Tra Nanni Balestrini e il rap di protesta, salvo gli invisibili

Il silenzio e l’invisibilità, queste le due caratteristiche che si stanno incollando come tatuaggi sulla pelle dei giovani


INTERAZIONI: 335

Ho provato a girarci intorno. Non perché mi piaccia girare intorno ai discorsi, se questa è la conclusione cui siete giunti leggendo questo mio modo arzigogolato di affrontare gli argomenti, questo mio stile da flaneur, lì a divagare, perdermi, affrontare gli argomenti partendo da lontano, in apparenza addirittura da altre galassie, ma comunque sempre parlando di ciò di cui voglio parlare, anche quando apparentemente parlo d’altro, beh, temo di aver sbagliato qualcosa, o che abbiate sbagliato qualcosa voi, nel primo caso chiedo scusa, nel secondo nessun problema, non siete tenuti a una lettura attenta, né a cogliere sfumature che, in mezzo a migliaia di parole, possono risultare difficili da recepire, come quelle immagini che girano sui social, chi riconosce un gatto?, dove il gatto da riconoscere è praticamente impossibile da riconoscere, così magari è il senso di quello che voglio dire, col mio muovermi dadaista, lì a masticare i discorsi e risputarli sul piatto digeriti, o comunque masticati, ma io tutto voglio fuorché girare intorno ai discorsi, voglio semmai affrontarli da altre prospettive, ché i discorsi piatti non mi interessano quando sono io a doverli sentire o leggere, figuriamoci quando sono quello che li deve scrivere o dire.

Ho provato a girarci intorno, stavolta, solo perché non volevo ammorbarvi, non volevo ripetermi, non volevo, in sostanza, essere quello che ha un cavallo di battaglia e spende il suo tempo a ripetere sempre le stesse cose. Già passo abbastanza da vecchio brontolone per essere quello che ce l’ha con lo streaming, che odia Spotify, che considera trap e itPop alla stregua del guano, quello fissato con le chitarre elettriche e il rock ‘r’ roll, che solo a pensare che uno possa passare per vecchio brontolone perché ama le chitarre elettriche e il rock, lo dico da boomer, mi sembra una cosa fuori dalla grazia di Dio, il mondo è davvero cambiato parecchio da quando erano i capelloni che facevano brontolare i vecchi, non vorrei passare anche per quello che sta sempre a lamentarsi perché le scuole sono chiuse.

Sì, è della faccenda delle scuole chiuse, nello specifico delle scuole superiori, le elementari grazie a Dio a questo giro sono rimaste aperte, quarantene sanitarie permettendo, che stavo parlando, a questo riguardo avevo provato a girare intorno, alla chiusura delle scuole e alla malefica didattica a distanza. Intendiamoci, non è che io riguardo alle scuole superiori chiuse o aperte abbia un’idea molto precisa, non sono neanche tenuta a averla, scrivo e scrivo prevalentemente di musica, non sono un politico né un tecnico, ma ho quattro figli e due di questi figli, Lucia e Tommaso, non vanno a scuola da fine ottobre, per altro dopo aver saltato un fottio di ore, Lucia, che è sempre andata a scuola per tre ore al giorno invece delle classiche cinque, o a giorni alterni, Tommaso. Non ho le idee chiare perché so, me lo hanno raccontato loro, mi hanno anche fatto vedere foto e video fatte con lo smartphone, che i mezzi all’ora nella quale li dovevano prendere per andare a scuola erano qualcosa di molto simile ai treni che di solito si vedono in certi filmati suggestivi ambientati dalle parti di Calcutta, la città, non il cantautore indie, gente incastrata come tessere di domino, alla faccia del distanziamento sociale.

