Cari ragazzi, ascoltate i consigli musicali dei vostri genitori, perché la vostra generazione sta producendo soprattutto musica demmerda

Intanto vi consiglio di ascoltare il nuovo singolo di Enzo Savastano, Un’altra quarantena senza te. Riflettete ragazzi miei


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Esiste un simpatico detto: dove si mangia in quattro si mangia in cinque. Con variabili che mettono in scena altri numeri, sempre intorno a quelle quantità. Dove si mangia in tre si mangia in quattro, e così via. Chi ha messo in giro questo detto era evidentemente quello che si aggiungeva. Il quinto su quattro, per capirsi.

Chiunque abbia una famiglia numerosa sa che questa è una immane cazzata, e che la spesa aumenta in maniera esponenziale in base a quanti sono coloro che si siederanno a tavola. Chiunque abbia figli adolescenti non parliamone. I figli adolescenti, non è una scoperta che può portare il mio nome e non è neanche una scoperta recente che nel mio piccolo ho fatto sulla mia pelle e il mio portafogli, sono degli sconosciuti che si aggirano per casa depredando tutto, e lasciando dietro di loro solo dispense vuote e palle rotte. Dei perfetti sconosciuti. Certo, hanno la stessa faccia dei nostri bambini, giusto un po’ più spigolosa e pelosa se si parla di maschi e un po’ più allungata e adulta se si tratta di femmine, ma per il resto sono davvero degli estranei. Non ne riconosciamo i tratti del carattere, la voce, i comportamenti, ci trattano male, laddove prima erano coccolosi, e fanno rivendicazioni spesso ostentatamente opposte a quelli che sono i nostro credo, suppongo per il semplice gusto di metterci in crisi. Fatto che puntualmente avviene, chiunque abbia figli adolescenti sa bene come in casa scoppino litigate furibonde, spesso padri contro figli, madri contro figlie, con parole che se prese alla lettera farebbero impazzire un qualsiasi adulto dotato di senno.

Ecco, il senno, quando si tratta di adolescenza, lo dico non perché non si sia stati tutti adolescenti, a suo tempo, ma perché di quel nostro passaggio di vita non resta traccia nella nostra memoria, ho provato a parlarne con altri adulti con figli, nessuno ricorda di essere stato altrettanto cagacazzi, immagino sia tutta una faccenda di subconscio amorevole e di revisionismo storico fai da te, quando si parla di adolescenza il senno non fa parte del kit che i genitori hanno a disposizione, così come ne fa parte, o se ne fa parte è in piccole dosi che finiscono prestissimo, la pazienza.

Tutto diventa scontro, polemica, cambi repentini di umore, a dirla tutta cambi repentini anche di fisico, si passa da un quaranta di scarpe a un quarantaquattro nel giro di pochi giorni, così, per miracolo, e le scarpe nuove, quelle che per farli contenti avete comprato facendo sacrifici, perché va bene educarli a rigettare la mania delle mode e dei marchi, ma dire sempre no non è affatto una modalità intelligente, questo di quando eravamo adolescenti noi ce lo ricordiamo bene, quelle scarpe costate come un rene sano nel dark web le possiamo serenamente passare a un cuginetto o al figlio di una collega di tua moglie, maledetto metabolismo adolescenziale.

Il metabolismo degli adolescenti, appunto.

È un altro convitato alla nostra tavola, anche lui autoinvitatosi, e pesa sul bilancio di una famiglia come e più degli altri congiunti.

Ecco, io ho quattro figli, che mangiano come fossero un esercito. Faccio lo spesone, quello che di solito consiste in due carrelli del supermercato pieni zeppi, sette o otto delle buste di plastica da riutilizzare che si comprano nei medesimi supermercati, lo spesone, appunto, e loro hanno già spazzolato tutto prima che abbia finito di sistemarla.

A volte mi viene da pensare che in casa ci siano tipo quegli esserini alieni che negli episodi della prima trilogia di Guerre Stellari, per prima trilogia intendo quella arrivata al cinema per primi, non sono un grande esperto del mondo di George Lucas, quelli che si muovono di sottecchi nel deserto, coperti da palandrane da tuareg, come dei piccoli elfi capaci di farti scomparire cose sotto il naso, perché altrimenti è davvero difficile spiegarsi come sia possibile che oltre duecento euro di spesa spariscano in pochi secondi.

