Mi sorprende un ricordo sereno, grazie Pablito

Paolo Rossi che sorride alzando le mani, una corsetta che saprei imitare anche oggi, a distanza di quasi quarant’anni


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Sono in quella fascia d’età per cui i miei miti di gioventù sono in parte già morti. Succede così, del resto, non è certo qualcosa di personale. Le persone delle generazioni precedenti alla mia, quindi tutta gente più vecchia di me, muore, un po’ alla volta, portandosi via un pezzetto della mia memoria, un pezzetto della mia gioventù. Chiaramente non è così, e sto miseramente mettendo anche io in pratica quella brutta abitudine di ricordare un personaggio famoso morto a partire da me, invece che da lui. Ma è anche così. Viviamo di ricordi, viviamo anche di ricordi, essendo ancora ancorati nel presente. Ma viviamo di ricordi e spesso i ricordi di quando eravamo molto giovani, diciamocelo francamente, buona parte di quello che siamo si è formato da giovani, poi è solo un compito da svolgere, tutta roba di tattica e strategia, e quando un protagonista di quei ricordi muore, non scompare, manca, muore e basta, in qualche modo è come se perdessimo un pezzettino di noi, se di colpo una ruga nuova ci solcasse il viso.

Molti dei miei miti di gioventù sono morti perché hanno condotto una vita nella quale l’idea di invecchiare non era stata presa in considerazione. Niente di intenzionale, credo, anche in quei tanti casi di miei miti che sono morti perché si sono tolti la vita, non ho un’idea abbastanza romantica del suicidio dal vederci razionalità dietro, credo salvo rarissimi casi sia frutto di disperazione o di depressione, non di volontà, comunque quasi sempre i miei miti di gioventù che sono morti negli anni, alcuni anche recentemente, penso a Prince, penso a Bowie e Lou Reed, penso a Maradona, erano invecchiati per grazia ricevuta, il dolore per aver perso qualcuno che, seppur non conoscendolo di persona, era parte integrante della mia vita non era accompagnato da quella affilatissima forma di sorpresa che sfocia nello sgomento, nel famoso “colpo al cuore”. Certo, il dispiacere immediato, la commozione, ma a mente fredda non la sorpresa.

Stamattina mi sono svegliato con la notizia della morte di Paolo Rossi, per tutti ancora oggi Pablito, l’eroe della vittoria al Mundial del 1982, il capocannoniere degli azzurri di Bearzot, l’uomo che ha fatto piangere il Brasile, per citare anche io come tanti il titolo della sua autobiografia. Un calciatore di altri tempi, senza ombra di dubbio, grande intuito, ottimo fiuto del goal, non un fisico incredibile, velocità di passo a parte, oggi probabilmente non avrebbe trovato spazi nelle squadre ipercinetiche che siamo abituati a vedere. Un uomo modesto, avrei detto anche io come tanti, non intendendo con questo mediocre, tutt’altro, quanto umile, uno che sapeva compiere imprese eccezionali senza vantarsene più che tanto, sempre sottotraccia, come in effetti uno pronto a infilarla in rete dovrebbe sempre sapere fare.

