Anche emulare è un’arte

È sacrosanto il diritto di chiunque di non riconoscersi nel modo in cui un biografo ha deciso di raccontare la propria vita


INTERAZIONI: 146

Voglio provare a portare un po’ avanti un paio di discorsi che ho affrontato nei giorni scorsi.

Diciamo che due argomenti che ho affrontato negli ultimi capitoli del mio diario oggi si scontreranno, come in un mash-up, dando vita a una terza via.

Vi ho parlato, cioè, di come nei miei scritti ami lasciarmi andare al trolling, cioè alla citazione non necessariamente dichiarata, o meglio, dichiarata come citazione, ma senza andare a spiegarne il perché o il per come. Una pratica che parte da origini diverse, da una parte quella strana forma di divagazione o flaunerismo che risponde al nome di psicogeografia, vagabondaggio fisico e intellettuale, senza meta come tutti i vagabondaggi, nel quale è quel che incontri a spiegarti quel che stai facendo, più che un’idea pregressa, una mappatura già disegnata da altri, dall’altra dal postmodernismo, quella filosofia che parte dal presupposto che il capitalismo e la società dei consumi abbia miseramente fallito nel declinare la propria scala di valori, e che contrappone a essa, ancora non rottamata, una visione ironica del mondo, visione nella quale alto e basso si incrociano senza soluzione di continuità.

Vi ho per contro anche raccontato di come nel corso della mia vita professionale io abbia iniziato a spostare la mia idea di narrativa, quella da cui sono partito, verso una forma di racconto biografico, specializzandomi in qualche modo nelle biografie di popstar e artisti di chiara fama. Di come, in sostanza, io sia diventato a tutti gli effetti un biografo, uno che prende le vite degli altri e le manipola in forma scritta, fermandole sulla pagina, ma anche interpretandole, non è un caso che, per dire, il recente libro Let Them Talk di Cesare Cremonini, di cui sono curatore e che è nato proprio da uno scambio orale, epistolare, scritto, dovesse in un primo momento chiamarsi Monina canta Cremonini, esattamente come succede per certi cantanti che decidono di interpretare il repertorio di altri cantanti, questo termine per chi si occupa di musica è singolare, perché l’interpretazione di una canzone, come di una vita, è in qualche modo un tentativo riuscito di ridarle nuova luce, se non addirittura nuova vita. Se c’era stato un Mina canta Battisti ci sarebbe potuto essere anche un Monina canta Cremonini, per altro operazione che non credo avesse precedenti in ambito editoriale. Scrivendola ora qui la rendo in qualche modo di pubblico dominio, quindi appetibile anche per altri scrittori, lo so, ma lo faccio con quell’arroganza spavalda che ho quando mi rendo conto che una mia idea, nel corso degli anni ne ho lasciate tante nei cassetti, più di quante non ne abbia realizzate, e parliamo comunque di un sacco di idee, è praticabile solo da me, come se nel suo DNA ci fosse scritto a chiare lettere il mio nome, copiatela se ci riuscite.

Let Them Talk, poi, ha preso evidentemente un’altra strada, evidentemente quella giusta, visto il successo che sta incontrando, già alla quinta ristampa, ma da qualche parte esiste anche quel libro lì, almeno nelle intenzioni.

Trolling e biografismo, quindi.

Questi i due punti di partenza, distanti tra loro, in apparenza anche con nessuno snodo di contatto lungo il percorso.

Certo, nello scrivere biografie, nella mia carriera ne ho scritte quaranta, esattamente la metà dei libri che ho scritto e pubblicato nei ventitré da cui ho iniziato a pubblicare libri. Anzi, ne ho firmate e co-firmate quaranta, più quelle che ho scritto prima di iniziare la mia attività di biografo, quando facevo il ghost writer scrivendo le autobiografie degli altri, certo, nello scrivere biografie mi sono sicuramente dato anche al trolling, meno di quanto non faccia solitamente, ma comunque abbastanza spesso da rendere i miei scritti chiaramente riconoscibili come miei, ma non può certo essere questo il mash-up di cui vi parlavo all’inizio, perché io trollo sempre, anche quando scrivo di viaggi, di canzoni, di politica.

