Tra Cattelan e Simon Reynolds, maneggiate con cura la critica musicale

Non è pensabile che in un programma come XFactor, in cui la critica dovrebbe trovare agio di muoversi con più sensatezza, si scivoli nel giro di pochi minuti su due bucce di banana


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Sarò lungo e confuso. Come sempre. Un po’ più di sempre.

Il fatto è che ci ho pensato e ripensato, complice il tempo che, stando in casa e stando in casa da così tanto tempo, si è dilatato a dismisura, e complice anche il fatto che, nonostante il tempo che si è dilatato a dismisura di cose da fare in casa ce ne sono sempre di meno, scrivere, certo, ascoltare, anche, leggere, guardare, ma poco altro, niente uscite, niente andare a trovare, niente incontrare, niente andare per concerti o studi di registrazione. Le conferenze no, quelle nella mia vita non c’erano neanche prima, sono un asociale, è noto, e non mi piace pranzare al buffet, a differenza dei miei colleghi.

Sta di fatto che ci ho pensato e ripensato, e sono giunto alla conclusione che quel che ho visto l’altra sera a X Factor, almeno due passaggi di quanto ho visto l’altra sera a X Factor, mi ha parecchio colpito, con violenza. Mi ha colpito perché si è in qualche modo messo in scena una sorta di esecuzione sommaria di quello che, in teoria, molto in teoria, quel tipo di programmi dovrebbe celebrare, non uccidere. E lo si è fatto alla luce del sole, con quella impunità tipica di chi sa di poter agire al di sopra del buonsenso senza che nessuno abbia da ridire qualcosa, senza che nessuno te ne chieda il conto, e volendo te la faccia pagare.

Mi riferisco a due episodi precisi, in apparenza minori, ma che in realtà minori non sono, affatto.

Uno è avvenuto per bocca di Hell Raton, al secolo Manuelito sa il cazzo, il capo della Machete di Salmo e Nitro, giunto in queste settimane a una pseudofama, dico pseudo perché X Factor sta sempre sotto il milione di spettatori, roba minore, molto meno di una qualsiasi puntata di Un giorno in Pretura, e dico pseudo perché so bene che chi dovrebbe conoscere Hell Raton, perché ascolta il tipo di musica che Machete produce, già lo conosce, non ha avuto certo bisogno di X Factor, mentre chi neanche sa cosa sia Machete, non lo andrà certo a cercare dopo averlo visto lì, primo perché con buona probabilità sarà nella stragrande maggioranza silenziosa, è il caso di dirlo, perché X Factor non lo vede nessuno ma ne parlano in molti, che quel programma non se lo incula di striscio, secondo perché anche dovesse essere tra quanti lo vedono, è evidente che se non seguivano prima Salmo e soci non inizierà adesso per avergli sentito dire quattro cazzate dentro la televisione. L’altra l’ha detta direttamente Cattelan, che di X Factor, le due puntate di assenza causa Covid ben ce l’hanno certificato, è il motore primo, se non unico.

Siamo nella seconda manche del quinto live. Un ballottaggio piuttosto imprevisto, incautamente definito da Manuel come “la cosa più estrema successa nel 2020”, anno che magari qualcosa di estremo ce lo ha fatto vivere, giusto un filo, i Melancholia, band di Foligno capitanato dall’istrionica Benedetta contro NAIP, una sorta di riproposizione contemporanea del dadaismo, con tutte le differenze del caso, le tantissime differenza del caso, Dio e Tristan Tzara mi perdonino, ballottaggio che, qui la sorpresa nella sorpresa, vedrà eliminata la band, data da molti come ipotetici vincitori del talent, in realtà se la vedranno Blind, un tamarro di Perugia che piange ogni due minuti e Casadilego, una versione senza talento di Billie Eilish, almeno esteticamente, è scritto. L’aria è tesa. Si è esibita Cmqmartina, che poi verrà eliminata, non è un giallo, si può spoilerare tranquillamente, per mano del suo stesso giudice. Tocca a un’altra delle tre concorrenti in gara della squadra di Hell Raton, Mydrama, una che ha un orribile autotune naturale. Farà una cover di Crudelia di Marracash, e Hell Raton, così, senza che nessuno lo costringa tenendo in ostaggio un suo parente stretto o puntandogli un’arma contro, dice “Se dovessimo trapiantare Marracash in America, probabilmente vincerebbe il Premio Pulitzer, come Kendrick Lamar”, senza per altro spiegare cosa sia il Premio Pulitzer agli spettatori di X Factor, specificare che il Premio Pulitzer ha da anni e anni una sezione dedicata alla musica, e che con Kendrick Lamar per la prima volta lo ha vinto un artista ascrivibile alla musica leggera, il pubblico di X Factor, gente che fin qui ha spinto avanti Blind e Mydrama, appunto, non proprio gente cresciuta a Robert Cheever o Rick Moody, ma soprattutto dicendo una tale puttanata, cioè che Marracash potrebbe ambire a un premio letterario come il Pulitzer, da chiedere una qualche forma di vendetta da parte di un supereroe oscuro di quelli che nella loro carriera ci hanno regalato Frank Miller e Alan Moore. Ovviamente la versione di Crudelia, bella canzone, di Mydrama sarà la solita merda, il tutto per demerito suo, ma non è questo il punto. Il punto è il Pulitzer, Lamar, Marracash.

