Ciao sono Michele, quello che racconta le vite degli altri

Scrivere le biografie è un modo per conoscere meglio un personaggio e per mettere sul tavolo anche parti di me


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Giorni fa una solerte lettrice in un commento a un capitolo di questo diario, credo fosse quello uscito venerdì della scorsa settimana in cui parlavo del nuovo album di Baglioni, si interrogava sulla mia scrittura, chiedendosi se mai i miei professori, ai tempi in cui andavo a scuola, mi avessero spiegato che un testo deve essere per sua natura scorrevole. Col che, evidentemente, intendeva dire, e in effetti nel resto del commento ci si soffermava su parecchio, che la mia scrittura non fosse, e di conseguenza non sia, scorrevole, non sia affatto scorrevole. Non ho risposto al commento, non ho mai grande passione nel rispondere a chi mi commenta, non tanto per supponenza, forse un po’ anche per quella, quanto perché non ho mai inteso il rapporto tra scrittore e lettore come un rapporto che si esprime su entrambe le direzioni. Io scrivo, voi leggete. Quando leggo, intendo, leggo quello che voglio leggere, gli autori che mi interessano. La signora di cui sopra, che per altro si firmava con un nick name, non rientra nel novero.

Avessi comunque risposto, e in qualche modo lo sto facendo ora, avrei detto alla signora in questione che sì, gli insegnanti mi hanno spiegato che un buon testo deve avere come caratteristica quello di essere scorrevole, almeno se si parla di un tema, in Italia non esistono corsi di scrittura creativa, sicuramente non alle scuole superiori e credo ce ne siano pochi anche nelle università, e magari anche in un articolo. Quando scrivevo temi, in effetti, provavo a essere lineare e scorrevole, non sempre con buoni risultati, non ho mai brillato particolarmente a scuola. Anzi, proprio giorni fa mia moglie Marina ha raccontato, con un pizzico di orgoglio di moglie, di come durante l’esame di maturità uno dei membri esterni della commissione esaminatrice, all’epoca gli esami di stato si tenevano tutti con una commissione esterna, un solo rappresentante dei nostri professori presente, mi avesse palesemente preso in giro durante l’esame allorché a precisa domanda avevo risposto che di lavoro avrei voluto fare il giornalista, dicendomi, per altro anticipando di decenni una vulgata oggi piuttosto presente specie sui social, “Tu al massimo potrai fare il giornalaio”. Episodio che avevo dimenticato, talmente poco la scuola mi ha dato che ho praticamente rimosso buona parte di quella inutile esperienza, compresa questa, ma che pensando al lavoro che faccio in effetti mi fa sorridere, senza neanche lo sforzo di provare rancori o altro verso un miserabile professore da strapazzo che provava a bullizzare uno studente.

Dicevo, comunque, che a scuola mi sono attenuto a queste indicazioni, e anche nei miei primi approcci al mestiere di giornalista, seppur io ostenti di non essere mai divenuto giornalista professionista né pubblicista, perché ritengo la categoria poco onorevole e perché ritengo che l’idea stessa di albo professionale sia una baggianata, nei fatti scrivo professionalmente per quotidiani e riviste da circa venticinque anni, ma non ho sempre scritto come scrivo ora. Solo che a un certo punto gli editori per i quali scrivevo, anche i direttori per i quali lavoravo, hanno cominciato a lasciarmi libertà stilistica, ero uno che pubblicava libri, uno scrittore, perché mai avrei dovuto utilizzare la lingua neutra che in genere si chiede al cronista? A volte si sono addirittura spinti a chiedermi di scrivere alla mia maniera, magari in occasioni nelle quali ero stato un po’ morigerato nel farlo. Di fatto nessuno ha più pensato di aspettarsi da me cose diverse da quelle che decido di fare. Da tempo ho infatti optato per provare a mettere dentro i miei articoli, articoli che ho sempre faticato a chiamare così proprio per questo mio scriverli con uno stile letterario, senza per altro seguire nessuna delle regole fondamentali del genere, le famose cinque W di americana memoria, la linearità, la stringatezza, così ho optato per provare a mettere dentro i miei scritti, chiamiamoli così, tutta quella che era la mia poetica e il mio stile, partendo dal presupposto che se la forma è sostanza la sostanza è a sua volta forma, e che la scorrevolezza può essere un valore aggiunto solo se si ritiene che chi ci legga abbia poco tempo da dedicarci, poca voglia di staccare da quel che lo circonda e più in generale non sia intenzionato a accettare la sfida di chi ha scritto quel che lui sta leggendo.