No, voglio fare un salto nel tempo, tornare nel passato, per spiegarvi cosa ho in mente. Un viaggio nel tempo strano, che se fossi uno scrittore di fantascienza mi mettere in crisi, perché tirerebbe in ballo il fatidico “paradosso temporale”. Voglio infatti tornare al 1991, anno nel quale, i capelli bianchi e le rughe non mentono, ero già sul pianeta Terra. Non è di me che voglio comunque parlarvi, quindi non ci sarà un me stesso cinquantunenne, il narratore, il viaggiatore nel tempo, che incontra un me stesso ventiduenne, roba che farebbe impallidire il Zemeckis di Ritorno al futuro. Nel 1991, anno particolarmente prolifico per quel che riguarda il rock internazionale, giusto un anno fa, elogiando Giorgieness in uno di quei voli pindarici cui sarete nel migliore dei casi abituati, nel peggiore assuefatti, facevo una veloce carrellata proprio delle uscite salienti di quell’anno, citando Nevermind dei Nirvana, il Black Album dei Metallica, Blood Sugar Sex Magik dei Red Hot Chili Peppers, Ten dei Pearl Jam, Gish degli Smashing Pumpkins, Achtung Baby degli U2, i due Use Your Illusion dei Guns N’ Roses, Dangerous di Michael Jackson, Screamadelica dei Primal Scream, Out Of Time dei R.E.M., Mama Said di Lenny Kravitz, Temple Of The Dog del supergruppo omonimo, Sailing The Seas Of Cheese dei Primus, Loveless dei My Bloody Valentine, Death Certificate di Ice Cube, Into The Great Wide Open di Tom Petty and the Heartbreakers, 2Pocalypse Now di 2Pac, Trompe Le Monde dei Pixies, Mighty Like A Rose di Elvis Costello, Fireball Zone di Ric Ocasek, Diamonds And Pearls di Prince, Niggaz4Life dei N.W.A., Green Mind dei Dinosar Jr, Badomotorfinger dei Soundgarden, Bandwagonesque dei Teenage Fanclub, Cypress Hill della crew di B Real, e sempre nello stesso anno nacque il trip hop con Blue Lines dei Massive Attack, il britpop con Leisure dei Blur, Perry Farrel dei Jane’s Addiction, appena sfornato Lo Ritual De Lo Habitual dava vita a quella genialata del Lollapalooza, ecco nel 1991 la band californiana dei Negativland dava alle stampe il discussissimo EP U2.

Band piuttosto marginale della scena rock sperimentale, in qualche modo imparentati o riconducibili allo stesso panorama artistico dei Residents, i Negativland, al secolo Mark Hosler, Richard Lyons, Don Joyce, David Willis e Peter Conheim, si erano nel corso degli anni Ottanta lanciati in una originale forma di sperimentazione sonora utilizzando sintetizzatori e apparecchi radiofonici, diventando a loro modo epigoni del genere “collage”, qualcosa che con il citazionismo in musica ha molto a che vedere. Prendere sample di altri brani era all’epoca ancora pratica diffusa specie nel rap, giocando su una ambiguità giuridica che non era ancora arrivata a mettere i paletti rigidi sul diritto d’autore che arriveranno di lì a poco, del resto il deejaying, una delle quattro discipline dell’hip-hop insieme al rap, al graffitismo e alla break-dance, per altro dall’anno prossimo iscritta tra le discipline olimpiche, si basava proprio nel manipolare le tracce incise da altri, sovrapponendole, ripetendone stralci, modificandone i giri e quindi i BPM, i battiti per minuto, cioè la velocità, ma comunque usando musica scritta e incisa da altri.