Inutile, ovviamente, star lì a provare a azzardare discorsi sul fare economia, ovviamente è impossibile far passare per superflue spese che abbiano a che fare col cibo, anche nel momento in cui il cibo di cui si sta parlando non dovesse rientrare esattamente tra quelli che un bravo dietologo indicherebbe in un menu routinario. Inutile anche provare a indurli a ragionare su concetti in realtà piuttosto basici quali il “creiamo una dispensa”, “facciamo scorte così non devo uscire tutti i giorni per fare la spesa”, “provate a non diventare come il suonatore di ukulele hawaiano dal nome impronunciabile diventato famoso per la cover di Over the Rainbow del Mago di Oz finito nella puntata più devastante di E.R.- Medici in prima linea, quella della lettera di addio di Ciccio Green”.

Una battaglia persa.

Una battaglia persa che, così funzionano i rapporti tra genitori e figli adolescenti, o almeno così funzionano a casa mia, specie in questo periodo in cui in casa ci si sta tutti sempre, senza possibilità di sfogo altrove, senza alternative, una battaglia che non manca di essere comunque combattuta a suon di urlate, corse intorno al tavolo, sermoni degni di un predicatore, monologhi che Vittorio Gasmann levate. Un accumularsi di nervosismo che alla fine, è scritto negli astri, finirà per pagare sulla sua pelle Biagio Antonacci

Soprattutto mio figlio Tommaso, quindici anni, appassionato di informatica, ha fatte sue le parole di Steve Jobs, Stay Hungry, Stay Foolish. Solo che a lui di essere folle non frega nulla, e si limita all’essere affamato.

Certo, qualcuno potrebbe mettere sul piatto del discorso che stiamo affrontando il dettaglio della mio non esattamente longilineo aspetto fisico. Ho la pancia, è vero, sono sovrappeso, è altrettanto vero, ma sono anche a dieta da quasi due anni, con le difficoltà che il non potermi fare i miei dieci chilometri a piedi al giorno da qualche mese comporta, e ce la sto davvero mettendo tutta, non per una questione estetica, ma per una questione di salute, ho cinquantuno anni e essere sovrappeso comporta affaticamenti e rotture di palle che preferisco evitare.

Al culmine della mia dieta, che prevalentemente consiste nel mangiare più sano, molte più verdure e molti meno carboidrati e dolci, alcolici non ne bevo, praticamente, sono arrivato a perdere dodici chili, ritornando vicino a una specie di forma ideale, ora credo di essere appena sotto i dieci chili persi, il Natale che si sta per avvicinare non mi sarà di grande aiuto, lo so.

Il fatto è, questo lo ripeto spesso a mio figlio, che quando sono arrivato a Milano, parlo di ventitré anni fa, pesavo cinquantanove chili. Ero magro, molto magro. Sono sempre stato magro, almeno fino a sotto i trent’anni, per poi ritrovarmi il conto salato del metabolismo una volta superato quel traguardo. Ricordo ancora quando, Marina era incinta di Lucia, la nostra primogenita, a casa di nostri amici a Roma, lei si è pesata, per capire quanto la gravidanza stesse influendo sul suo peso forma. Non avevamo la bilancia a Milano, tanto capitava abbastanza spesso di scendere in Ancona e lei si pesava lì. Io non mi pesavo più da un tempo imprecisato, non ero incinta, non ne sentivo particolare urgenza. Vuoi per una forma di solidarietà silenziosa, vuoi per curiosità, o più probabilmente per imprudenza sono finito sopra la bilancia di Laura e Nicholas, i nostri amici, anche io, e ho scoperto, così, di colpo, di essere ingrassato di una decina di chili dall’ultima volta che lo avevo fatto. Ero vicino ai settanta, così, da un giorno all’altro. Da quel momento, non so se per empatia nei confronti di mia moglie incinta, dubito, o per una faccenda più legata al fatto che la vita di coppia e soprattutto il mangiare alla deliziosa mensa della Mondadori, roba stellata, giuro, non ho più smesso di ingrassare, e si sa, una volta che hai sfondato gli argini è difficile tornare indietro. Metteteci pure che, dopo i primi anni milanesi, io che avevo sempre fatto sport, soprattutto giocato a calcio, sono diventato un essere particolarmente sedentario. Certo, ho sempre amato molto camminare, e ancora lo farei, non ci fosse sto cazzo di lock down, ma sport zero, proprio zero zero. Intorno ai quaranta è anche subentrato il colesterolo, magicamente, proprio alle prime analisi annuali fatte dopo quel traguardo. Ricordo perfettamente il discorso che mi ha fatto la mia dottoressa, un filo radicale nell’affrontare certi argomenti. “Lei ha casi di infarto o ictus in famiglia”, così ha cominciato, senza prenderla troppo alla larga. Considerate che avevo sì il colesterolo alto, ma di pochi punti, non oso pensare cosa mi avrebbe detto se ci fossero dati molto sballati. Per farla breve ha proseguito dicendo, “Deve iniziare una dieta. Non deve prendere fritti, dolci, alcool, grandi lievitati come pizza”, aggiungendo tutta una serie di altri cibi, tutti ovviamente molto gustosi. Alla mia esplicita domanda “Per quanto tempo”, ha ovviamente risposto con un serafico “Per sempre”, che non lasciava spazio a repliche. Ho iniziato la dieta, dopo quattro mesi avevo il colesterolo in regola, notizia assai negativa. Intendiamoci, ero ovviamente contento di essere tornato in regola, ma sapere che con quattro mesi di dieta puoi tornare in forma è un invito implicito, almeno io la vedo così, a fare per il resto dell’anno il cazzo che ti pare. Così in qualche modo ho fatto, e sono arrivato a superare gli ottanta.