Quando però, sempre nella seconda manche, a Melancholia eliminati proprio per mano vile di Hell Raton, si sono esibiti i Little Pieces of Marmelade, che per la cronaca sono un duo di rockettari in odore di hardcore provenienti dalla mia terra, per la precisione da quella Filottrano che ha già dato i natali ai fratelli Severini, vedi alla voce Gang, quando si sono esibiti loro e Hell Raton ha ancora una volta iniziato a fare il pretino, quello che sembra sempre calmo e di buone intenzioni, pronto però a pugnalare i ragazzi della squadra di Manuel alle spalle, e Manuel ha sbroccato, lui che aveva preso l’eliminazione del trio di Foligno molto male, e che aveva iniziato la seconda manche con una sorta di sciopero della parola, ecco, quando Manuel ha sbroccato e ha vomitato contro Hell Raton, chiamato anche “Ciccio” in uno dei passaggi più pesanti, con toni molto minatori, di uno che sta per gonfiarti come una zampogna, dando vita a una vera e propria furibonda lite, quando la situazione è chiaramente sfuggita di mano a tutti, e il tutto stava per degenerare Cattelan, che va detto non è riuscito mai a tenere la trasmissione in mano, con tanto di defaillance finale, quando Hell Raton imporrà di votare per ultimo al ballottaggio di due ragazze della sua squadra, sovvertendo un rituale consolidato da anni, ha tirato fuori dal cilindro quella che ai suoi occhi doveva apparire come una frase cool, da Cattelan che presenta X Factor su Sky, la quintessenza della coolness. Questa frase: “Adesso però basta, se non sembra una discussione da Pitchfork”.

Cioè, a distanza di pochi minuti qualcuno ha sostenuto che Marracash dovrebbe essere insignito del Pulitzer, in qualche modo non tanto elevando il rapper della Barona al livello del collega americano, e in qualche modo riconoscendogli una credibilità letteraria in patria a quella che il Pulitzer ha voluto riconoscere a Lamar, credibilità che, non ce ne voglia, Marracash ancora non ha raggiunto e forse mai raggiungerà, salvo poi usare Pitchfork, rivista online magari anche discutibile per certi atteggiamenti elitari e spocchiosi, comunque una sorta di punto di riferimento per chiunque segue la musica, magari non il pop, ma tutto quel che ruota intorno al rock, nelle sue tante sfumature alternative, quindi un macrogenere che racchiude anche l’urban, il rap, tutto, direi che non è il caso di soffermarci su questo tema ora, come arma contundente, come a dire che se si finisce in zona Pitchfork durante un programma che si dovrebbe occupare di musica, con per di più tutta la carica di spocchia che Sky ha appoggiato su X Factor, si va fuoristrada, ci si fa del male da soli.

Nessuno, ovviamente, ha avuto nulla da eccepire. Parlo dei presenti. Né sul Pulitzer a Marracash, né su Pitchfork usato in quella maniera. Intendiamoci, immagino che Emma non sappia né cosa sia il Pulitzer, né chi sia Kendrick Lamar, figuriamoci se conosce Pitchfork una che parlando di musica non riesce a uscire dal binario morto delle emozioni e dei sentimenti, ma Mika, Manuel Agnelli?

Tutto regolare?

Niente da ribattere?

Niente da eccepire?