Se William S. Burroughs aveva in qualche modo codificato in letteratura l’idea di copiare come forma d’arte, partendo dal presupposto che se qualcuno aveva espresso un concetto in maniera già perfetta non avrebbe avuto senso provare a fare di meglio, quanto piuttosto sarebbe stato più semplice copiarlo di sana pianta, i deejay che operavano nella musica rap e poi nella dance e nell’elettronica, cominciarono a prendere beat, riff e altri suoni da brani già esistenti, dando vita appunto a una pratica che per anni sarà non solo diffusissima, ma addirittura identificata come la via più percorsa da quelli che poi sarebbero passati dall’essere deejay all’essere producers, non a caso, cioè artisti che con le macchine i suoni li inventavano, li costruivano, sicuramente non li copiavano.

I Negativland, che per anni si erano occupati di tagliare e incollare suoni prodotti da altri nelle loro canzoni, stavolta vanno oltre. Prendono il nome di quella che al momento è probabilmente la band più famosa del pianeta e hanno usato il loro nome per dare il titolo a un loro lavoro. Di più, il lavoro, che presenta in copertina il titolo a lettere cubitali, a fronte del nome dei Negativland assai meno imponente, consiste in una sorta di parodia di Bono e soci, con due versioni di I Still Haven’t Found What I’m Looking For eseguita utilizzando sampling rielaborati del brano originario e suonandoci su su più tracce il kazoo.

Nei fatti la Island Records, major che pubblicava la band irlandese, intraprenderà una causa divenuta in qualche modo storica contro i Negativland, passati quindi dall’essere una band sperimentale e oscura a incarnare anche senza una loro precisa volontà il ruolo di alfieri della lotta per il No Copyright.

Piccola digressione, tanto ci siete abituati, altra band che nel tempo si è messa in evidenza per operazioni al limite del lecito, con connotazioni politiche piuttosto precise, sono stati i KLF, band britannica che viene identificata come la madre del genere “ambient house”. I KLF erano fondamentalmente due artisti, Bill Drummond e Jimmy Cauty. A fronte del loro essere pionieri musicali, per altro baciati anche da un ottimo successo con brani quali What Time Is Love?, 3 A.M. Eternal e Last Train to Trancentral, tutte tracce tratte dal loro album del 1991, anno ripeto irripetibile, dal titolo The White Room, a loro sono ascrivibili anche filoni house quali la “trance” e il “chill-out”.

Attivi anche sul fronte politico, e soprattutto di arti performative, i KLF passarono in qualche modo alla storia, come del resto i già citati Negativland, per aver dato letteralmente fuoco a un milione di sterline guadagnate con la loro musica, proprio a partire dall’album del 1991, durante un happening che ha preso il nome Whatch the K Foundation Burn a Million Quid, quando si dice essere dadaista, ma dadaisti sul serio, non a chiacchiere. Ritiratisi dalle scene già nel 1992, come storditi dal troppo successo, dopo aver pubblicato il libro scritto a quattro mani The Manual, Drummond e Cauty decisero di impiegare il milione di sterline guadagnati per dar vita a tutta una serie di opere d’arte, che nelle intenzioni avrebbero dovuto circolare per le gallerie britanniche sotto il nome collettivo Money: A Major Body of Cash. Il milione di sterline doveva essere inchiodato nello spazio espositivo, il titolo dell’opera era Nailet to the Wall, ma nessuna galleria accettò di ospitare la performance. Quindi nell’agosto del 1994, presso un casolare abbandonato nell’isola di Jura, in Scozia, i due diedero fuoco alle banconote, tutte in tagli da cinquanta sterline e raggruppate in mazzette contenute dentro sacchetti di plastica, sotto l’occhio vigile di una videocamera. Un gesto situazionista che voleva stigmatizzare il controllo che il denaro ha sulle nostre vite.

Bill Drummond, che prima dei KLF ha militato nei Big In Japan insieme a Holly Johnson, poi nei Frankie Goes to Hollywood, quelli di Relax, ha accompagnato Iain Sinclair durante una parte del suo cammino lungo la M22, nel viaggio a piedi intorno a Londra che poi finirà nel libro culto della psicogeografia London Orbital, libro che insieme a Serpenti e scale di Alan Moore ha introdotto me a questa corrente filosofica che oggi mi porta a scrivere come potete leggere anche in queste colonne.

Fine della digressione.

