Bambina Bambolina è il nuovo brano di Yoniro the moon girl

Un brano che parla di femminilità e per farlo Yoniro ha deciso di costellare il web con foto del proprio corpo


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Quando il secondo lock down è arrivato mi ha colto alla sorpresa. Lo so, non è un lock down, almeno nessuno lo ha chiamato formalmente così, e a ben vedere ci sono delle differenze evidenti rispetto al lock down di marzo, ma resta il fatto che è qualcosa che gli somiglia parecchio, e che in tutti i casi, per il comparto della musica, che è a ben vedere il comparto nel quale lavoro io, è a tutti gli effetti un secondo lock down, teatri e sale concerti chiusi a data da destinarsi.

Mi ha colto di sorpresa non perché non fosse piuttosto chiaro che saremmo incappati in una seconda ondata, se ne era parlato più e più volte e gli unici che ne sono rimasti realmente sorpresi, sembra, sono quelli che ci governano, incapaci di improntare uno straccio di protocollo sanitario in grado di reggere a un impatto che stavolta non era così anomalo e soprattutto incapaci di ragionare a freddo su come spostarsi nelle città nel momento in cui si sarebbero riaperte le scuole e anche parte degli uffici e delle attività al pubblico, come i negozi, mi ha colto di sorpresa perché suppongo per una forma di autodifesa, direi piuttosto naturale, vista l’anomalia costante nella quale stiamo vivendo da mesi, mi ero raccontato, in maniera piuttosto credibile, che stavolta non sarebbe stata come l’altra. Così in effetti è stato, ma non, come speravo, nel senso che è andato tutto meglio. No, è stata decisamente peggiore. Da una parte perché i numeri questo ci hanno detto, e ormai le persone che conosco che sono morte per Covid, quelle che hanno passato gran brutti momenti, quelle che ancora li stanno passando sono un numero piuttosto impressionante, dall’altra perché la seconda ondata, usiamo i vocaboli che la pandemia ci ha militarmente imposto, ci ha trovato che ancora non ci eravamo neanche del tutto messi in piedi.

Talmente mi ha sorpreso che, proprio nel momento in cui è arrivato il blocco, parlo di ventisette giorni fa, tanti ne sono passati dal lock down che non era un lock down, e di conseguenza dall’inizio di questo diario, la ripresa di questo diario, ero nel bel mezzo di un crowdfunding che guardava al futuro, prossimo e remoto. Volevo, lo sapete, immagino, mettere su una etichetta discografica dal nome Anatomia Femminile per raccogliere ordinatamente i tanti talenti di tante cantautrici che in qualche modo erano entrate negli anni nel progetto che porta lo stesso titolo, complice la fortunata esperienza del Festivalino di Anatomia Femminile. Una etichetta discografica a tempo, per certi versi, che voleva pubblicare o iniziare a pubblicare antologie omonime allo scopo non solo di fotografare una parte della musica d’autore italiana, nello specifico d’autrice, ma anche di farla riconoscere andando a vincere una Targa Tenco come Migliore opera a progetto. Qualcosa di ambizioso, certo, ma non di impossibile. Chiaramente, essendo questo il periodo di merda che è mi sono sentito in dovere di mettere in stand by il tutto, destinando la ripartenza a un periodo migliore. E altrettanto chiaramente, nel mentre, ho continuato a interrogarmi sul femminile, sulla musica al femminile, e anche sul tema a me caro del corpo femminile nelle canzoni delle autrici. Il tutto con le solite difficoltà intellettuali di farlo da uomo, da critico musicale che ha provato e prova a smantellare un sistema musica che trova fallace, ma che al tempo stesso ci si muove dentro e in mezzo.

Mi sono a lungo confrontato anche con un argomento come il patriarcato, con ulteriori perplessità e dubbi, sentendomi quasi in colpa per andare a studiare e affrontare temi che, in teoria, sembrerebbero non solo non riguardarmi, seppur io sia un critico musicale, quindi lo studiarlo e il confrontarmici sia parte del mio lavoro, ma mi sia negato in quanto uomo, come se a farlo finissi per scivolare in quella zona ambigua di chi si occupa di argomenti a lui negati dalla natura.

