Qualunque sia la distanza, voglio restare con Cristina Donà in un posto confortevole e caldo

La bellezza infinita della sua musica mi ha spinto a cercarla: già dal suo primo album avevo capito chi fosse e cosa avrebbe fatto in seguito


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In casa si parla parecchio dell’attuale situazione, questa anomalia che ci troviamo a vivere nostro malgrado sulla nostra pelle. Se ne parla come, credo, andrebbe fatto in famiglia, per non lasciare che le paure prendano il sopravvento, così come per impedire alla disperazione di avere il sopravvento, per non dire dello scoramento, dei giramenti di palle. Insomma, si parla, si cerca di analizzare, di improntare strategie, per quanto sia concesso a noi comuni mortali di improntare strategia. Ci si organizza, ci si lascia andare a progettualità, si fanno ipotesi.

Tommaso, quindici anni, figlio di mezzo, in quanto lì, tra Lucia, diciannove anni, primogenita, e Francesco e Chiara, i gemelli di nove anni, ultimi arrivati, arrivo piuttosto ingombrante, è il più radicale. Non intende tornare fuori di casa finché non ci saranno chiari segnali di miglioramento, fosse anche solo per andare a scuola. Poi, è chiaro, se le scuole riapriranno e la DAD finirà, andrà, perché ha un senso del dovere piuttosto solido, ma lo farebbe malvolentieri, lui è dell’idea che o si fa un lock down serio o non ne usciremo mai e poi mai. Per contro Lucia, che va detto ha rispettato tutte le restrizioni in maniera encomiabile, tornerebbe alla vita di tutti i giorni anche domani, soffre lo stare chiusa in casa, in camera sua per la maggior parte del tempo, soffre di non potersi vedere col suo ragazzo, con le sue amiche, lei frequenta una scuola in altro comune, essere diventati Zona Arancione poco cambia, visto che vivono tutti altrove. Esce ogni tanto per andare a prendere i gemelli, con me, giusto per sgranchirsi le gambe, ma non è vivere, sostiene, e non credo di poterle dare torto.

I gemelli, beh, loro vanno a scuola, seppur con le mascherine, coi distanziamenti, senza fare altro che scuola, via tutte le attività, niente recita di Natale, per dire, niente calcio o danza in presenza, soprattutto niente parco, lì davanti a scuola, con una densità per metro quadro degna della fascia di Gaza, e seppur alcuni loro amichetti ci vanno.

Sanno che vivono con la nonna, ultrasettantenne, ne hanno cura e fanno come tutti sacrifici.

Io e Marina, mia moglie, ci interroghiamo spesso se essere così ligi sia sensato, in una città che non sembra poi altrettanto ligia. Ci interroghiamo anche se essere così ligi sia sensato, perché magari potremmo essere un po’ meno rigidi e cavarne comunque le gambe, ma conosciamo davvero un numero impressionante di persone che al momento è in casa col Covid, qualcuno anche attaccato alle bombole di ossigeno, conosciamo persone morte, insomma, dovendoci collocare tra il professor Galli del Sacco e un qualsiasi negazionista staremmo lì a smuovere la testa ritmicamente dicendo che la fine è imminente, più che a inneggiare alle libertà negate. Quindi proviamo a essere ligi, lo siamo, amen se un intero anno della nostra vita sembra essere sfumato così, senza lasciare tracce troppo significative.

Mia suocera, lei immagino farebbe di tutto per potersene tornare a casa sua, in Ancona, cosa che tecnicamente avrebbe potuto fare in qualsiasi momento, essendo lì residente, anche perché da che la situazione si è inasprita ha proprio smesso di uscire, se ne sta chiusa in casa, ma sa bene che rischierebbe, magari, di finire per rimanere isolata laggiù, da sola, e tra starsene con noi sei e stare da sola, direi, non c’è proprio gara. Certo, magari le manca un po’ di libertà, quella che avrebbe a star da sola in casa sua, ma la solitudine è una brutta bestia, specie nelle giornate invernali, e anche il non avere qualcuno che si prende cura di te.