Per dire, tutti sanno bene come nel web i pezzi debbano essere massimo di duemila parole, debbano avere delle paroline ripetute nelle prime due frasi, le cosiddette SEO, e  debba sin da subito dichiarare dove andrà a parare, tutte cose che in un mio qualsiasi pezzo, circa ventimila battute, nessuna parola ripetuta nelle prime righe e soprattutto il tema centrale spesso sviluppato nelle ultime frasi, non trovano asilo, se volevo fare il giornalista avrei fatto il giornalista e non lo scrittore, e avrei concentrato le mie attenzioni su altro che non fosse lo stile letterario.

Quindi, signora mia, sì, ho presente bene cosa sia la scorrevolezza, e me ne tengo a debita distanza da che ho avuto la possibilità di farlo, se non le piace quel che scrivo ha agio di non leggermi, non la verranno certo a cercare i miei pezzi, né tanto meno io.

Nei fatti ho iniziato a scrivere, ormai ventisette anni fa, sono un classico caso di enfant assai poco prodige, provando a cercare una mia lingua, e nei fatti proponendo un linguaggio che non aveva nessuna personalità, fatto che immagino non sia poi così raro, quando si è alle prime armi, quando cioè ci si affida solo al talento, perché credo che farlo in assenza di quello non porti da nessuna parte, ma in assenza di mestiere, di competenze, senza saper maneggiare quegli attrezzi che in qualche modo ci saranno di supporto proprio quando magari il talento, in seguito, si appannerà, o quando verrà meno l’ispirazione, trattata da alcuni come unico faro ipotizzabile, derisa da altri come chimera inesistente. A un certo punto, l’ho già raccontato, ho incontrato sulla mia strada prima la scrittura e poi direttamente la persona di Nanni Balestrini, poeta d’avanguardia, membro fondatore del Gruppo 63, agitatore culturale che si è preso la briga di allevarmi, di darmi i primi consigli, di introdurmi al mondo delle lettere, di accompagnarmi alla mia prima pubblicazione. A dirla tutta ho praticamente pubblicato quelli che erano tutti i primi racconti che ho scritto, prima su alcune riviste, tipo Il Maltese, o Addiction, poi su quel mio libro di esordio, e da allora ho pubblicato ogni cosa io abbia scritto. Ho i cassetti letteralmente vuoti. Tornando però a quei tempi, parliano del 1997, del 1998, la mia scrittura era in sostanza una sorta di versione vagamente rivista della sua, la scrittura del mio mentore Nanni Balestrini, una scrittura fatta in metrica, in lasse, ovvero in quelle che nel rap si chiamano barre, tutto senza punti e senza maiuscole, una sorta di via di mezzo tra poesia e prosa, molto pretenziosa, per altro, con un continuo citare pezzi di altri libri, di canzoni, dialoghi di film, la lezione di William S. Burroughs che si faceva largo in me, alcune parole usate per tenere il tempo, come le singole parti di una batteria. Il tempo di esordire e tutto questo mi è sembrato superato, ho ucciso, metaforicamente, il mio padre Balestrini, me ne sono allontanato, ho sposato una scrittura decisamente più “normale”, anche perché nel mentre ho iniziato a collaborare per riviste e quotidiani. Nel 2003 la svolta, si fa per dire, dopo aver passato un paio di anni a fare il ghost writer, cioè a scrivere libri che avrebbero firmato altri, cantanti o sportivi, prevalentemente, grande lezione di stile, perché in quel caso devi provare a inventarti una lingua letteraria che somigli o allo stile canoro o al parlato dei personaggi di cui vai a fare da ghost writer, ho deciso che era arrivato il momento di prendere la mia carriera tra le mani. Così ho mollato un contratto da collaboratore fisso di una rivista, la famosa scrivania, ho pubblicato un primo libro nel quale la lingua che praticavo era davvero la mia, God Less America, uscito a doppia firma mia e di Cristina Donà, ma nei fatti equamente spartito tra me e lei, io a scrivere il libro, lei a curare il DVD che era allegato al tomo, e ho anche iniziato a scrivere biografie di cantanti, scritte però non con la loro lingua, ma con la mia.