Ciò nonostante, tendo a non farmi condizionare troppo da quel che è dato per assodato, figuriamoci se mi faccio fregare da quel che ambiguo e poco definito, ho continuato i miei studi, ho fatto anche un Webinar presso la facoltà di Pedagogia di Macerata, parlando proprio di questi temi, e studiando studiando sono incappato in un nome che, per certi versi, oggi mi sembri incarni alla perfezione il nodo centrale di quel che provo a dire in questi tempi incerti.

Yoniro, the moon girl. Iniziate a segnarvi questo nome. Bambina Bambolina, segnatevi anche il titolo del suo nuovo singolo.

Faccio un doveroso passo indietro.

Vi ho accennato, nel diario che ho tenuto tra marzo e inizio giugno, di una figura centrale per la controcultura americana che risponde al nome di Shelley Jackson. L’ho incontrata sul mio cammino studiando quel che le altre arti stavano sviluppando o avevano sviluppato intorno all’idea di corpo femminile, così mi sono imbattuto nelle opere di questa scrittrice e performer americana che da noi aveva ancora trovato poca fortuna. Navigando in rete, Dio un tempo si diceva così, tutti figli di William Gibson, mi sono infatti imbattuto nel suo Patchwork girl, opera interattiva che prende evidentemente spunto dal Frankstein della sua quasi omonima Mary Shelley. Un lavoro che da un corpo decomposto, non nel senso di andato in decomposizione, ma proprio di diviso in parti e scomposto in sezioni, prende le mosse, perdendosi e facendoci perdere in mille rivoli. Per altro, l’evocare Frankstein e la sua autrice, in qualche modo considerata sia proto-femminista letteraria, lei figlia di una filosofa femminista, sia una antifemminista, a seconda che si voglia guardare al mostro costruito dal noto scienziato pazzo come la dimostrazione che l’uomo che non nasca della donna, seppur alla ricerca costante di una donna da aver al fianco, sia destinato alla mostruosità e poi alla morte, sia che si voglia sottolineare come i personaggi femminili presenti nel romanzo non siano altro che figurine bidimensionali sprovviste di vita propria, quindi l’evocare Frankstein non può che indurmi a tirare in ballo anche Kathy Acker, autrice il cui stile così dedito al plagio, figlio della modalità burroughsiana del cut-up, è quanto di più vicino all’idea di trovare una nuova forma di vita nell’assemblare pezzi di vita altrui, e che ha avuto forse più di chiunque altra autrice contemporanea un rapporto così stretto col proprio corpo, corpo che poi l’ha in qualche modo tradita, morta a cinquant’anni di tumore al seno, al punto da spingerla a farne il cardine portante della propria poetica, il corpo presente in tutti i suoi testi, la propria sessualità esternata in ogni suo scritto, il suo corpo trasformato a sua volta in testo vivo, attraverso i tatuaggi, i piercing, le mastectomie, poi, un look punk posto al centro della propria estetica e quindi del proprio messaggio. Impossibile scindere l’uno dall’altra, sempre che abbia senso provare a farlo. Perché, per dirla con parole sue, e volendo attualizzare il tutto a oggi, dopo che è passata in qualche modo la bufera del Se non ora quando contemporaneo al primo Anatomia Femminile e che è stato già metabolizzato il MeToo con tutto quel tentare di distinguere l’opera d’arte dagli artisti, si pensi ai casi di Kevin Spacey o di Woody Allen, nel caso di una donna biografia e poetica coincidono, si inseguono e finiscono per fondersi in un’unica soluzione, un po’ come Genesis P-Orridge e sua moglie Breyer hanno provato a fare col Pandrogeny Project, quando ricorrendo a continue operazioni di chirurgia estetica provarono a assomigliarsi a tal punto da diventare uguali, con l’idea poi di fondersi in un’unica entità, idea vanificata dalla prematura morte dell’ex leader dei Throbbing Gristle.

Kathy Acker è stata sicuramente fonte di ispirazione per Shelley Jackson, non menzionarla in questo discorso sarebbe stato renderlo decisamente monco.

The body di Shelley Jackson, dicevo quindi.

Quella era l’idea che avevo, inizialmente, le singole parti, cantate e immortalate, che andassero a comporre un patchwork, una patchwork girl. Poi le cose sono andate diversamente, ma lo spunto era nato da lì. Avevo in realtà già incontrato Shelley Jackson in libreria, metaforicamente, per un suo libro pubblicato dai tipi di Minimumfax, La melancolia del corpo, una raccolta di racconti dedicati appunto al corpo. Una raccolta interessante, certo, ma a mio avviso un passo indietro le sue opere interattive, Patchowrk girl, ho scoperto in seguito, era solo una di quelle.