Di fatto non c’è pranzo o cena, almeno di quelli in cui siamo tutti in casa, e in effetti siamo quasi sempre tutti in casa, i gemelli saltano i pranzi dal lunedì al venerdì, ma Marina è in smart working da marzo e io praticamente non ho più incontri di lavoro dall’ultimo Sanremo, di fatto non c’è pranzo o cena in cui non si finisca in qualche modo a litigare, di quelle liti che si fanno in famiglia, si alza la voce, si strepita, e dopo cinque minuti si torna come prima, il tutto per stabilire quale sia il modo giusto di affrontare l’oggi, volendo anche il domani. Si parte sempre con uno dei due figli grandi che mi chiede quando torneranno a scuola, con le due differenti aspettative rispetto alle mie risposte, se pensiamo che rimetteranno la zona Rossa, se e quando potremo riprendere la vita di tutti i giorni, intendendo ovviamente la vita di tutti i giorni prima del Covid19. Domande che hanno il senso che hanno, cioè nullo, perché le risposte mie o di mia moglie non hanno nessun fondamento, al limite rientrano nel campo delle ipotesi, delle suggestioni. Domande che immancabilmente aprono le chiuse della diga che lascia che il malumore inondi la nostra tavola, via di lite.

Per questo, anche per questo, non manco quando posso di portare un minimo di leggerezza in casa, certo non venendo meno al mio ruolo di cagacazzi che così ben conoscete.

L’altro giorno, per dire, ho sparato a tutto volume Liberi tutti dei Subsonica, brano che ovviamente nessuno di loro conosce, credo neanche Marina, nonostante in passato abbiamo visto più di una volta i Subsonica dal vivo, lei che generosamente mi accompagnava fingendo, che amore, di essere interessata a una musica che non le dice nulla, se non qualcosa di negativo. Per dire, lo avevo messo nel libro Parlami dell’universo, dedicato a Cristina Donà, ma poi lo abbiamo rimosso, non era attinente al tema trattato, ma quando io e Cristina ci frequentavamo con assiduità, con grande assiduità, sul volgere degli anni Novanta e i primi anni Zero, quando cioè ho sostanzialmente seguito credo tutte le sue date, o quasi, era il tour di Nido, e quando seguivo un po’ tutto quel che concerneva al mondo che ruotava intorno alla Mescal e a quello che poi sarebbe diventato il mondo del Tora! Tora!, Afterhours, La Crus, Marlene Kuntz, Subsonica, 24 Grana e affini, una sera è capitato che avessimo deciso di andare a sentire Cristina che suonava all’Hiroshima Mon Amour di Torino. Io e Marina non credo fossimo neanche sposati, o se lo eravamo lo eravamo da poco. Sicuramente non avevamo figli, ai concerti ci si andava molto spesso. L’Hiroshima Mon Amour è a Torino, noi vivevamo già a Milano. Da lì saremmo partiti e siccome Manuel Agnelli, che aveva prodotto sia Tregua, album di esordio di Cristina, sia Nido, subentrato in corsa a Mauro Pagani, e che io conoscevo abbastanza bene, avevo prodotto o stavo per produrre, lasciatemi usare un termine musicale seppur di libri si stia parlando, il suo Il meraviglioso tubetto, uscito per la Piccola Biblioteca Oscar, all’interno di una sottocollana che in qualche modo curavo in solitaria, sottocollana che avrebbe visto le uscite non solo di Manuel, ma anche dei La Crus, col loro Crocevia, Cristina con Appena sotto le nuvole, prima e con quel God Less America che avrei firmato io con lei, racconto davidfosterwallaciano del nostro coast to coast lungo gli Stati Uniti sulle orme del Bruce Springsteen di The River, oltre che un libro di Luca Morino dei Mau Mau e uno di Massimo Zamboni, uscito però quando io me sarei già andato via da quei lidi. Sia come sia, Manuel ci chiede un passaggio, perché doveva venire a Torino per fare un paio di brani con Cristina sul palco. Noi avevamo la macchina libera, i nostri amici milanesi non amavano la stessa musica che amavamo noi, o meglio, che amavo io, così ovviamente lo carichiamo con piacere a bordo. Il viaggio, all’epoca avevo una Punto Blu, durò circa un paio di ore, anche perché non c’erano navigatori e si usavano gli stradari per orientarci, roba che a pensarci oggi viene da mettersi a piangere. Bene, durante le due ore di viaggio, io e Marina davanti, Manuel dietro, costantemente seduto in avanti, le mani appoggiate sui nostri schienali, la testa sporta in avanti, per parlare con noi, ha provato a fare colpo su Marina. Non per motivi in qualche modo legati a sue ipotetiche mire, intendiamoci, una cosa naturale, era già una piccola rockstar, anzi, forse lo era allora più di oggi. Essere al centro della scena era una costante per lui, non a caso scazzammo di brutto quando venne fuori la cosa che sul libro io sarei risultato non come il curatore, ma come il produttore (i cantanti, in genere, hanno sempre grossi problemi a riconoscere il lavoro di chi fa qualcosa di diverso da loro ma che preveda comunque un qualche riflettore puntato). Immaginatevi la scena, lui che fa il piacione, la voce calda, lo sguardo magnetico, la parlantina che a X Factor si intravede appena, e lei, Marina, che lo tratta come se non ci fosse. Tipo che gli ha chiesto almeno tre o quattro volte come si chiamava, tanto per rimetterlo con non chalance al suo posto. In seguito farà una cosa del genere anche con Vasco, non direttamente con lui, ma col suo entourage, roba da farle un monumento, lo dice uno che a Vasco è molto affezionato, il non dar seguito a ego importanti è qualcosa che amo particolarmente, non fosse altro perché fa costantemente così anche con me. Credo che, arrivati a Torino, Manuel abbia avuto seri problemi a non scoppiare in lacrime, l’autostima ridotta ai minimi termini, forse anche meno. Intendiamoci, Marina è una persona molto gentile, decisamente più gentile di me, ma non ha mai subito il fascino della rockstar, esclusi i presenti. Anzi, ha sempre ritenuto che l’idea di avere un ego magnetico andasse in qualche modo contrastata con una patina di indifferenza fatta di adamantino, come le unghie di Wolverine. Del resto è sempre stata abituata a frequentare cantanti, anche piuttosto famosi, farlo da una condizione subalterna sarebbe stato davvero fastidioso per tutti.

