Viaggiare da fermi con la musica ambient: On Land di Brian Eno

Viaggiare da fermi si può anche in questi giorni di lock down, basta solo saper scegliere le opere giuste


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Ho passato una parte importante della mia vita professionale in viaggio. Esattamente come è andata per il mio scrivere di musica per riviste e quotidiani, è successo che un mio racconto abbia indotto colui che all’epoca era il caporedattore di Gente Viaggi, Franco Berton Giachetti, a chiedermi di collaborare con la rivista principe di viaggi in Italia, cosa che accettai prontamente. Era il 1998, avevo esordito da neanche due mesi con la mia raccolta di racconti, “furibonde giornate senza atti d’amore”, che qualcuno mi pagasse tanto quanto uno stipendio medio per scrivere il resoconto di una mia camminata per i Monti Sibillini mi sembrava davvero una cosa al limite del paradossale. Nel mentre avevo anche iniziato a scrivere per Panorama, di musica, e l’ex caposervizio dell’area Spettacoli, Silvestro Serra, sarebbe diventato direttore di Gente Viaggi proprio nel numero che avrebbe visto il mio esordio come reporter. Una casualità che però diede vita a una collaborazione proficua, fatti di tantissimi reportage e di conseguenza tantissimi viaggi, alcuni davvero esaltanti, come il coast to coast sulle orme di Springstenn in compagnia di Cristina Donà, negli USA, e il mio viaggio nella Malesia salgariana, un mese a botta.

Quando nel 2006, mi sembra, Gente Viaggi ha chiuso i battenti, sono passato per un po’ a scrivere per Viaggi e Sapori, a sua volta destinato a chiudere i battenti, la rete che ha sostanzialmente azzerato quel settore editoriale. Ma finché c’è stato sono stato molto attivo, con gli alti e bassi che avere quattro figli comporta, ma comunque sempre sul pezzo.

Ho girato mezzo mondo, pagato assai per fare una cosa che altrimenti avrei pagato di tasca mia, e ho iniziato a mia insaputa a praticare la psicogeografia, disciplina che ha per padre Guy Debord e i situazionisti francesi e per figlio Iain Sinclair, disciplina che poi avrebbe plasmato tutto il mio modo di scrivere, anche di musica. Ho ovviamente anche pubblicato libri di viaggi, poco meno di una ventina, fatto che in un mondo normale dovrebbe farmi identificare come uno dei più prolifici scrittori di viaggio italiani, ma che nei fatti è semplicemente uno dei campi d’azione nel quale mi sono mosso.

Certo, la collana Europe uscita per Laurana Editore, dodici libri dedicati a dodici capitali europee usciti in dodici mesi, proprio nel momento in cui la crisi economica che aveva toccato la Grecia contaminando il resto del continente, è uno dei miei fiori all’occhiello, un’esperienza editorialmente e umanamente unica che non mi dispiacerebbe prima o poi replicare, ma è evidente che la mia storia personale mi abbia portato più a scrivere di musica che di viaggi.

Del resto oggi viviamo in un periodo nel quale anche solo ipotizzare di andare in un altro paese diventa quasi fantascientifico, sia per lavoro che per vacanza. Ecco, da che i gemelli sono cresciuti, giorni fa vi parlavo del nostro primo viaggio da famiglia numerosa in Engadina, abbiamo ripreso a muoverci non solo in Italia, provando a sperimentare viaggi che sulla carta sono tranquilli, ma che se fatti in sei, sette persone, diventano quantomeno molto complessi e onerosi. Siamo stati in Engadina, appunto, poi siamo andati in Svezia, a Stoccolma, siamo andati in Romania, tra Bucarest e la Transilvania, e l’anno scorso, anno scorso che a ripensarci oggi sembra distante anni luce, siamo andati un po’ a zonzo tra est e nord Europa, partendo da Budapest, infatti, siamo andati a Zakopane, in Polonia, sui Monti Tatra, passando per Bratislava, In Slovacchia, poi ci siamo spostati a Cracovia e infine, facendo una tappa a Breslavia, siamo andati a Berlino, per poi tornare a casa. Un viaggio fatto in macchina, molto affascinante.

Quest’anno, non fosse arrivato il Covid, avremmo voluto riprendere da lì, andando a toccare il nord della Polonia, un’altra parte della Germania per poi chiudere in Danimarca.