Non era il mio calciatore ideale, non lo era neanche allora. Ma era l’uomo che più di ogni altro ci ha regalato un sogno, la vittoria a quel Mondiale di calcio lì, nel quale partivamo svantaggiati, chiaramente, il Brasile dei Zico, dei Socrates, dei Falcao sulla carta molto più forte di noi, come l’Argentina del giovane Maradona, più di Conti con le sue incursioni sulla sinistra, di Tardelli a spingere a centrocampo, anche se la sua esultanza per il goal in finale ne ha quasi oscurato la stella, più dei gemelli del goal che non prenderanno se non parzialmente parte a quella favola, Ciccio Graziani usato part-time, Pulici addirittura lasciato in tribuna. Noi eravamo un piccola nazionale, lì a giocare col catenaccio, contro squadre che mettevano in scena un calcio spettacolare, da giocolieri. Noi eravamo una squadra in apparenza senza fenomeni, certo, al centro della difesa avevamo Scirea, non un calciatore qualsiasi, e in porta Dino Zoff, ma loro avevano i campioni quelli veri, quelli capaci di compiere imprese addirittura impensabili, gigantesche. Solo che noi avevamo lui, Paolo Rossi, faccia pulita, seppur con l’ombra del toto-scommesse da poco lasciatosi alle spalle, quello che avrebbe mandato a casa quei giganti, impersonificazione perfetta della figura di Davide che prende a sassate Golia. Era l’Italia, forse, Davide, gli anni Settanta delle contestazioni, delle Brigate rosse, della crisi economica arrivata dopo l’illusione del boom economico, per una volta lì a rubare il sogno di chi viene dal basso e diventa campione, parte integrante della poetica sudamericana, Osvaldo Soriano e Eduardo Galeano noi non ce li avevamo, al massimo avevamo avuto Arpino a raccontare le disfatte dei settanta, o Gianni Brera, burbero e poetico, certo, ma decisamente non votato alla magia.

Me 1982 avevo tredici anni. Da poco avevo iniziato a giocare a calcio, ve ne ho parlato i giorni scorsi, e il calcio era iniziato a diventare totalizzante. Ricordo perfettamente la sera della finale, io, mio padre e mio fratello Marco, otto anni più di noi, a attraversare la città invasa di una folla pazza di gioia, gente che faceva il bagno nella fontana di Piazza Diaz, le auto bloccate per il viale coi clacson a mille, le bandiere, le maglie azzurre, tutti lì a sorridersi tra sconosciuti, a abbracciarci tra sconosciuti, una vittoria impensata anche solo un paio di settimane prima, una vittoria contro la Germania, per di più. Ricordo che il fratello del mio compagno di banco delle medie, Daniele, biondo cenere, venne preso a spintoni, perché confuso con un tedesco, vecchi rancori tramandati di padre in figlio ancora nell’aria. Ma soprattutto ricordo che per tutti quella vittoria, una vittoria di tutti, Pertini che sfotteva il Re, le partite di scopone con Bearzot, una vittoria anche nostra. L’idea fino a quel momento rimasta in potenza, che ce l’avremmo davvero potuta fare, senza neanche a star troppo lì a perdere tempo a pensare come e perché.

Anche io che non ho mai avuto un grande amore per lo spirito patrio, che spesso in seguito mi sono trovato a tifare altre squadre, più per presa di posizione ideologica che per un motivo sensato, ero in festa, non solo perché ero un ragazzino che per la prima volta si sentiva realmente parte di un tutto, io che ero cresciuto per ragioni troppo lunghe da spiegare in un quartiere assai più ricco di quanto la mia famiglia non fosse, io che ho sempre faticato non poco, fatico anche ora, a riconoscermi in una idea di comunità che non parta da un comune sentire ma semplicemente da una appartenenza geografica.

Paolo Rossi non era il mio calciatore ideale. Non era spettacolare, funambolico. Non era neanche trasgressivo, quanto ho amato poi i Cantana, i Gascoigne, ma era un ragazzo dalla faccia normale che ne aveva fatti tre al Brasile, con una naturalezza che solo i veri campioni possono permettersi di esibire.

Ieri sera, mentre presumibilmente Paolo Rossi era già in agonia, lui che è morto a sessantaquattro anni pochi giorni di colui che in molti, me compreso, hanno indicato come il più grande campione di sempre, in qualche modo andando a essere ancora una volta oscurato dal funambolo, ho ascoltato dopo un sacco di anni l’unico album di Luvi De Andrè, figlia di Faber e di Dori Ghezzi. Un album uscito nel 2006, di cui avevo perso memoria.