Hai voglia a dire roba tipo “Omo de panza omo de sostanza”, con le variabili “de creanza”, nei fatti sono da anni un uomo sovrappeso. Con picchi di “molto sovrappeso” e momenti, come questo, di “poco sovrappeso”.

Essermi autoindotto a mangiare cose che mi fanno letteralmente cagare, tipo la pasta integrale, una volta alla settimana, gli hamburger di soia non conditi, grandi mangiate di verdure, tutta roba che mi toglie ovviamente la voglia di vivere, ma mi spinge anche a mangiare meno di quanto vorrei, ha contribuito a farmi dimagrire, e quando per un po’ ho potuto passeggiare per circa dieci chilometri al giorno, beh, il gioco era fatto.

Ora mi limito a mangiare di merda, con buona pace di mia suocera, che ancora si meraviglia di come io rifiuti le sue lusinghe culinarie per fare pranzo con un po’ di stracchino e dei cavoletti di Bruxelles.

Un po’ come giorni fa sottolineava Cattelan a proposito della dieta durante il Covid19, in assenza cioè di gusto e olfatto, provando a sdrammatizzare qualcosa che in realtà drammatico è, io ho optato non tanto per mangiare qualcosa di cui non riesco a provare il gusto, approfittando di un momentaneo disuso del gusto, quanto piuttosto a abusare del mio gusto per impedirmi di mangiare troppo, facendomi passare la voglia a suon di sapori sgradevoli al mio palato.

Sono un uomo un po’ sovrappeso, quindi, e quando dico a mio figlio Tommaso di mangiare meno, se no, in assenza di sport, ingrasserà, lui mi rinfaccia il mio peso forma. A nulla serve il fargli vedere le foto, le poche che ho da giovane, perché ai miei tempi non ci si faceva le foto col cellulare, e di foto ne avevamo sempre pochissime, dall’infanzia in poi. Lui è un adolescente, capisce solo il qui e adesso, a volte neanche quello.

Ma se la faccenda del cibo, della scomparsa subitanea del cibo appena da me comprato, nello specifico, è spesso argomento di discussione tra me e i miei figli, specie Tommaso, appunto, non da meno sono altri argomenti, diventati in qualche modo dei veri e propri canoni, degli standard.

Sapete, no, come funziona? Ci sono gli standard, uno parte per un assolo, l’altro si unisce e porta lo standard da un’altra parte, ritorna il primo solista e lo riprende, facendolo suo e lasciando poi spazio a una replica. Una jam jazz in piena regola.

Il cibo è uno standard. La politica è un altro standard, con i miei figli adolescenti, gli altri non se ne interessano ancora, grazie a Dio, che ci provocano buttando puntualmente in tavola discorsi che mandano me e mia moglie fuori di testa, come dicevo prima, Tommaso attacca me, Lucia attacca Marina. Discorsi spesso fatti per il gusto di provocare, di farci le palle a frange come il giubbotto di Davie Crockett. Discorsi ai quali genericamente abbocchiamo, io più di Marina, come dei polli, senza neanche provare a opporre resistenza.

Tommaso arriva a tavola e parte con uno di quei discorsi populisti, di un populismo pret-a-porter, per di più, e io mi incazzo in un nanosecondo. Sbotto, urlo, lo minaccio, anche. Idem fa Lucia con Marina. Siamo tutti più sensibili in questi mesi di clausura e di costanti pressioni, noi come i nostri figli, è davvero diventato facile sbraitare e sbroccare.