Quindi, tornando ai Negativland e al loro U2, considerato una sorta di truffa da parte della Island Records, convinti che quel mettere il nome della band di Bono e The Edge in copertina il gruppo californiano volesse trarre in inganno i fan di questi ultimi, convinti che si trattasse di un loro nuovo lavoro, fatto che in qualche modo darà ampio spazio al discorso del copyright e del copyleft, discorso ancora piuttosto vivido, passare dal giocare con suoni e sample di suoni prodotti da altri all’usare direttamente il nome di qualcun altro è stato una sorta di passo breve, brevissimo.

Ora, a parte la aleatorietà proprio del diritto d’autore, perché ci sono casi evidenti di plagi di intenzione che non possono venire bloccati, per plagio di intenzione si intende quando qualcuno copia lo stile di qualcun altro, non andando quindi a riproporre pedissequamente una qualche composizione, ma assimilandone fino in fondo lo stile e la scrittura, non fatemi citare certe canzoni dei TheGiornalisti e Umberto Tozzi o l’Antonello Venditti degli anni Ottanta, per dire, e poi ci sono denunce per plagio verso artisti che chiaramente non potevano neanche sapere dell’esistenza del brano che avrebbero copiato, questo almeno fino all’invenzione di Shazam, che ora permette a chiunque di sapere se quel che ha scritto ha già qualcosa di uguale in circolazione, a parte l’aleatorietà del diritto d’autore, mi sembra interessante soffermarmi su chi ha deciso, non tanto come gesto politico alla Negativland di “copiare” le opere altrui, quanto di andare proprio a simularne l’essenza, dando a sua volta vita a percorsi artistici che potrebbero correre paralleli agli originali, non fosse che nei due casi che andrò a citare le copie sono decisamente meno potenti delle matrici.

Parlo dei casi di Anonimo Italiano e degli Audio 2.

Il primo, al secolo Roberto Scozzi, ha fatto il suo esordio nel 1995 sotto il marchio Anonimo Italiano, nome supportato dal suo apparire col volto mascherato d’argento. Anonimo Italiano era un cantautore pop che copiava, d’intenzioni, palesemente Claudio Baglioni. I suoi singoli E così addio o Anche questa è vita ebbero un grande successo, oltre le centomila copie vendute, e il fatto che l’artista in questione emulasse chiaramente Baglioni, anzi, il Baglioni degli anni Ottanta, nel mentre il nostro si era spostato sulle lande più sperimentali di Oltre, spinsero molti a pensare fosse una trovata pubblicitaria ordita dall’autore di Questo piccolo grande amore.

Stanco di queste voci, Baglioni e la sua etichetta, la BMG lanceranno una diffida a Anonimo Italiano, diffida che però cadrà nel vuoto, proprio per l’insussistenza di qualsiasi idea di plagio. Il tempo di raccogliere il successo clamoroso e Scozzi si toglierà la maschera, venendo letteralmente allo scoperto già nel 1996, poco prima della della pubblicazione del secondo album, Buona fortuna. Va detto che da quel momento il successo per Anonimo Italiano scemerà, perché forse proprio in quella ambiguità stava parte della fascinazione per il pubblico, forse illuso che Baglioni volesse tornare a certe sonorità più semplici del passato.

Diverso è il caso degli Audio 2, band napoletana di stanza a Milano, il cantante abita dietro casa mia e lo vedo abbastanza spesso mentre se ne va in giro in bici vestito in modo eccentrico. Dopo aver piazzato rispettivamente i brani Neve, Si che non sei tu e Raso negli album di Mina Sorelle Lumière e Lochness, del 1992 e 1993, Massimiliano Pani, figlio della Tigre di Cremona, Dio da quanto volevo scriverlo, decide di produrre il loro primo album, omonimo. Album che viene pubblicato senza nessuna foto dei due, Giovani Donzelli e Vincenzo Leomporro e giocando su una vocalità del primo e la sonorità dei brani in tutto e per tutto simile a quella del Battisti del periodo nel quale collaborava con Mogol. Si che non sei tu e Per una virgola, questi i due singoli scelti, avranno un grande successo, successo che si protrarrà per anni, con gli album E=Mc2 e Senza Riserve, trainati dai singoli Alle Venti, col quale vincono il Festivalbar, Io ho te, finita anche nella colonna sonora del blockbuster Il ciclone, film d’esordio di Leonardo Pieraccioni, Rotola la vita, incisa anche in duetto con Mina, Specchi riflessi, continuando nel mentre la proficua collaborazione  proprio con Mina, per la quale scrivono diverse canzoni che finiscono in Canarino Mannaro e Pappa di latte, ma soprattutto in occasione dell’album dei record Mina Celentano, andando a scrivere il singolo di traino Acqua e sale, oltre che a piazzare Io ho te e Specchi riflessi nell’interpretazione di quei due giganti.