L’ultima Skin, è un racconto di poco meno di tremila parole, scritto con l’idea che le singole parole vengano tatuate addosso a altrettante persone, rendendo quel racconto assimilabile a qualcosa di vivo, e quindi di mortale. Di più, rendendo quelle parole talmente vive da poter interagire tra loro, questo è avvenuto in alcuni casi, quando i titolari delle parole si sono conosciuti, si sono fidanzati tra loro, hanno creato una sorta di piccola comunità. Parole vive, appunto. L’idea è che col tempo i titolari delle singole parole scompaiano, muoiano, e con loro le parole del racconto, costringendo quindi al racconto stesso a cambiare, assumere un nuovo senso, diventare altro. Idea molto interessante, al pari del racconto da scrivere direttamente sulla neve caduta su New York, deperibile, mutante. Skin non è andato a buon fine, o almeno non è ancora andato a buon fine, perché superati le mille adesioni il progetto si è in qualche modo piantato, senza trovare nuovi adepti, e quello sulla neve, intitolato altrettanto pragmaticamente SNOW, è alla mercé del meteo, mentre è assolutamente riuscito un progetto molto ma molto interessante che in qualche modo entra a gamba tesa sui miei ragionamenti, The Body (lo trovate qui http://www.altx.com/thebody/body.html). Si tratta di un lavoro interattivo, una sorta di racconto che parte da singole parti di un corpo femminile cliccabili sul sito, parti del corpo che vengono raccontate, narrativamente, per voce della stessa Shelley Jackson, non è dato sapere se e quanto autobiograficamente (ne la cosa comporta implicazioni a noi che ne leggiamo). Questo, in realtà, che prende decisamente le mosse proprio da Patchwork girl, anche da un punto di vista meramente estetico, il tratto della Shelley, la scelta di usare lo sfondo nero con le linee bianche, la grafica, tutto è in qualche modo collegato, è esattamente quel che avevo in mente quando iniziavo a fare le mie congetture su Anatomia Femminile, nonostante io non ne avessi mai neanche vagamente sentito parlare. Certo, The Body è un lavoro del 1997, ma ho incontrato Shelley Jackson poco prima di quel ritorno dall’estate e durante i mesi passati a scervellarmi su come risolvere quel mio problema familiare non sono incappato in quel lavoro, ma solo su Patchwork Girl, amen.