Abbiamo figli che crescono, cerchiamo sempre di pensare vacanze che siano compatibili anche con le loro esigenze, oltre che con le nostre esigenze economiche, e soprattutto cerchiamo di goderci finché possiamo il nostro stare tutti insieme. Avevamo iniziato a programmarla proprio nei primi giorni del primo lock down, poi sappiamo tutti come è andata a finire.

Il motivo per cui volevamo chiudere il nostro viaggio in Danimarca è legato in realtà all’inizio del viaggio precedente, a Budapest, anche se ovviamente affonda le radici più nel fatto che né io né Marina siamo mai andati da quelle parti.

Quando infatti è iniziato il nostro precedente viaggio, è successo un fatto che, lo sapete già, ora vi vado a raccontare. Muoversi andando a zonzo, alla deriva, errando, è parte integrante della psicogeografia di cui vi parlavo prima, se mi leggete ne avete fatta esperienza ogni volta che siete incappati nelle mie parole, non dovreste faticare a capire di cosa parlo.

Siamo arrivati a Budapest di mattina presto, con l’aereo. Abbiamo preso un pulmino che ci ha portato all’indirizzo della prima casa che avevamo affittato, tendiamo a non andare in albergo, anche in paesi nei quali andare al ristorante costa poco più che cucinare a casa. La nostra intenzione era lasciare le valige e andare poi alle famosissime Terme di Budapest, per rilassarci un po’, era il nostro primo giorno di vacanze, e caricarci per i giorni successivi. In genere quando viaggiamo camminiamo tantissimo, in quella vacanza abbiamo tenuto una media di circa quindici chilometri al giorno, con picchi di quasi ventidue, e considerate che i gemelli avevano neanche compiuto gli otto anni. Arriviamo quindi all’indirizzo dell’appartamento che avevamo prenotato. Il padrone di casa era stato piuttosto vago nelle risposte, mandandoci le indicazioni solo la sera prima della partenza, ma avevamo stampato il tutto e ci apprestavamo a seguire pedissequamente le sue istruzioni, che campanello suonare, che scala salire, quale portone aprire non prima di aver recuperato le chiavi nascoste in un vaso di fiori. Arriviamo davanti alla porta entusiasti, l’appartamento era su un ballatoio affacciato su un cortile tutto sgaruppato, questo nonostante il palazzo, all’esterno, apparisse decisamente più bello. Questa deve essere l’Ungheria, ci siamo detti io e Marina salendo le scale con le pesanti valige, invero portate da me e da Tommaso, vedi il patriarcato?, una mano di smalto sopra rovine e macerie.

Stiamo per prendere le chiavi nella fioriera che il tipo ci aveva indicato nel messaggio, quando la porta dell’appartamento nel quale avremmo passato le nostre notti ungheresi si apre, Robin Williams dietro la porta.