Ora, chiaramente essermi soffermato per così tanto tempo, non dico di aver continuato ininterrottamente a pensare a questo per tutti questi giorni, non voglio barare, ma ci ho comunque pensato e ripensato, al punto di scriverne, è un po’ un esercizio di stile per provare a parlare di come, in fondo, se siamo una nazione che, dovendo parlare di musica, penso al Festival di Sanremo, non ha di meglio da fare che chiamare a raccolta il circo degli orrori, quei mesti personaggi tirati fuori dalla naftalina per i programmi tv generalisti, dai Dario Salvatori ai tanti cantanti che furono, le Rosanna Fratello, le Lene Biolcati, gente che non ha lasciato traccia nella storia della musica italiana, forse neanche in quella del costume, se siamo una nazione che avvalla il principio per cui il nostro bagaglio culturale, perché la musica, anche quella leggera, è cultura, all’estero lo lasciamo in mano a gente come Laura Pausini, Eros Ramazzotti, o a tutti quei reperti da museo tipo Pupo e affini, se siamo il paese in cui, dovendo scegliere un interlocutore con cui discutere dello stato dell’arte, cioè di in che condizioni versi il mondo dello spettacolo durante una pandemia, si sceglie di farlo chiamando a raccolta non una rappresentanza di tutte le categorie coinvolte, ma solo quelle delle grandi aziende, come se incontrando le parti sociali il governo convocasse solo Confindustria e non i sindacati, per intendersi, ecco, se siamo diventati questa merda qui un po’ è anche perché i pochi fortunati che si sono trovati a occupare posizioni di un qualche minimo rilievo, e il presentatore di un talent e i giudici del medesimo talent un ruolo ce l’hanno, hanno qualche centinaio di migliaia di persone che vedono quel programma, che ne parlano sui social, finiscono negli articoli e nei commenti degli opinionisti, non hanno una minima cura e rispetto nell’affrontare la materia, parlando tanto per parlare, come gente di passaggio, improvvisati.

Il tutto, per altro, in una stagione, forse la più stanca e moscia da che il talent esiste o quantomeno da che il talent è arrivato su Sky, seppur essere più stanca e moscia dell’edizione dell’anno scorso, vinta da Sofia, non credo serva aggiungere altro, è davvero ardua, una stagione che però ha lasciato un minimo spazio a dei diversivi, spiragli su un mondo non certo originalissimo, l’originalità che viene riconosciuta ai personaggi che sto per citare è più dettata dall’essere circondati da così tanta mediocrità, non certo a guizzi inediti o idee originali, penso ai già citati NAIP, la sua Attenti al loop è nei fatti la canzone più bizzarra di sempre all’interno di questo format, degli stessi Little Pieces of Marmelade, che originali non sono affatto, ma sono almeno coerenti a un mondo che con quel tipo di programmi lì non ha mai avuto punti di incontro, quindi il contatto risulta quantomeno spiazzante, e gli stessi Melancholia, vagamente monocordi, va sottolineato, ma sicuramente dotati di una poetica non in linea con quel che, da tradizione passa il convento.

Come dire, da una parte lasci aperte porte a una qualche diversificazione, dall’altra dileggi e tratti con sberleffi chi quel che tu dovresti fare lo fa seriamente.

In queste ore è uscito per Minimumfax il nuovo libro di Simon Reynolds, Futuromania- sogni elettronici da Moroder ai Migos. Un libro che, il titolo è un po’ paraculo, vista l’attenzione anche mainstream che il suo precedente Retromania ha riscosso in giro per il mondo, in qualche modo prova a sviluppare il compendio di quanto il critico musicale probabilmente più importante tra i contemporanei ha tratteggiato fin qui. Dico probabilmente perché, confesso, lo sto leggendo in queste ore, non l’ho finito e, seppur io sin dalle prime pagine ci sia caduto dentro con le scarpe e tutto, come sempre mi capita con gli scritti del nostro, non ho tutti gli elementi necessari per poterne parlare a ragione veduta.