Non ho le idee chiare anche perché so per certo che molte scuole superiori, ho letto un articolo di un sito serio che si occupa di scuola che sosteneva si tratti di una percentuale intorno all’80%, non hanno i normali termosifoni, come quelli che abbiamo comunemente in casa, ma i vetilconvettori, quelli che mettono in circolo aria da delle grate poste sulla parte superiore, vetilconvettori che, in epoca Covid, sono inutilizzabili, questo ha stabilito il CTS, quindi devono rimanere chiusi, il ché, se aggiunto all’obbligo, sempre causa Covid, di tenere le finestre aperte, crea un mix a rischio ipotermia mica da ridere.

Mia figlia, per dire, ha passato le poche settimane nelle quali è andata a scuola, dall’apertura di metà settembre al primo lock down, lei che lo ha anticipato, esattamente come mio figlio Tommaso, causa quarantena fiduciaria, coperta con dei plaid, perché la sua classe è stata chiusa e sostituita con una palestra, fredda, freddissima, palestra sprovvista di finestre accessibili, ha le classiche finestrelle poste in alto, per cui per arieggiare tenevano aperta direttamente la porta finestra, col risultato che era freddissima ancora di più del solito, e sappiamo tutti quanto sono in genere fredde le palestre delle scuole.

A ottobre.

Figuriamoci a gennaio.

Problema, questo, molto diffuso, stando a quell’80%, cui va aggiunto il problema dell’assenza di nuovi insegnanti, entrambi i miei figli hanno avuto defezioni di insegnanti, o ritardi nell’assegnazione dei nuovi posti, immagino perché trasferirsi al nord per insegnare, durante la pandemia, ha assunto aspetti un po’ meno affascinanti. Quindi, mancanza distanziamento nei mezzi, causa nessun tipo di potenziamento nel parco mezzi stesso, nessuno tipo di strategia negli ingressi scaglionati tra scuole e uffici, la totale assenza di protocolli di sicurezza. Mancanza di riscaldamento in classe. Mancanza di parte del corpo insegnante. Facilità di chiusura delle classi causa quarantene fiduciarie. Insomma, un deliro.

Delirio nei confronti del quale non ho idee chiare.

È meglio un ritorno alla normalità?

Certo.

È meglio un ritorno alla normalità anche in assenza di normalità?

Ho dubbi.

Molti.

So per certo che la clausura non fa bene agli adolescenti, sono stato adolescente e mi ricordo periodi di clausura autoimposti, nel momento in cui non volevo avere nulla a che fare col mondo così come con la gente, ma ricordo anche momenti nei quali non sarei rimasto in casa neanche se mi avessero pagato, si chiama adolescenza, e l’adolescenza è fatta di tumulti, di irrequietezza, di voglia di farsi esplodere o far esplodere tutto il resto.

Lo so anche perché ho questa finestra aperta su quel mondo, duplice, due adolescenti in casa, Lucia, quinta superiore, Liceo Scienze Umane, Tommaso, seconda superiore, Liceo Scientifico Scienze Applicate. Due modi diversissimi di intendere la vita, per altro, fatto che fa vivere loro il lock down in maniera piuttosto differente.

Metteteci che Tommaso, quindici anni, da che frequenta il Liceo ha passato più tempo a casa che in classe, impossibilitato quindi a ambientarsi, e ben ricorderete quanto fosse difficile per tutti noi ambientarsi in classi nuove, con compagni di classi nuove, a volte neanche della nostra stessa città.

Auspicare che tornino in classe come se nulla fosse mi sembra fuori dal mondo, non è tornato niente alla normalità, lo sappiamo bene, ma anche pensare che la soluzione sia lasciarli a casa mi sembra assurdo, i giovani sono quelli che hanno pagato forse più di chiunque altro il conto di questa pandemia, loro che in teoria sono quelli che corrono meno rischi, chiusi a tempo indeterminato a casa, accusati a più riprese di essere i veri untori, tra movida e discoteche, aperitivi e assembramenti.

Abbiamo letto tutti, immagino, i gridi di allarme degli specialisti che invocano un alleggerimento delle pressioni nei confronti dei più giovani, quel dire che a furia di tenerli in casa non usciranno più, che la loro socialità è andata a farsi benedire, che ci stiamo giocando una intera generazione così, come nulla fosse, senza neanche accorgercene, o comunque senza preoccuparcene.