Il messaggio diceva che forse ci sarebbe stato l’host, il padrone di casa o comunque un incaricato del padrone di casa, e subito sia io sia Marina abbiamo pensato che quello che era a tutto diritto il sosia perfetto di Robin Williams, ovviamente non poteva essere l’attore americano, morto suicida anni prima, fosse appunto lì per accoglierci. I fatti erano ben altri. Robin, fatemelo chiamare così, ci spiega che lui è un turista danese, ah, la Danimarca, e che è lui che ha affittato l’appartamento per i giorni successivi. Entriamo un pochetto nel panico. I figli si stravaccano sul ballatoio, chi scazzato chi in preda all’ira, Tommaso, il più sensibile, inizia a piagnucolare, teme che passeremo la notte all’addiaccio, come in un romanzo di Jack London, Budapest come il nostro Klondike. La faccio breve. In effetti Airbnb ha commesso un errore, ha accettato due prenotazioni per lo stesso appartamento. Lo scopriamo parlando a fatica con l’host, al telefono. Il tipo non mi risponde, infatti, mandando messaggi su Whatsapp che ci invitano a richiamarlo nel pomeriggio. Gli spiego il problema, non certo escludendo dal mio parlare termini che in un contesto normale mi procurerebbero una denuncia per diffamazione. Il tipo finalmente risponde, e ci spiega che non sa di cosa parliamo. Gli mando screenshot delle nostre conversazioni della sera prima. Ammette che c’è un problema. Nel mentre Robin non solo è entrato in contatto con Airbnb, ma ha anche offerto da bere, Coca Cola e Sprite, ai miei figli, dimostrando una gentilezza che nulla ha a che vedere con la mia visione della Danimarca, per me un luogo freddo e ostile, pieno di Re cattivissimi che fanno morire le Ofelie nei fiumi gelidi, una terra piena di marciume, manco a dirlo. L’host, che comunque continua a ripetermi che ha altro da fare, dietro mia insistenza mette una pezza alla situazione, ci dice che c’è un altro appartamento con le stesse caratteristiche, un paio di chilometri distante da lì ma sempre in centro. Solo che è libero dal pomeriggio. Dietro mie altre rimostranze mi dice che a metà strada tra i due appartamenti c’è un locale, un ristorante, dove c’è un posto preposto a lasciare le valige. Io e Marina decidiamo di accettare la nuova proposta, non che ci siano altre idee sul tavolo, andremo al locale, lasceremo le valige, poi andremo come previsto alle Terme, ci rilasseremo, torneremo al locale, recupereremo le valige e la sera andremo nel nuovo appartamento. Tutto risolto. Così facciamo, ringraziando Robin e decidendo che la Danimarca sarebbe stata tappa nel prossimo viaggio, vedi la riconoscenza dove ti porta. Andiamo nel locale e arriva un nuovo problema. Il ragazzo che sta alla cassa non vuole prendere le nostre valige, ci spiega che l’host è un cafone che usa il suo locale come fosse casa sua, ci dice che la deve smettere. Gli spieghiamo che è l’host del nostro appartamento, non il nostro migliore amico, che ci frega che sia un cafone. Lo chiamiamo al telefono e il ragazzo lo maltratta per un po’, poi ci lascia appoggiare le valige in una stanza preposta. Dentro di noi maturiamo la percezione che l’Ungheria sia una nazione magari anche molto bella, ma popolate da un esercito di filonazisti che andrebbero giustiziati in pubblica piazza, gioendo per il trattamento che Rocco Siffredi sta impartendo a buona parte della popolazione femminile locale (lo so, è un passaggio sessista di cattivo gusto, ma se ci ripenso dichiarerei guerra ora a Orban e tutti gli ungheresi). Andiamo alle Terme, i Bagni Széchenj, davvero strepitose, ci rilassiamo, facciamo i nostri bagni, le foto, tutto, poi torniamo al locale, dove stavolta nessuno ci dice niente. Andiamo verso il nuovo appartamento, maledicendo l’inventore dei sanpietrini e le amministrazioni comunali che non li sostiutiscono con l’asfalto. Usciamo dalla metro a due passi dal Parlamento, che è uno dei luoghi più belli di tutta Budapest, e non solo. Il palazzo all’indirizzo indicatoci dall’host è assai più bello del precedente, a circa trecento metri dal Parlamento, quindi in zona supercentrale. Io e Marina pensiamo che forse ci è andata bene così. Parliamo ovviamente troppo presto. L’host ci ha dato indicazioni precise su come aprire il portone, con un codice da fare al citofono. Ci ha spiegato che scala salire, la prima, e che appartamento raggiungere, l’ultimo a sinistra sul ballatoio. Ci ha anche detto che se la donna delle pulizie non fosse più presente, lo avevamo avvertito che saremmo arrivati tardi, dopo la giornata alle Terme, avrebbe lasciato le scale sotto lo zerbino. Tutto molto preciso, tutto molto bello, solo che non c’è lo zerbino. Entriamo di nuovo nel panico. Tommaso piange apertamente. I gemelli si buttano a terra, come piccole Linda Blair che hanno passato un pomeriggio intero alle Terme. Io divento Furyo, protagonista dell’omonimo film che vedeva la partecipazione di David Bowie. Chiamo l’host, il quale stavolta risponde. Gli spiego la situazione. Lui mi dice che mi sbaglio. Ora, non so voi, ma se sei davanti a un portone senza zerbino e uno ti dice di guardare sotto lo zerbino, dicendoti che è impossibile non ci sia, ci sono ottime possibilità che tu vada fuori dai gangheri. Io vado fuori dai gangheri. Urlo. Impreco. C’è un appartamento pieno di statue greche, immagino finte, proprio di fronte al portone che lui ci ha indicato, è il solo segno di vita che ravvisiamo nel palazzo, ma i tipi che dentro stanno allestendo non so cosa, probabilmente proprio il set del prossimo film di Rocco, ci spiega che in effetti non è quello l’appartamento che l’host ci ha promesso. Urlo ancora più forte, dicendo all’host di palesarsi lì entro pochi minuti o come un Liam Neeson più basso ma con più barba lo andrò a cercare per tutta Budapest. Lui dice che non può. Urlo ancora di più. Scende un condomino del piano di sopra, il quale, spaventato, ci chiede che sta succedendo. Gli spieghiamo la situazione, ci chiede di poter parlare lui al telefono con l’host, e l’host, che fa, si mette a piangere al telefono con lui. Piange, sì, piange come un vitellino mandato al macello, dicendo che lui non sa cosa fare. Cioè, noi siamo in giro dall’alba, anche prima, stranieri in terra ostile, e lui piange, lui. Il condomino, che evidentemente è dotato di più self control e senso pratico dell’host, decide seguendo non so che intuizione di smontare una sorta di scatola di plastica contenente fili elettrici di diversi colori. Smonta il coperchio, sposta dei fili e, zac, eccoti le chiavi dell’appartamento. Come per miracolo. Come nel finale di un film natalizio. Lo ringraziamo, non prima di aver mandato a quel paese l’host.