È piuttosto buffa, questa cosa. Quando mi arroccavo dietro una forma ambiziosissima di letteratura, quando cioè per qualche tempo sono stato uno scrittore di narrativa che voleva essere riconosciuto dal mondo degli scrittori e dei critici, uno scrittore che poi faceva anche altro, scriveva articoli, ma era prevalentemente uno che avrebbe voluto campare scrivendo romanzi, mi toccava in realtà vivere scrivendo libri che poi avrebbero firmato altri, fatto che ha almeno in due casi incontrato un immenso riscontro di pubblico, due dei libri più venduti dei primi anni zero sono passati da me, un giorno magari racconterò anche quali. Nel momento in cui ho deciso di staccarmi da quel meccanismo, provando a parlare solo con la mia voce, ma in qualche modo orientando la mia produzione verso un genere di libri che in editoria a volte neanche vengono considerati tali, è noto che Arturo Ferrari, il grande capo per anni e anni del Gruppo Mondadori abbia chiamato quei testi libroidi, in qualche modo identificandoli come qualcosa di meno nobile dei libri libri, seppur lui sia ben consapevole che l’editoria è proprio sui libroidi che si regge in piedi, ecco, nel momento in cui ho deciso di camminare per conto mio, scrivere libri che avrei firmato io, scritti con la mia lingua, ho incontrato quell’opportunità che quando ci credevo fermamente mi era stata negata, cioè vivere dichiaratamente di scrittura.

Poi, volendo, si potrebbe aprire un qualche nuovo capitolo riguardo il fatto che io abbia deciso per essere me stesso di raccontare le vite degli altri, facendo di questo mio fare il biografo una caratteristica per la quale sono non solo riconosciuto in ambito editoriale, ma anche riconosciuto da una buona fetta di pubblico, i numeri dei libri con il mio nome che sono in giro per le case degli italiani, per usare una brutta espressione, supera il milione e duecentomila copie, fatto che credo mi indichi come uno degli scrittori italiani viventi che ha venduto di più, sicuramente più di buona parte di quegli scrittori cui si pensa quando a voce alta si dice la parola “scrittore”, quelli da premi letterari, da salotti buoni, da programmi televisivi, ma credo che essere un biografo, cioè uno che riesce a raccontare le vite degli altri sia una caratteristica che in qualche modo diventa collaterale all’avere uno stile proprio, volessi giocare a alzare la posta in gioco dovrei parlare di un talento che si unisce a un altro talento, perché di biografie ne escono ogni settimana a decine, ma va detto che non tutte sono baciate da buoni risultati, al punto, poi da essere passato dall’essere ghost writer e poi biografo, a essere quello che gli artisti scelgono per co-firmare con loro le proprie autobiografie.

Ho sempre creduto, e lo credo fermamente anche ora, a cinquantuno anni compiuti, con ottanta titoli che vedono il mio nome come autore o co-autore alle spalle, ultimo dei quali Let Them Talk di Cesare Cremonini, fresco di uscita per Mondadori, ho sempre creduto che trovare il modo giusto per raccontare la vita di qualcuno sia difficile tanto quanto trovare una trama avvincente per un romanzo, forse anche di più. Perché è vero, nel caso di una biografia la trama già c’è, è la vita dell’artista o del personaggio di cui si va a raccontare, ma è anche vero che è una trama per certi aspetti molto conosciuta, o almeno molto conosciuta al pubblico che si suppone l’andrà a leggere, quella di chi è interessato a quel nome, e soprattutto, specie nel caso in cui la biografia sia una autobiografia co-firmata, che cioè sia un libro che vede il coinvolgimento diretto del nome interessato, la trama è addirittura con buona probabilità una trama filtrata, i lati oscuri sovrastati dai chiari, in alcuni casi addirittura eclissati dai chiari. Per questo affronto le vite degli altri, quelle che poi finiscono dentro quei libri, provando a farle esplodere, di guardarle da punti di vista differenti, magari come Durrell nel quartetto di Alessandria, o più semplicemente perdendomici dentro, quindi abbandonando in partenza l’idea di una sequenza cronologica, anzi, spesso cercando un metodo che sia del tutto altro rispetto al mero succedersi di fatti e eventi. Una specie di viaggio fatto senza bussola e mappe, mica sarà un caso che sono arrivato alle biografie dopo aver per anni fatto il reporter, dove a orientarmi è quasi solo l’intuito, e dove di volta in volta è un confronto con il nome di cui vado a raccontare, si parli di lui in terza persona o si decida di farlo in prima, poco cambia.