Mi è capitato sottomano per uno di quegli strani percorsi che fanno a volta le nostre ricerche, in rete come tra i cd, ho letto da qualche parte una frase di Cristiano, suo fratellastro, nella quale ringraziava suo padre per il padre che era stato e ringraziava se stesso per essergli sopravvissuto, mi è venuta una voglia pazza di ascoltarmi Dietro la porta, brano gigantesco presentato a un Sanremo degli anni Novanta, scritta per lui da Daniele Fossati, nessuna parentela con Ivano, seppur la scrittura del brano potrebbe far pensare a altro. Da lì sono passato a pensare a Claudio Fossati, stavolta sì, figlio di Ivano e al fatto che avesse scritto canzoni per Luvi De Andrè, dopo che i rispettivi genitori avevano dato alla luce quello che a mio modo di vedere è uno degli album più importanti della nostra discografia, quell’ Anime Salve, scritto da entrambi e poi uscito solo a firma De Andrè dal quale avevo scippato il titolo del mio primo libro, “furibonde giornate senza atti d’amore”. Così mi sono ritrovato a ascoltare il brano che regala il titolo a quel vecchio lavoro, Io non sono innocente. Un brano incalzante, quasi rock, che mette in risalto i colori caldi della voce di Luvi, un vero talento che, immagino, si è tenuta a debita distanza dal mondo della musica per non rimanere schiacciata sotto il nome del padre, sorte capitata a Cristiano, appunto. Un brano molto fossatiano nella scrittura, Claudio ha evidentemente imparato la lezione di suo padre. Il brano inizia con una frase che, appena riascoltata ieri, dopo anni, mi è tornata su come una fiammata, esattamente come succede con certi ricordi, “Siamo nati cattivi, abituati a schivare l’amore, e giorno per giorno impariamo ancora”, ma è nel ritornello che Luvi ci assesta il colpo mortale, quello che non ti lascia nessuna possibilità di salvezza, aprendo la melodia a qualcosa in apparenza di rassicurante, canta infatti: “Mi sorprende un ricordo sereno, quando sogno distante e mi vedo lontano, mi sorprende un ricordo sereno,” salvo poi fermarsi e affermare “Io mi sveglio la notte e ho paura di guardarmi le mani, apro gli occhi e mi siedo nel buio, aspettando il domani”.

Mi fermo. Non mi sento innocente. Non credo di esserlo, in fondo. E penso anche io che siamo nati cattivi, che la vita, in fondo sia una sorta di continuo rincorrere un’idea di felicità, in lotta con noi stessi, seppure la felicità ci è a portata di mano. Di più, credo che la vita sia un dover disimparare a stare sulle difensive, spogliarci di armature che a ben vedere non sarebbero in grado realmente di difenderci, e che forse non sono neanche necessarie. Ma sono altrettanto convinto, per questo la concomitanza di questi due passaggi, la morte di Paolo Rossi e l’aver ascoltato proprio ieri sera Luvi De André mi è sembrata quasi una premonizione, un qualcosa degno di finire in un racconto di Galeano, che a volte emergano pezzi del nostro passato, dal nulla, rassicuranti, sereni. Pezzi che non hanno certo la capacità di cambiare il corso degli eventi, non ne siamo capaci noi in prima persona, figuriamoci se potrebbero mai farlo per conto nostro i ricordi, ma che per qualche momento fermano questa costante rincorsa, come quello special, lì, fermo in mezzo a un pezzo tendenzialmente rock.

Il mio ricordo sereno è lui, Paolo Rossi, che sorride alzando le mani, una corsetta che saprei imitare anche oggi, a distanza di quasi quarant’anni, un saltello finale. L’idea che la vita in fondo sarebbe potuta essere diversa da come fino a quel momento ce l’eravamo immaginata, che avremmo potuto vincere anche noi, contro tutti i pronostici, contro gente decisamente più forte e brava di noi. L’idea che per vincere non avremmo dovuto compiere gesti impensabili, magie, sarebbe semplicemente bastato farsi trovare lì, sottoporta, pronti a spingere la palla in rete con un colpo di testa preciso, indirizzandola verso il palo opposto.

Anche in questo 2020 che ci marca stretti, colpendoci alle caviglie con lo sguardo severo di Briegel, la faccia marziale di Stielike, mi sorprende un ricordo sereno, grazie Pablito.