Si conoscono alcuni dei membri fondatori e fondamentali, dal producer Inflo, già dietro i lavori di Michael Kiwanuka, presente come ospite, e Little Simz, a Cleo Flo, passando per Kid Sister, un po’ l’anima politicizzata del collettivo, per altro che si sappia unica straniera nel combo altrimenti inglese. I Sault sono invisibili, le loro cover completamente nere abitate prima da fiammiferi atti a creare i numeri 5 e 7, poi da mani impegnate in azioni iconiche, pregare per l’ultimo Untitled (Rise) come alzare il pugno per il precedente Untitled (Black is), un progetto assolutamente sorprendente, come un mash-up tra l’impegno filologicamente black di Kendrick Lamar e quello immaginifico di Banksy. Una realtà oggi imprescindibile non solo per chi ama la black music, ma per chiunque abbia a cuore la musica tutta, seppur capace di mettere in un angolo, e davvero è dura, anche quel capolavoro di RTJ4 dei Run the Juwelz come titolare del miglior lavoro uscito nell’infausto anno 2020.