Magari ha anche una sua utilità, litigare per un nonnulla, serve da valvola di sfogo, non saprei.

Nei fatti spesso finiamo un pranzo e una cena, durante il resto della giornata, per loro natura, gli adolescenti vivono rintanati nelle loro stanze, salvo uscire per depredare la dispensa o per irrompere nelle nostre stanze per renderci partecipi di un qualche problema irrisolvibile o di una qualche prossima catastrofe, nei fatti spesso finiamo un pranzo o una cena con le vene del collo gonfie, il sangue che pulsa sulla fronte, fortuna che nel mentre sono dimagrito e ho il colesterolo a norma, o l’infarto sarebbe sicuramente dietro l’angolo.

Un altro grande classico delle nostre discussioni, qui parlo solo di quelle tra me e mio figlio Tommaso, perché Marina non è particolarmente interessata all’argomento, nel senso che non ha gusti radicali, quindi Lucia non può minarla psicologicamente facendo leva su quel discorso, è la musica.

In realtà, rispetto al cibo, che più che una discussione è uno scontro senza argomenti, e la politica, dove ovviamente una dialettica sarebbe parte naturale del discorso, per quel che riguarda la musica lo scontro tra me e mio figlio adolescente è simile a quella che potrebbe esserci tra un negoziante che ha appena finito di abbellire la propria vetrina e uno che passa e ci tira su una sassata. Ovviamente io sono il negoziante, lui il teppista (questo esempio è del tutto fuori luogo parlando di Tommaso, lo so, perché Tommaso è esattamente la quintessenza del bravo ragazzo, uno che non uscirebbe dai confini dell’ordine neanche se glielo dovessero imporre con la violenza, uno preciso, ordinato, pettinato, semmai sono io quello che ha atteggiamenti da teppista, ovviamente in senso dialettico, ma la metafora si prestava a sottoporvi una situazione nella quale io sono quello che impiega il suo tempo a costruire discorsi, mettere in piedi immaginari, lavorare sulla poetica, e lui quello che prova a devastare tutto soffiando sui castelli fatti con le carte).

Per capirsi, io magari sto in studio, nei rari momenti in cui mia moglie me lo concede, perché questo è un altro degli effetti del Covid19, almeno in casa mia, quello che un tempo era lo studio nel quale lavoravo io, studio di entrambi, è vero, ma mia moglie andava tutti i giorni in ufficio, di colpo è diventato il suo ufficio, in smart working da marzo, sempre costantemente in call o in videoconferenza, impossibile lavorare in una stessa stanza con lei, ecco, magari io sto in studio e lui, Tommaso, apre la porta e entra ballando con gesti che in un mondo normale lo porterebbero a passare qualche minuto con la testa infilata nel cesso, qualche bullo che giustamente gliela fa pagare, ma qui siamo in casa, può permettersi di fare questi balletti imbarazzanti senza per questo dover poi ricorrere a una doccia lunga e meticolosa, ballando, qui il punto, su una musica tamarra, orribile, di quelle che in genere io bollo, legittimamente, come musica demmerda, quelle cui i discografici di oggi, suppongo, invece guardano con ammirazione, loro che campano grazie ai cataloghi che vedono Pink Floyd e Roy Orbison come pietre miliari.

In genere questi intermezzi, ripeto, provocazioni del tipo che ai tempi dei cortei di Lotta Continua il servizio d’ordine non avrebbe mai permesso, sopprimendoli sul nascere, durano molto meno delle rotture di cazzo riguardo la politica o i miei discorsi sull’importanza di una nutrizione sana. Tommaso entra in studio, o ovunque io sia, il cellulare in mano a volume altissimo, una musica orribile che esce dalla cassa del medesimo, il tempo di accennare qualche balletto alla Cattelan, per intendersi, e arriva un mio sguardo di quelli che nella Bibbia, dalle parti del Vecchio Testamento, verrebbero imputate al Dio vendicativo e burbero capace di incenerire chiunque in un attimo. Neanche il tempo di dire che da piccolo l’ho portato a vedere Franco Battiato durante il suo tour nel quale neanche faceva i suoi classici, solo musica elettronica tirata fuori dai lavori pre-La voce del padrone, o di rammentargli quella volta che lo portai a conoscere Jonathan Clancy al porto di San Salvo, poche ore prima che il rockettaro di stanza a bologna si esibisse con gli His Clancyness al uno dei tanti festival che animavano il litorale abruzzese negli anni dieci, che lui scappa in un’altra stanza, proprio come un bravo sabotatore, tanto preciso quanto rapidissimo.