Sia come sia, l’altro giorno ho sparato Liberi tutti a palla, per sfottere i miei figli sul fatto che, col nuovo DPCM, tutti avrebbero in qualche modo ripreso a farsi i cazzi propri. Solo che è successa una cosa che non avevo prevista. Una cosa che mi ha messo in crisi almeno quanto il non essere cagato di pezza ha messo in crisi Manuel. Di colpo sono piombato in uno stato di prostrazione malinconica che ho faticato a arginare, di nostalgia che però non aveva nulla a che fare con la nostalgia di cui Simon Reynolds, sempre lui, parla in Retromania. No, di colpo, sarà che vivo recluso in casa da quasi nove mesi, sarà che non ho idea di quando smetterò di vivere in casa, sarà che ci sono grosse probabilità che io passi il mio primo Natale milanese, lontano quattrocento chilometri dai miei genitori ultraottantenni, da mio fratello e mia sorella, anche dai miei amici, non so perché, ma di colpo mi sono ritrovato a cercare e ascoltare, una dopo l’altra, le canzoni che in quegli anni lontani, ormai sono passati più di quindici anni da che ho smesso di frequentare quel giro, con la sola eccezione di Cristina Donà, che comunque ho perso per una fetta importante della mia vita, salvo ritrovarla un anno fa, ritrovata con lo stesso affetto che ho sempre provato per lei, e che immagino lei ha sempre provato per me, anche quando eravamo distanti.

Non che io abbia mai pensato di rimpiangere il passato, non mi sono mai voltato indietro, non vorrei avere venti anni, non vorrei averne neanche quaranta, seppur il passare del tempo abbia lasciato dei segni sulla mia pelle che avrei volentieri evitato. Solo che quello è stato un periodo importante, e i periodi importanti, credo, vanno conservati con cura.

Così, dopo essermi andato a ascoltare Catartica dei Marlene Kuntz, Germi degli Afterhours, Lungo i bordi dei Massimo Volume, Microchip emozionale dei Subsonica, Dentro me dei La Crus, Zero dei Bluvertigo, K-Album dei 24 Grana sono scivolato, non avevo alternativa, dentro la discografia tutta di Cristina Donà.

Ora, non credo sia una notizia sconcertante, né tanto meno uno scoop, il fatto che io sia un grande appassionato di cantautorato femminile. Se tutto ciò succede, e succede, la colpa è di Cristina Donà.