Entriamo finalmente nell’appartamento, ormai sono quasi le nove di sera e non abbiamo nessuna idea di dove andremo a mangiare, considerate che abbiamo preso un aereo alle sette di mattina, cioè che abbiamo lasciato casa nostra intorno alle quattro. Entriamo. I bambini e i ragazzi corrono. Lucia, la più veloce, perlustra velocemente la casa, cercando di capire dove sarà la sua camera. Tendenzialmente lei prende sempre una camera da sola, perché vuole godere di quel vecchio ricordo di quando era figlia unica, esperienza che giusto in vacanza riesce a rivivere. Anche qui, però, c’è una piccola sorpresa. Non graditissima. C’è un ingresso con cucina sulla sinistra. Un corridoio che da in una camera matrimoniale e in una sala. Come dire, mancano due camere, con relativi letti. Siamo in sei e si vede giusto un letto matrimoniale. Nei fatti c’è un’altra camera matrimoniale, appena entrati sulla sinistra. Entrando l’ho vista, e l’ha vista anche Lucia. Tommaso no. Infatti inizia a urlare. Perché si immagina di dover passare la prima parte delle vacanze a dormire in terra, come uno scappato di casa. Ignora che, a mali estremi, avremmo potuto optare per un albego. E ignora pure che quando si tratta di essere pratici non mi batte nessuno. Ci sono due letti matrimoniali, di cui uno bello grande. Io e Marina prenderemo quello nella stanza di fianco alla porta d’ingresso, Tommaso e i gemelli prenderanno quello grande nella stanza in fondo. Lucia dormirà in sala, su un materasso che ho trovato ancora incellophanato dentro lo sgabuzzino che si trova nella cucina. Tutto è risolto. Giusto il tempo di lasciare le valige e andiamo in una pizzeria italiana  due passi da lì, Da Mario, unica eccezione alla regola che ci siamo autoimposti di non andare mai a mangiare da nostri connazionali quando siamo all’estero, eccezione che in verità ci troveremo a praticare anche altre volte, perché la cucina polacca non incontrerà esattamente i gusti dei nostri figli.

Tornati in Italia Tommaso dichiarerà che la città che gli è piaciuta di più è proprio Budapest, per la sua pulizia, per l’ordine che ha trovato in giro, per quel senso di precisione che più si addice a un piccolo nazista come lui. Ovviamente Lucia si trasferirebbe anche domani a Berlino, città esplosivamente piena di input, di colori, di diversità di vario genere. Il bello di avere tanti figli sta anche nel vedere come dagli stessi genitori possano arrivare figli tanto diversi, nei modi e nei gusti.

Ora come ora parlare di viaggi fa lo stesso effetto che suppongo possa fare a chi l’ha vissuta sulla propria pelle, rievocare questa o quell’occasione storica, la caduta del muro di Berlino, l’attacco alle due torri, i palleggi al San Paolo dell’appena arrivato Maradona. Qualcosa che profuma di bello, certo, ma che sta arroccato in un passato che non sembra replicabile, che non prevede ritorni di scena a breve.

Abbiamo però ancora la musica, quella almeno non ce la può levare nessuno, e finché la brocca ci regge abbiamo la capacità tutta umana di viaggiare con la fantasia.

So di averla presa davvero da lontano, stavolta, ma era necessario.

Del resto non siamo neanche arrivati ancora a affacciarci sul punto panoramico, portate ancora un minimo di pazienza.