Scrivere le vite degli altri, quindi, è anche un modo non solo per conoscere meglio un personaggio, e magari farlo conoscere meglio anche a se stesso, ma per mettere sul tavolo anche parti di me, perché ovviamente quando si scrive si compie quella strana forma di psicanalisi che ci aiuta sempre a conoscere qualcosa che non sapevamo di sapere. Esattamente come si fa coi viaggi veri e propri, quando cioè si va in luoghi che non conosciamo, per scoprire nuove culture e tradizioni, certo, ma anche per mettere noi stessi in qualche modo alla prova, per spingerci oltre i nostri limiti, metterci alla prova.

Ho scritto molte biografie in questi ventitré anni da che pubblico libri, quasi una trentina, e ho scritto anche molti libri di viaggio, una ventina circa, come ho scritto molti articoli nei quali parlo di artisti e molti articoli nei quali parlo di luoghi.

Il punto di partenza di questo capitolo, l’essere criticato per non scrivere in maniera scorrevole, o più in generale per non sottostare alle ferree regole che ci vengono impartite meccanicamente quando si va a scuola, così come il fatto che io abbia nel tempo sviluppato due filoni che in qualche modo si compendiano, cioè scrivere quel che mi va con uno stile molto personale, assolutamente non scorrevole, e raccontare le vite degli artisti, spesso lavorando a stretto contatto con loro, credo che non siano argomenti poi così slegati tra loro, anzi, per questo sono partito dall’opinione di una tizia di passaggio, elevandola al ruolo di mente pensante, seppur impegnata a dire qualcosa in sé di irrilevante. Come credo che siano strettamente legati il mio essere un critico musicale che non lesina il suo pensiero, attraverso quello stile personale di cui ho parlato sopra, con il mio raccontare le vite anche di quegli stessi artisti, alla faccia di quelli che poi pensano che aver scritto libri su Tizio o Caio significhi che io ne sono fan, o, peggio, che siccome ho scritto libri su Tizio e Caio abbia mangiato nel loro piatto e nel loro piatto non dovrei sputare, come se io i libri li scrivessi perché dentro c’è Tizio e Caio, non per come scrivo e per cosa scrivo, come, cioè, se i titoli che finiscono nelle copertine dei libri non siano sempre posti sotto il nome dell’autore, a sacrosanta ragione. Credo piuttosto che Tizio o Caio dovrebbero essere felici se gli ho dedicato un libro, perché da una parte significa che la loro carriera è a un punto tale che giustifichi la presenza di un libro mio in libreria, e perché il fatto che io abbia scritto di loro non può che essere una nota di merito a loro favore.

Il giorno in cui qualcuno scriverà un libro sulla mia vita, qualcuno che non sia io, mi guarderò bene dal dirgli che ha mangiato nel mio piatto. Anzi, mi chiedo perché ancora nessuno ci abbia pensato, la storia di un critico rock’n’roll che sta talmente in antipatia ai colleghi che tutti si dimenticano di citarlo quando parlano dei libri cui ha messo mano, ma che al tempo stesso è anche un autore di best seller richiesto dagli artisti meriterebbe sicuramente un libro, forse anche una serie di Netflix. Peccato che sia così più vecchio di me, se no al mio posto ci avrei visto bene Al Pacino, va beh, magari lo chiedono a Keanu Reeves e non ne parliamo più.