Tutto vero, tutto condivisibile.

Certo, la situazione è tesa, non si vedono soluzioni facili, ma fingere che non ci sia un problema non significa eliminare il problema stesso, e aver reso in qualche modo una generazione invisibile non aiuterà certo il famoso ritorno alla realtà. Io non sono la Ministra Azzolina né la Ministra De Micheli, quelle su cui il ritorno alla normalità per quel che riguarda la scuola in qualche modo pesa, non ho quindi risposte a queste domande, né devo averle, so però per certo che non dare risposte è un atteggiamento tanto grave quanto darne di sbagliate, spostare le responsabilità su altri, i prefetti, le regioni, i presidi, è invece gesto vile e da ignave, e su questo mi ritrovo a pensarla esattamente come il Poeta.

Mettiamola così, la situazione mi affligge.

Vedo le immagini degli sparuti studenti che vanno a fare DAD davanti alla loro scuola, chiusa, o davanti alla sede della Regione Lombardia, vivo a Milano, e le trovo malinconiche, per altro coperte da quel velo di romanticismo tipico di quella età.

Sento i miei figli impauriti dall’idea di tornare a ammassarsi sui mezzi pieni all’ora di punta, e al tempo stesso devastati dal non vedere gli amici, dallo stare in casa, e provo lo stesso tempo di afflizione. Ovviamente anche di più, perché sono i miei figli e ovviamente gli effetti di questi problemi li riscontro poi ogni qualvolta in cui mi capita di litigarci, e sappiamo tutti quanto è facile per un genitore litigare con un figlio adolescente.

I costi sociali di questa gestione, anche di questo abbiamo letto tutti, immagino, sono incalcolabili, un po’ come i danni economici che invece sono sempre posti al centro della scena, solo che gli adolescenti sono invisibili assai più di chi con la pandemia è andato gambe all’aria, questo sembra la morale di questa favoletta senza lieto fine.

Sto per sterzare bruscamente.

Ci siete abituati. Faccio sempre così. Solo che l’argomento in questione mi sta particolarmente a cuore, nel diario del primo lock down la DAD ha occupato militarmente le mie pagine, anche perché la DAD delle scuole elementari, che fortunatamente abbiamo fugato a questo giro, ha afflitto direttamente anche me. Stavolta no, proprio perché non so se augurarmi che le scuole riprendano le lezioni fingendo normalità pur in assenza di normalità o se augurarmi che l’anno vada ormai avanti così, perso per perso almeno evitiamo che i nostri figli si ammalino di Covid, provando noi genitori a salvare le loro menti e le loro anime.

Ci sarebbe poi la faccenda degli esami di maturità, certo, perché ipotizzare che dopo aver fatto poche ore in presenza e non so più neanche quante settimane di DAD anche solo pensare che si possano fare esami di maturità fa davvero ridere i polli. Da sempre ritengo la loro esistenza una aberrazione, al pari della pizza con l’Ananas o del reggaeton, ma stavolta siamo davvero al ridicolo. Sono dell’idea che anche quest’anno si debba procedere verso una promozione di massa, poi un giorno vi dirò la mia idea di scuola, quel che penso dei voti, dell’insegnamento impostato come punizione più che come conoscenza, a bocce ferme auspicherei in una revisione totale del sistema scolastico, ma se non ci si è riusciti in tempi di pace, figuriamoci ora che siamo in tempo di guerra.

La guerra, ecco.

È notorio, credo, che di quel che pensano i commentatori da social non mi curo, non sono per un rapporto democratico tra chi scrive e chi legge, e se mi interessa leggere quel che pensano gli altri sono io stesso a andarmi a cercare cosa leggere, è così che ho sempre fatto. D’altra parte vivo in questo mondo e mi capita quasi sempre di leggere cosa gli altri pensano e scrivono, soprattutto sui social, e questa faccenda della guerra è stata, credo, tirata un po’ troppo per le lunghe.