Ma non è certo la biografia degli Audio 2 che voglio scrivere qui, seppur vedere Donzelli andare in giro sempre con cappello e gilet da caccia per il quartiere mi abbia non poco incuriosito, lo confesso.

Il passaggio che mi interessa, perché mi sembra oggettivamente degno di menzione, è l’album che gli Audio 2 sforneranno nel 2009, per la Carosello, un album intitolato Mogol Audio 2.

Ora, sul fatto che il duo napoletano abbia giocato spudoratamente su una vocalità molto ma molto simile a quella di Lucio Battisti nessuno credo abbia da eccepire. Chiaramente, questo credo il segreto di una storia più lunga e con molti più successi di quella di Anonimo Italiano, supportata da ottime capacità compositive, in ambito pop, le proficua e lunghissima collaborazione con Mina, che proprio ai due deve buona parte delle canzoni belle pubblicate negli ultimi venti anni è lì a futura memoria.

Intendiamoci, non è che il riscontro di pubblico sia necessariamente la riprova di un talento, ci sono troppi esempi di cantanti di successo che di valore ne hanno davvero poco a riprova di ciò, ma appare evidente come buona parte dell’interesse riscontrato da Anonimo Italiano risiedesse nel mistero, sarà Baglioni che si riappropria del suo passato o un imitatore?, e proprio in quel rivolgersi a un passato passato che sembrava, così sarà, a non essere più replicato, al punto da farsi andar bene anche una versione liofilizzata di quella poetica, come un Bignami di un talento altrimenti immenso, mentre nel caso  degli Audio 2 il gioco è spostato su altre coordinate, sempre presente a una poetica ormai andata perduta, quella del Battisti periodo Mogol, certo, ma comunque supportato da una buona scrittura e mai spacciato per qualcosa di diverso da quel che era, nessun mistero, nessun gioco delle parti.

Quindi, dato per appurato che il citare Battisti periodo Mogol sia stata una costante della produzione degli Audio 2, e dato per appurato che la cosa, sulle prime, abbia in qualche modo infastidito i puristi del caso, non ci è dato di sapere di Battisti stesso, perché è noto che il nostro abbia deciso di non concedere più interviste ben da prima del loro arrivo sulle scene, sapere che di colpo Mogol decida non tanto di far loro guerra quanto di collaborarci, al punto da farci un lavoro insieme, mi ha spiazzato.

Chiaramente ai tempi il nostro più noto paroliere si è sperticato nel dire che è stata la qualità delle composizioni a indurlo a collaborare coi due, specificando come non gli fossero mai particolarmente piaciuti prima, ma è chiaro che dire ciò sia risuonato come una scusa, perché è piuttosto evidente che un progetto che attingesse alle emozioni dei fan di vecchia data di Battisti non può che aver infastidito colui che al fianco di Battisti operava, così come quel prendere le distanze suona molto fastidioso, a sua volta, come dire, prima non mi piacevano, ora che lavorano con me, sì.

Ma c’è altro.

Che Mogol abbia grande stima di sé è risaputo, lo stimiamo in molti, non ci trovo nulla di strano lo faccia anche da sé. Che abbia però voluto in qualche modo a ergersi a co-titolare del successo di Lucio Battisti è altrettanto evidente. Nel 2004, infatti, è uscita per Sony la raccolta Le avventure di Lucio Battisti e Mogol, volume 1, seguite l’anno successivo da un altro cofanetto, sempre di tre cd, con lo stesso titolo seguito da volume 2, una operazione atta evidentemente a appagare l’ego del creatore del CET, più che a sopperire a una mancanza di mercato.