Ovviamente, nonostante la durata di questa incursione duri in genere pochi secondi, l’effetto non manca mai di protrarsi nel corso del resto della giornata, io costretto a andare a pescare qualche musica altrettanto incisiva da farmi uscire dalla testa quei tormentoni immondi, chiodo schiaccia chiodo, è vero, ma i chiodi della musica demmerda sono tipo quelli con cui hanno crocifisso cristo, quelli della musica che ascolto io sono quelli fini e sottili con cui si appendono al muro cornici leggere.

Il fatto è che io, come per la dieta, ci ho provato in tutti i modi. Non ho mai fatto ascoltare ai miei figli le canzoni dei bambini, roba tipo Zecchino d’Oro o Il gatto Puzzolone, per capirsi. Solo musica di qualità, perché un pensiero critico si alimenta sin dalla giovanissima età.

A tre anni, faccio un esempio, mia figlia Lucia cantava Treno di ferro di Ivano Fossati, dal fondamentale La disciplina della terra, sentirla dire “coraggio fratelli miei, il cappotto che vado” mi sembrava quantomai poetico, anni dopo, per dirla col maestro Enzo Savastano nell’immortale Canzone indie, “eppure come padre giuro ce l’ho messa tutta/ aggi’ a’ sape’ che fijema va pazza per Calcutta”.

Qualcuno potrebbe parlare di karma, di nemesi, a me sembra solo l’ennesima riprova di come la vita, in fondo, come cantava Raf in Vita, storia e pensieri di un alieno, anno del Signore 1998, non va sempre dove vuoi, sempre come vuoi.

Poi lo so, è successo anche a me con Modugno o Le Orme, rispettivamente impartitemi in giovane età da mio padre e da mio fratello maggiore, le tracce di quegli ascolti risaliranno la china, cacciando dal Tempio i venditori di cianfrusaglie, a calci nel culo e a lavorare. L’universo vedrà ripristinato il suo ordine originario, ci sarà un lieto fine. Di tutta questa musica demmerda a loro non resterà altro che qualche segno impercettibile, come quelle piccole cicatrici sulla pelle, come quelle del filo spinato di quella volta che con gli amici siamo andati a rubare le amarene dal contadino, finendo per graffiarci. Uno li guarda quasi con simpatia, quei segni, ricordando giorni felici che tanto, almeno loro, non torneranno mai più.

E visto che ho tirato in ballo il maestro Enzo Savastano e la sua Canzone indie, di cui vi consiglio di andare a cercare una strepitosa versione live in compagnia del sax non di Lello ma di Daniele Sepe e del pianoforte del mio sosia Stefano Bollani, non posso che chiudere questo ventunesimo capitolo del mio diario del secondo lock down andando a consigliarvi il nuovo singolo del re dei neomelodici, Un’altra quarantena senza te, un vero gioiello. Per ingolosirvi vi bastino solo questi due passaggi di uno tra i testi più belli tra quelli ascoltati negli ultimi trent’anni: “Adesso che i contagi un po’ risalgono/ sei tu che vuoi salire su da me/ Ma un’altra quarantena insieme a te/ a cucinare pizza tutto il giorno/ Dio solo sa che cosa vuole dire/ averti attorno e poi gridare sotto voce non ce la faccio più/  Ma un’altra quarantena insieme a te/ che canti Andrea Sannino “Nelle vene”/ e meno male che doveva andare tutto bene/ invece stiamo sul divano a guardarci Techetè” e poi “Adesso che i virologi ritornano/ sei tu che vuoi tornare qui da me/ Ma un’altra quarantena insieme a te/ che fai lo yoga sopra il mio terrazzo/ Tanto ci sono io che chiedo scusa alle signore del palazzo/ se i mariti stanno sempre a guarda’ a te/ Ma un’altra quarantena insieme a te/ a litigare per chi fa la spesa/ Tu piangi, ti lamenti e fai l’offesa/ perché vuoi scendere il cane sotto casa/ ma stasera tocca a me”.

Figli miei, sappiatelo, un giorno saprete riconoscere la bellezza e ripenserete a questi vostri anni giovanili con la malinconica consapevolezza di aver sprecato tempo spazzolando la dispensa e correndo dietro musiche effimere mentre vostro padre provava a alfabetizzarvi e spiegarvi i segreti di una dieta equilibrata.