Non siamo in guerra, partiamo da qui.

Siamo sotto pandemia, e la pandemia non è una nazione nemica che ci ha dichiarato guerra o a cui noi abbiamo dichiarato guerra.

Il virus non è un nemico, è un virus.

Siamo noi a trasmetterlo, non qualcuno nei confronti dei quali possiamo fare una campagna di comunicazione tipo i comunisti che mangiano i bambini o gli americani che sono schiavi del capitale.

Non siamo in guerra e non siamo neanche in un’epoca nella quale la guerra sia ipotizzabile, come invece accadeva fino alla seconda guerra mondiale. La vita, per noi, ha un valore diverso, non fraintendetemi, la morte era morte anche allora, ma si moriva più facilmente, era più normale, più presente, più quotidiana. Non fatemi fare il discorso semplicistico del fare tanti figli perché qualcuno non sarebbe sopravvissuto alla guerra o alle malattie. Già lo sapete. Non fatemi neanche fare il discorso altrettanto semplicistico che l’essere andati avanti e quindi aver raggiunto in apparenza una condizione più favorevole, l’età media che si è sensibilmente allungata, il tenore di vita medio più alto, non ci deve far guardare con troppa faciloneria a quando si stava peggio, perché tornare indietro è sempre più difficile che andare avanti, e tocca essere attrezzati per poterlo fare. Quindi avere fisici più preparati, passatemi una metafora tagliata con l’accetta, ma anche menti predisposte a farlo.

Siamo più fragili?

Probabilmente sì, ma se ci stava bene fino a ieri star qui oggi a fare paragone coi nonnini che hanno superato Auschwitz lascia davvero il tempo che trova.

Non siamo un guerra, almeno in quello siamo decisamente migliorati, non ammorbateci con questa retorica da racconti dickensiani, tanto più se poi ci fate anche la morale per come abbiamo maltrattato il pianeta.

I nonnini facevano le guerre, noi inquiniamo fottendocene del pianeta, pari e patta.

Dall’assioma mancano ancora una volta i giovani, quelli a cui arriverà il conto finale, gli invisibili.

Gli Invisibili, quindi, partiamo da qui per la brusca sterzata su preannunciata.

Questo è il titolo del romanzo che, insieme al romanzo Vogliamo tutto, è il motivo reale per il quale voi siete qui a leggermi.

Attenzione, non intendo che è per il romanzo Gli invisibili che vi siete messi a leggere, non so se lo avete letto, se ne avete mai sentito parlare, non posso saperlo dal momento che chi scrive, anche chi scrive online, avendo quindi una idea molto precisa del target di lettori cui si rivolge, età media, classe sociale, cultura, sesso, provenienza geografica, dal momento che chi scrive non può certo conoscere uno per uno i propri lettori e sapere come sono arrivati fin qui, a meno che non siano davvero pochi, e grazie a Dio non è il mio caso. No, Gli invisibili, romanzo di Nanni Balestrini, è il motivo per il quale voi siete qui a leggermi, al pari del romanzo Vogliamo tutto, perché l’aver letto quei due romanzi, prima, e l’aver conosciuto Nanni Balestrini e da lui essere stato spronato a scrivere e aiutato anche a pubblicare, poi, sono il motivo per cui io per vivere scrivo, e al momento scrivo qui queste parole.

Gli invisibili racconta più o meno eplicitamente la storia di Sergio Bianchi, intellettuale esponente, al pari di Balestrini stesso, di Potere Operaio, per questo incarcerato, la dedica a Sergio questo faceva pensare, non bastasse che lui stesso me lo confermò a voce. Sergio Bianchi fonderà poi una casa editrice, DeriveApprodi, con la quale Balestrini intratterrà una fitta collaborazione, casa editrice che pubblicherà il mio primo romanzo, Questa volta il fuoco, oggi parte della trilogia Avrei voluto tutto, edita da PeQuod e chiaro omaggio proprio al Vogliamo tutto di Balestrini stesso (il titolo Questa volta il fuoco, invece, è un omaggi a James Baldwin e al suo La prossima volta il fuoco). Nei fatti, tanto sarà Balestrini a indurre la PeQuod a pubblicare il mio primo testo, tanto non lo sarà a far pubblicare il mio primo romanzo, selezionato dall’altrettanto compianto Luigi Bernardi, a capo della collana Vox che mi vedrà esordire come romanziere in contemporanea a Paolo Nori e a Giampaolo Simi.