Chiunque abbia avuto modo di seguire i tanti, tantissimi omaggi alla carriera di Battisti passati dalle tv generaliste avrà notato come molto si sia sottolineata l’importanza di Mogol riguardo l’importanza di quel repertorio, tanto quanto si sia bellamente evitato di parlare, e quindi di invitare in studio, di Pasquale Panella, poeta e autore di testi che ha stretto con Battisti un sodalizio a mio avviso altrettanto importante, quello che ha portato alla creazione dei cinque album più sperimentali della carriera del cantautore di Poggio Bustone: Don Giovanni, L’Apparenza, La sposa occidentale, CSAR e Hegel. Mancanza, questa, che personalmente trovo vergognosa, ma è chiaro che Mogol sia una figura centrale nella storia della nostra musica leggera, e che sia ancora lì, in un ruolo importante (al momento è anche presidente della SIAE), mentre Panella sia altrove, poeta poco incline a sgomitare per farsi notare, il fatto che uno sia su un trono e l’altro neanche venga evocato è il triste frutto di una contingenza. La storia la scrivono i vincitori, si dice genericamente, in questo caso la scrivono i viventi.

Tornando però a noi, il fatto che colui che in qualche modo ha contribuito al successo di Battisti si metta a collaborare con la band giunta sul mercato esattamente nel momento in cui dal mercato spariva (presto sarebbe anche morto), emulandone vocalità e scrittura, per quanto possibile, mettendo addirittura il suo nome prima di quello degli artisti stessi, fatto inedito, ovviamente, è piuttosto interessante, quasi un voler riconoscere dignità al plagio d’intenzione, seppur praticato per tutt’altre finalità.

 Nel mio piccolo a me è successo qualcosa di analogo, e in questo caso credo di poter dire che non c’era certo una finalità neanche abbozzata di nutrire il proprio ego da parte dell’interessato. Come ho avuto più volte modo di raccontare, se ho avuto modo di esordire come scrittore, ventitré anni fa, è grazie all’intervento di Nanni Balestrini, poeta, narratore e fondatore del Gruppo 63. Fu lui a portarmi a Ricercare 97, laboratorio di scritture all’epoca molto attenzionato dagli editori, fu lui a scrivere la prefazione al mio libro d’esordio, furibonde giornate senza atti d’amore, fu lui a farmi poi pubblicare il mio primo romanzo, Questa volta il fuoco. Al momento del mio esordio io scrivevo in un modo che dire balestriniano è riduttivo. Lo emulavo, provavo a seguirne fedelmente la traccia, non avessi stima di me potrei dire che lo copiavo. Certo, avevo anche mie peculiarità nello scrivere, ma era chiaro a tutti che Nanni Balestrini fosse il mio faro. Il suo volermi appoggiare e sostenere era, così mi sono detto all’epoca e così mi dico anche oggi, un modo per darmi una possibilità, contando sul fatto che poi avrei trovato la mia strada, la mia lingua, la mia poetica. Se qualcuno avesse azzardato una critica nei miei confronti, è evidente, è proprio sul mio emulare Balestrini, per altro senza avvicinarmici, che avrebbe potuto infierire, ma la sua presenza costante al mio fianco ha in qualche modo bagnato le polveri dei miei detrattori, questo finché simbolicamente non ho “ammazzato mio padre”, andando a parare altrove.

Tutto questo per dire cosa?

Tutelare il diritto d’autore è sacrosanto, questa la morale di questa favoletta, così come sacrosanto è il diritto di chiunque di non riconoscersi nel modo in cui un biografo ha deciso di raccontare la propria vita, resta che anche rielaborare le opere altrui è a sua volta creare, si tratti di scrivere canzoni che richiamano alla mente il repertorio di qualcun altro o mettere su una pagina trame che altri hanno vissuto sulla propria pelle.