Simon Reynolds, coi suoi Post-Punk 1978-1984, HipHop-rock 1984-2008, Polvere di stelle: il glam rock dalle origini ai giorni nostri, Energy Flash come del resto anche altre firme, penso in precedenza a Greil Marcus, coi suoi Tracce di rossetto- Storia segreta del XX secolo, Mystery Train- visione d’America nel rock, Like a Rolling Stone e Quella strana e vecchia America- i Basement Tapes di Bob Dylan, a Chuck Klosterman coi suoi Fargo City Rock- Un’odissea heavy metal nel Nord Dakota rurale, Morire per sopravvivere- Una storia vera all’85% e il recentissimo L’uomo invisibile, Paul Morley col suo Parole e musica- Una storia del pop dal Big Bang a oggi e l’opera omnia di Mark Fischer, che di Reynolds è stato prima maestro e ispirazione e poi collega, è una delle pietre miliari della odierna critica musicale. Ma siccome la critica musicale oggi, forse anche ieri, ma sicuramente oggi, è uscita dalle strette maglie del mero compendio al giornalismo musicale, dove negli anni in qualche modo era stata relegata, specie del giornalismo specialistico, per andare a essere base portante, o quantomeno non marginale dei cosiddetti cultural studies, a metà strada tra sociologia e antropologia culturale, certo, ma oggi come oggi vera e propria materia a se stante, in bilico tra la cultura di massa da cui trae il nome, la letteratura e tutte le altre forme d’arte, siccome quindi la critica musicale si sta prendendo la briga, o almeno ci sta provando, di andare a intraprendere una decodificazione dei linguaggi e delle espressioni artistiche così da poter fornire gli strumenti a chiunque per comprendere l’oggi, quantomai sottoposto a una vera e propria tempesta di indicazioni, messaggi e sottomessaggi, forse sarebbe il caso di trattare con cura non solo chi se ne occupa, spesso inconsapevolmente, certo, ma pur sempre con passione, ma anche chi decide di approfondirne la conoscenza, da studioso o semplice lettore/ascoltatore.

Intendiamoci, di quel che passa dentro la televisione mi frega poco o nulla, non mi sono certo offeso perché si è fatta bassa ironia su Pitchfork, non ci scrivo e non sono quasi mai incline a concordare con quanto scrivono, e comunque dubito che a Pitchfork guarderebbero a me come a un loro collega, men che meno chi ha trattato il Pulitzer come fosse una delle targhe dei Wind Award, se con buona probabilità non mi cagherebbero a Pitchfork figuriamoci al Premio Pulitzer, io che fatico a essere preso sul serio dai premi letterari italiani. Non sono affatto offeso. Sono più che altro colpito da una certa forma di superficialità che induce il sistema musica, e chi lo abita, a trattare quella parte del sistema musica che dovrebbe aiutarlo e aiutare i fruitori a non muoversi a tentoni.

Mi spiego meglio. Anche per non dar adito a dubbi. Sto parlando del sesso degli angeli, lo so, e ne sto parlando con la consapevolezza di essere qui a parlarne, senza cioè voler elevare il discorso più in alto di quanto non sia o non vada collocato. Solo che siccome mi occupo da oltre venticinque anni di parole, tendo a trattare con la stessa attenzione anche quelle che vengono pronunciate da altri, specie se riguardano temi che mi sono cari e che, è il caso specifico, mi sono cari perché ritengo in qualche modo siano importanti, non solo per me.

Chiunque in questo momento stia alzando il ditino pensando di dire qualcosa come “ma c’è gente che sta morendo in solitudine, o chi non sa come mettere la cena sulla tavola stasera e tu stai qui a parlare di critica musicale” prenda il suddetto ditino, lo unisca agli altri quattro della mano e, portata la medesima mano dietro la schiena, se la ficchi in culo, in un classico fist fucking, alla Ranxerox.

Non si può parlare solo di Covid, anche nelle pagine di un diario online, tanto più perché poi, di fronte al continuo parlare solo di Covid non si fa altro che dire, appunto, che non si dovrebbe parlare solo di Covid.

Per gli altri, quelli cioè che al momento hanno entrambe le mani libere.

Sono anni, diciamo da che esistono i social, che nugoli piuttosto nutriti di fan, spesso aizzati direttamente dagli artisti di cui sono fan, pubblicamente o in forma privata, vengono a commentare articoli e scritti, ponendosi sul famoso grado di uno vale uno, e sottolineando come quella che hanno appena letto, cioè quello che ho scritto, altro non sia che la mia opinione. Non solo, sono anni che i medesimi sostengono che le mie opinioni, spesso definite inutili, altro non siano che frutto di frustrazione per un qualche non meglio precisato rosicamento, con tanto di citazioni a cazzo di ipotetiche frasi di Frank Zappa, di cui ovviamente al massimo conoscono Tengo una minchia tanta, riguardo lo scrivere di musica e il ballare di architettura, o frasi che convergono sul principio che chi sa fare fa e chi non sa fare critica, per altro andando a interpretare la seconda figura proposta, criticando, appunto, chi nello specifico invece ha scritto, pagato per farlo, non certo commentato su un social.