Torno a parlare di Yoniro, e torno a farlo prendendo spunto non dalla sua canzone, di quella parlerò più diffusamente nei prossimi giorni, quanto da come si sia avvicinata alla sua pubblicazione usando i social, essere indipendenti oggi permette una grande libertà, è vero, ma se non si è in grado di usare bene i social esseri liberi può coincidere in maniera incredibile con l’essere invisibili, o non essere affatto. Yoniro, the Moon Girl, che a dispetto del nome, che mette insieme due elementi che al femminile guardano (Yoni, nome atto a indicare l’energia femminile, e Oniro, Dio greco del sogno, The Moon Girl fa ovviamente riferimento al mito di Lilith), è italiana e al momento si trova in Australia, in qualche modo costretta a guardare il mondo cui si rivolge, l’Italia principalmente, dall’altra faccia della terra, lei che con la luna così tanto ha a che fare. Trovandosi quindi altrove, e soprattutto dovendo pensare a un modo per comunicare a distanza in un’epoca che sta iniziando a confrontarsi con una idea di distanza che sfocia nella quotidianità, siamo tutti isolati, qualsiasi tipo di incontro è pensato su piattaforme e non in presenza, quello che un tempo sembrava fantascienza, anche distopica, sta diventando consuetudine, ha optato per una sorta di corposo e femminilissimo (anche femministissimo, anzi, mai come in questo caso femminile e femminista sembrano andare di pari passo) sistema di guerrilla marketing, cominciando a spammare sui social, specie su Instagram, tutta una serie di immagini che cammina pericolosamente sul crinale della censura, ma che non sconfina mai. Così, da giorni, stiamo vedendo i suoi profili pubblici, uso il plurale perché al momento sono tre, spargere in giro il seme dell’antipatriarcato a suon di immagini preso dall’iconografia contemporanea che attinge al cinema, alla letteratura, alla musica, certo, ma anche ai culti antichi, che di matriarcato sono fortemente intrisi, mescolando il tutto con immagini sempre meno rarefatte del suo corpo, il corpo di Yoniro, the Moon Girl, appunto. E se le maglie della censura dei social zuckerbergheriani sono piuttosto strette, ben lo sanno quanti nel tempo sono incappati in blocchi dovuti a, magari, aver condiviso fotografie di statue, confuse dagli algoritmi per nudi di donna, Yoniro è riuscita nell’impresa di gabbare lu santu, lavorando su quel crinale di ambiguità, e facendolo con una poetica così fortemente definita da non essere neanche volendo fraintesa. Yoniro ritiene, di questo parla anche il suo brano Bambina Bambolina, un electropop ambizioso che gioca letteralmente su due piani narrativi che si intrecciano e si sovrappongono, senza mai lasciare che uno piano prevalga sull’altro, che un primo passo per anestetizzare il patriarcato sia quello di reimpossessarsi del proprio corpo, della libertà di mostrarlo, anche, che non necessariamente coincide col dovere di mostrarlo, intendiamoci, ma proprio con la possibilità di farlo senza per questo né essere censurata né, tantomeno, essere giudicata. Discorso che affrontavo già un paio di anni fa, proprio di questi giorni, nel mio TedX dal titolo Venere senza pelliccia, in compagnia di una collega di Yoniro, the Moon Girl, Ilaria Porceddu, ipotizzando, questa la tesi che portavo avanti e che mi trova ancora impegnato a studiare e approfondire, che l’assenza di corpo anche mostrato, esibito, quindi l’abdicazione a un immaginario stereotipato, laddove è evidente che gli stereotipi siano tutti in mano a uomini, non solo non lascia spazi a una narrazione in prima persona, ma addirittura nega la libertà, e quindi ogni forma di possibilità, di percorrere strade che a quegli stereotipi non aderiscano, con tutto quello che il dover essere omologati comporta. Yoniro afferma questa verità elementare, per certi versi, che aveva visto già lotte lungo buona parte della seconda metà del secolo scorso, ma che parte assai più da lontano, usando come arma contundente la sua musica, certo, ma anche il suo corpo. Corpo che non solo compare in bella mostra, seppur in chiave cyborg, Donna Haraway è evidentemente uno dei testi che hanno fatto da compendio all’improntare la propria iconografia di Yoniro, nel kit di immagini che vanno a comporre la presentazione della canzone sugli store e le piattaforme di streaming, ma che è appunto diventato parte di una sorta di prontuario che l’artista ha distillato giorno dopo giorno sui social, partendo da una reiterata esibizione del proprio corpo, le chiappe miracolosamente lasciato fuori dai paletti censori degli algoritmi zuckerberghiani. Del resto, conscia dei rischi che una strategia comunicativa di guerrilla marketing del genere mette sul tavolo, Yoniro ha invitato chi la segue a creare in proprio pagine replicanti la sua su Instagram, Yonirical. Qualcosa che ricorda le Space Monkey istituite da Tyler Durden in Fight Club, e probabilmente per certi versi Yoniro è la Tyler Durden di Laura, nome all’anagrafe dell’artista, in perenne lotta fisica con se stessa, non credo sia affatto facile esporsi, non solo agli sguardi, ma anche proprio ai giudizi di chi ti sta a guardare. In perenne lotta anche col resto del mondo, però, lì a mettere il corpo in gioco in quel garage deserto o quel retro di un bar che è, nello specifico, il web. Abbattere stereotipi e giudizi gratuiti usando se stessi come arma non è sport così semplice come in apparenza potrebbe sembrare. Farlo con una così potente carica inventiva e una cura estetica degna di artisti internazionali men che meno. Le streghe hanno sempre fatto paura, figuriamoci una che decide di tirare fuori un brano che parla di femminilità e di corpo proprio in una notte di Luna piena e per farlo decide di costellare il web con foto del proprio corpo.

Come dicevo, tornerò a breve a parlare della sua canzone, Bambina Bambolina, di quello che ci racconta, certo, ma anche di quello che quel raccontare, musicale e estetico, implica, andatevela a ascoltare, ovviamente. Ma per ora vi invito intanto anche a seguirla sui social, e a farvi a vostra volta promotrici e promotori del sul originale modo di comunicare la sua visione femminile e femminista del mondo. Non saranno una canzone o un paio di chiappe a salvare il mondo, ma i lunghi viaggi partono sempre mettendo un primo passo davanti al successivo.