Ma non è di questo che volevo parlarvi, quanto piuttosto di quel romanzo, edito da Bompiani nel 1987, una vera fotografia di un periodo ostico e ancora oggi irrisolto, quello del terrorismo e dello scontro con lo stato di frange della sinistra estrema (anche della destra, ma di queste non si occupa Balestrini). Un discorso fatto dall’interno, da un punto di vista privilegiato, certo con coinvolgimenti ideologici e personali che possono aver influito nel decifrare i fatti e le dinamiche di quei fatti, ma sicuramente un’opera che, al pari di tutte le altre balestriniani, a riguardo del terrorismo non posso non citare anche L’editore, uscito due anni dopo, dedicato alla morte di Giangiacomo Feltrinelli, rimasto ucciso accidentalmente mentre cercava di far saltare in aria un traliccio.

Nel romanzo dedicato a quegli anni e alla figura di Sergio Bianchi ci sono dei versi che poi, anni dopo, finiranno nel testo di una canzone degli AK47, insieme agli Assalti Frontali figli degli Onda Rossa Posse, realtà in ambito rap di quel movimento politico e artistico che avrebbe portato per la prima volta questo genere in Italia. La canzone si intitola 0516490872, numero di matricola con il quale era stata registrata la prigioniera Silvia Baraldini negli Stati Uniti, a Lexinton, nel Kentucky, tenuta per due anni in isolamento totale, nonostante fosse malata di tumore, arrestata per terrorismo e poi estradata in Italia.

Una canzone del 1993 che si è fatta strada nell’underground, forte di quel ritornello così epico, preso di sana pianta dal romanzo di Balestrini: “E pensiamo, dove siete, dove siamo, quando eravamo mille, diecimila, centomila, è possibile che fuori non c’è più nessuno, è possibile che non si sente più una voce, un rumore, un respiro? Dove siete, ci sentite, non vi sento, non sento più nessuno, fuori le sbarre un muro, è impossibile che fuori non c’è più un respiro, è impossibile che fuori non c’è più nessuno.”

Parole che ti si piantano nel cervello come un chiodo arrugginito, almeno con me succede così, la poesia serve anche a questo.

Parole che parlano di chi ha sacrificato la propria vita dietro un ideale e si sente isolato, abbandonato dai compagni, ma che lette oggi, a fronte di un’altra invisibilità, quella della generazione che è stata esclusa dalla narrazione della pandemia, se non per additarla, di volta in volta, come colpevole di aver diffuso un virus che, nei fatti, questo ci hanno sempre detto i dati, si è propagato o per colpe di chi doveva gestire la macchina sanitaria, gli ospedali come le RSA, e per colpa di chi non ha voluto davvero provato a fermare l’economia, fabbriche e uffici come focolaio che poi andavano a infettare le famiglie, passate dall’essere luoghi sicuri a essere trappole mortali, i sani costretti a non uscire per poi ammalarsi per chi doveva andare a lavorare, parole che lette oggi a fronte dell’invisibilità dei giovani fanno forse ancora più male, perché private almeno di quella spinta rivoluzionaria che prevedeva il decidere di correre dei rischi, anche in quel caso alla guerra come alla guerra.

Il silenzio e l’invisibilità, queste le due caratteristiche che si stanno incollando come tatuaggi alla pelle dei giovanissimi, senza una loro precisa scelta, senza la possibilità di una posizione diversa. Come eredità direi che non è niente male.