Sono anni, in sostanza, che vedo la critica musicale trattata come fosse un argomento da bar, al pari degli schemi calcistici che la nostra squadra del cuore dovrebbe adottare, o delle linee di politica estera che il governo dovrebbe intraprendere. Solo che la critica musicale è una faccenda seria, serissima. L’arte, di cui seppur suo malgrado, la musica fa a pieno titolo parte, anche la musica cosiddetta leggera, è parte della cultura, del nostro paese, dell’occidente, o di qualsiasi angolo del mondo. Il nostro paese ha nell’arte uno dei suoi punti di forza, dei motivi per i quali milioni e milioni di turisti ogni anno, fatta eccezione per questo martoriato 2020, ci vengono a far visita, interessati a conoscere quel che i nostri artisti, nei secoli passati, ahinoi, hanno creato al fine di riempirci di bellezza, di fornirci i codici per interpretare il mondo e, anche, dai, di salvarci, non solo l’anima. Il critico musicale, come l’artista, di cui è evidente compendio ma anche contraltare, su quei codici di interpretazione studia e lavora, proprio al fine di consentire una lettura che magari potrebbe risultare complicata o, nel caso del pop, per consentire un approfondimento che un ascolto giustamente leggero potrebbe non sottintendere. Per far questo il critico, specie il critico contemporaneo, quello che si è visto proiettato nel mare magnum degli studi culturali, studia costantemente. Non si limita, quindi, solo a ascoltare musica, con costanza e dedizione, ma legge, si informa, studia, ricerca, si confronta, si scontra. Costruisce parametri e codici, li propone agli artisti, che con quei parametri e codici si confrontano o dovrebbero confrontarsi, non fossero troppo presi dal proprio ego e dalle lusinghe che a quell’ego spesso arrivano dai medesimi critici e dai fan, instaurano un dialogo che dovrebbe poter portare a una crescita comune. Per questo, ma non credo serva sottolinearlo, spesso i critici abbandonano la forma breve dell’articolo per inseguire quella più articolata e lunga del libro.

Per questo, anche per questo, i critici vengono riconosciuti come tali dagli addetti ai lavori. Non per paura che una stroncatura comprometta le vendite, oggi non ci sono praticamente più vendite, e uno ascolta la musica che vuole, non ha bisogno che arrivi un critico a suggerirgliela, ma perché quelle parole, ricercate, sudate, studiate, possono servire a indicare strade, spiragli, magari anche a issare palizzate insormontabili, sempre e comunque a costruire un apparato che con la musica andrà a formare un unicum, che i fan e gli stessi artisti lo vogliano o meno.

Chiaramente non è X Factor il luogo in cui la critica deve trovare agio di muoversi, seppur mi sono spesso chiesto perché tra gli scranni dei giudici non abbiano mai seriamente pensato di chiamare qualcuno che, magari, di musica può parlare con meno coinvolgimento personale dei cantanti o dei produttori, e in molti casi anche con più sensatezza, non parlo certo di me che non ci andrei neanche se mi pagassero, ho già raccontato di come i contatti ricevuti da altri talent siano stati rimandati al mittente pubblicamente, senza possibilità di dialogo, ma da un talent che si pone come qualcosa di ricercato, di figo, di alto, perché se fai fare le cover di Bjork ai Melancholia, o se parlando di NAIP spendi i nomi dei situazionisti parigini, anche a sproposito, molto a sproposito, è evidente che ti stai ponendo come un programma che ambisce a un riconoscimento colto, non puoi poi scivolare così, nel giro di pochi minuti, su due bucce di banana.

Il Pulitzer a Kendrick Lamar è stato un gesto forte dell’intellighenzia americana, che ha voluto riconoscere a un artista afroamericano il diploma di letterato, seppur di Premio Pulitzer per la Musica, istituzione sempre andata a autori classici, dando così una sorta di certificazione a quel che spesso si dice, che i rapper sono come gli scrittori, o sono i nuovi romanzieri. Un gesto forte, al pari del Nobel per la Letteratura dato a Stoccolma a Bob Dylan, ma che poi non può essere speso malamente per introdurre una brutta versione di Crudelia di Marracash fatta da una ragazzina che ogni volta che ha aperto bocca ha dimostrato di non avere a disposizione un vocabolario degno di questo nome, né di conoscere un bravo foniatra, per altro. E soprattutto non è pensabile che un presentatore come Cattelan, uno che comunque ha spesso fatto citazioni alte, liquidi la critica musicale con una battutina, come se provare a accendere una analisi approfondita, alla Pitchfork, fosse qualcosa di inutile e sbagliato.

Avevo avvisato che sarei stato lungo e confuso, ora posso tornare a leggere Futuromania- sogni elettronici da Moroder ai Migos e quelli col ditino perennemente alzato potranno finalmente sfilarsi la mano dal culo.