Il termine musica ambient mi agghiaccia.

Sarà che la associo a certa new age che trovo sia esattamente all’opposto della mia visione hardcore del mondo, sarà che in genere ce la sparano come sottofondo in quei luoghi in cui, a mio modo di vedere, di musica potremmo assolutamente fare a meno, dalle su citate terme agli ascensori, sarà più in generale che la musica slegata dalla forma canzone mi risulta ostica, troppo legato all’idea del canto, forse.

Nei fatti quasi tutto quello che in ambito ambient ha fatto Brian Eno, cui si deve a tutti gli effetti la codificazione del genere, forse anche l’invenzione del genere stesso, lo adoro. Lo adoro razionalmente ancor prima che emotivamente, lo trovo arguto, geniale, mi affascina.

La metto così, non invidio quasi nessuno, al mondo, felice della vita che mi è capitata, anche nei suoi aspetti meno luminescenti, ma se proprio mi dovessi sforzare di trovare un nome cui destinare un po’ di invidia nel mondo della musica, ecco, è quello di Brian Eno, l’artista che ha messo mano a un numero così incredibile di opere che amo da farmi quasi pensare a una specie di miracolo.

La musica ambient, quindi, in sé mi agghiaccia, ma non quella creata da Brian Eno. Brian Eno che ha sfornato quattro lavori che già nel titolo richiamava questo particolare genere. Parlo di Ambient 1: Music for Airports, del 1978, Ambient 2: The Plateaux of Mirror, del 1980, con quell’Harold Budd scomparso nelle ultime settimane e la cui morte è stata assolutamente non calcolata da tutti noi che scriviamo di musica, provo molta vergogna per questo, Ambient 3: Day of Radiance, uscito sempre nel 1980 ma a nome Laraaji, unico della tetralogia a vedere Brian Eno solo come produttore e non come interprete, per chiudere con Ambient 4: On Land, uscito nel 1982, dopo quel My Life in the Bush of Ghosts, cofirmato con David Byrne dei Talking Heads, considerato a ragione uno dei dischi più belli di tutti i tempi, nonché caposaldo della world music e della world music che entra in contatto con l’elettronica.

Se Music for Airports era concettualmente geniale, l’intuizione cioè di andare a comporre la colonna sonora ideale di chi si trova in quelli che Marc Augé ha definito i non luoghi per antonomasia, un primo passo importante nell’uso dei sintetizzatori misti a strumenti acustici, lui che negli anni avrebbe non solo lavorato a musiche per colonne sonore di film, di spot, musiche realmente per ascensori e anche musiche per prodotti, per dire è sua la sequenza di note che si sente mentre parte Windows, è però l’ultimo lavoro di questa anomala tetralogia che vi invito a andare a recuperare durante questi giorni di festa, On Land. Si tratta di un lavoro che in qualche modo era destinato già dalla sua genesi a chiudere il cerchio, perché per poter raccontare la sua terra natale, quella porzione di Inghilterra che si trova a oriente e che viene chiamata East Anglia, ma anche altre parti del suo paese cui erano legati i suoi ricordi, Eno comincerà a abbandonare sintetizzatori e strumenti acustici tradizionali, andando a utilizzare oggetti presi dalla vita quotidiana e rielaborare vecchi suoni registrati in precedenza, creando quindi una sorta di primo folder di suoni in epoca assai pre-campionatori.

Un lavoro molto suggestivo, On Land, atto a ricreare una sorta di album di fotografie sonore di quel che è stata l’infanzia e la gioventù del nostro, un modo originale per ripercorrere però non tanto il passato, quanto un luogo geografico specifico, neologismo sonoro di quella che generalmente è appunto la world music.

Qui Eno non ha fatto tanto ricorso alla tradizione locale, magari contaminandola coi suoni contemporanei come David Byrne, per dire, farà in seguito con la sua Luaka Bop e le sue sperimentazioni nel sud del mondo, quanto piuttosto a partire da suoni che gli evocavano ricordi d’infanzia, ha provato a ricreare un immaginario sonoro coerente, come di una ricostruzione storica nella quale le note e i rumori prendano legittimamente il posto dei fatti e degli avvenimenti.

Viaggiare è un’esperienza incredibile che spero davvero torni presto possibile, viaggiare da fermi, però, si può anche in questi giorni di lock down, basta solo saper scegliere le opere giuste.