I suoi album, che negli anni ho letteralmente consumato, anche perché, diciamolo, non ne pubblica poi molti, e tocca farsi bastare quelli, maledizione, hanno indicato non solo la strada a buona parte delle sue colleghe poi uscite negli anni successivi (anche a alcune che uscivano ai tempi del suo esordio, Carmen Consoli non sarebbe la Carmen Consoli che è diventata senza Cristina Donà, sia messo agli atti), ma hanno dimostrato, e purtroppo da noi ce n’era bisogno, che anche nel campo della musica rock alternativa, così veniva chiamato il pascolo nel quale si muovevano tutti gli artisti che ho su nominato, ci fosse spazio per una donna, fatto che in sé reclamerebbe indignazione, ma che nei fatti, fino alla sua apparizione sulle scene era data più che altro per assodata, se non c’è non c’è, si diceva.

Ma a parte questo, che è un atto di contestualizzazione dovuto, un rendere merito a chi merito ha, molto merito, i suoi album sono dei veri gioielli, una penna sofisticata, non nel senso di sofisticazione, sia chiaro, ma proprio di una ricercatezza alta, altissima, celestiale, che incontra un estremo gusto musicale nella ricerca sonora, la sua band è sempre stata un’eccellenza, da Cristian Calcagnile a Lorenzo Corti via via fino a Saverio Lanza, Cristina si è sempre circondata di musicisti capaci e dotati di un estro fuori dal comune, almeno nel nostro ambito rock, e soprattutto, perché una cantante si dice cantante per il canto, in fondo, il rasoio di Occam lo conferma, una voce che è qualcosa che trova pochi paragoni in giro per il mondo, penso a un Marisa Monte, per dire, ma fatico davvero a andare oltre.

Lo so, sono di parte, si potrebbe pensare, perché con Cristina ho lavorato, perché è mia amica, perché ho passato serate in auto con lei, io a guidare e lei a cantarmi i grandi classici della musica rock e folk americana e inglese, unico spettatore di spettacoli incredibili, me ne vanto come un Maurizio Milani d’antan, ma sono di parte proprio perché Cristina Donà è Cristina Donà, è stata la bellezza infinita della sua musica, già il primo album Tregua lasciava capire chi fosse e cosa avrebbe fatto in seguito, seppur lasciando ampi spazi alla meraviglia, a spingermi a cercarla, mica abbiamo fatto le medie insieme. Non bastasse il fatto che artisti quali Robert Wyatt, per dire, o David Byrne, sempre per dire, o Phil Manzanera, Brian Eno e tanti altri hanno tributato negli anni la propria amorevole stima nei suoi confronti, dovrebbe essere sufficiente l’ascolto dei suoi lavori, lì fermi su pietra come un monito impossibile da non tenere a mente, Tregua, Nido, Dove sei tu, La quinta stagione, Piccola faccia, Torno a casa a piedi, Così vicini, fino agli ultimi Tregua 1997-2017 Stelle buone, album di rilettura del suo esordio che ha visto coinvolti artisti quali le mie amate La rappresentante di lista, Chiara Vidonis, Simona Norato, ma anche Blindur o Il geometra Mangoni, e il recente Ginevra Di Marco & Cristina Donà, album split in compagnia della cantante toscana che fu voce dei CSI e PGR. Tutti lavori che in qualche modo hanno spostato in avanti una poetica già ben definita al suo esordio, spostando quell’inclinazione rock, ancora oggi piuttosto presente, la sua voce che quando si tende diventa lama taglientissima, che man mano si sposta su piani più squisitamente cantautorali, andando a toccare vette di pop battistiano come, appunto, nella traccia eponima del suo ultimo vero lavoro di studio, Così vicini.

Non volevo comunque fare un’esegesi dell’opera di Cristina, questo non è un articolo e di lei ho già scritto molto in passato. Volevo condividere semmai con voi un senso di nostalgico spaesamento, un nostalgico spaesamento mio verso un mondo nel quale una artista come Cristina Donà non sia celebrata in tutti i luoghi e in tutti i laghi, lasciatemi sdrammatizzare la cosa con una citazione bassa, come la più grande cantautrice italiana di sempre.

E nel fare questo, l’ho appena fatto, volevo condividere anche una sorta di malinconia che il pensare noi più giovani, penso a me e Cristina, ma penso in generale a quanti stanno affrontando questa pandemia con dei figli cui spiegare un mondo di colpo ancora più feroce del solito, là fuori, non può che evocare.

“Difficile è trovarsi ora, è più facile perdersi,” cantava ormai tanti anni fa Cristina nel brano Dove sei tu, salvo poi aggiungere, salvifica, “qualunque sia la distanza io ti verrò a cercare quando il buio tenta di far risaltare la tua assenza.” Ci conto, anche oggi.