Monsters of Folk e Peanut Butter Falcon sono la chiusa perfetta per questo mio excursus tra lo stare a casa e la voglia di evasione

La routine di questo 2020 mi spinge con la mente tra musica folk e film


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Spero avrete apprezzato. In questo secondo diario del lock down, o in questo diario del secondo lock down, a voi la scelta, non mi sono ancora concentrato per niente sulla nuova routine che si è instaurata in casa mia.

Perché in realtà, non fosse altro perché il Governo non ha avuto le palle di chiamare quello che avrebbe voluto fosse un lock down con questo preciso nome, lasciando non solo alle Regioni il compito di lavorare su certe restrizioni, ma soprattutto lasciando al buonsenso dei cittadini il rispettare alcuni aspetti che vengono indicati come “consigli”, si veda il fatto che non si potrebbe, tocca dirlo così, ospitare non conviventi in casa, il numero di sei inizialmente indicato è saltato col fatto che, sempre teoricamente, non ci si potrebbe muovere se non per motivi urgenti, salvo poi lasciare aperte le vie di fuga di duemila possibilità a disposizione, insomma, in realtà, ci sono diverse fondamentali differenza tra questo lock down, io lo chiamo così perché così è, e il precedente.

Innanzitutto, so che su questo ho battuto come un fabbro tra marzo e giugno, le scuole elementari sono ancora aperte. Almeno parzialmente. Cioè sono aperte aperte, ma col fatto che se risulta un positivo tra gli studenti di una classe, e con il virus che gira così velocemente è raro che in classi di oltre venti, a volte quasi trenta alunni, non ci sia qualcuno che diventi positivo o rischi di diventare positivo perché ha un parente positivo, o per una delle maestre positive, per loro vale esattamente lo stesso principio, tutti vanno in quella che è stata chiamata, non certo senza un grande margine di fantasia, quarantena fiduciaria. Tutti sapete di cosa parlo, ma magari queste parole possono servire a futura memoria, come testimonianza di un’epoca che mi auguro non sia destinata a ripetersi, la quarantena fiduciaria è quella che si basa, appunto, sulla fiducia che la società pone nel singolo di mettersi volontariamente e autonomamente in quarantena, nel caso degli studenti delle elementari più verso i genitori, immagino, cioè, tu sei stato a stretto contatto con qualcuno che è risultato positivo e quindi devi stare in quarantena per evitare che, nel caso diventassi positivo o più semplicemente nel caso fossi positivo asintomatico, te ne vada a contagiare altri. Chiaramente, queste le indicazioni delle ATS, invece che stare in quarantena fiduciaria, si può ricorrere al tampone, per capire se si è positivi. Solo che, questo molti non lo hanno capito, magari non per propria colpa ma per mancanza di indicazioni precise, correre a fare un tampone appena si sa che qualcuno con cui siamo stati in stretto contatto è positivo, ovviamente privatamente, a meno che non abbiamo i sintomi riconducibili al Covid, che anche qui, sono miliardi, è del tutto inutile, perché se si è stati infettati si diventa positivi dopo almeno sette, dieci giorni. Quindi si deve stare in quarantena fiduciaria, ripeto a meno che non subentrino sintomi, almeno per dieci giorni, poi l’ATS predisporrà i tamponi, così da far durare la quarantena fiduciaria più corta e non tenere inutilmente isolate persone che nulla hanno. Perché la quarantena fiduciaria, sempre nel boschetto della fantasia di chi ha predisposto questi protocolli, prevede che la persona sia isolata rispetto al resto della famiglia, quindi viva in un luogo separato, utilizzi servizi igienici, leggi alla voce bagno, separato, se proprio deve incrociare qualcuno lo faccia per mezzo di una mascherina. Ovviamente chi ha pensato ciò ritiene che gli italiani vivano tutti in case molto ampie, ben suddivise, e con almeno due bagni. E ritiene anche che chi frequenta le elementari possa in effetti stare isolato dal resto della famiglia senza cadere in depressione, sbroccare, o più semplicemente finire per vivere come un selvaggio come quelli che poi finiscono in documentari che ci spiegano come vivrebbe oggi l’uomo in assenza di progresso. E sempre ovviamente, con il passare delle settimane, lo abbiamo letto tutti in testimonianze sempre più allucinanti, è successo non solo che gente rimanesse ostaggio delle ATS o dei tamponi, senza quindi avere risultati, senza manco essere chiamati per andare a fare i tamponi, o più semplicemente in balia di un sistema che è sin da subito saltato, questo per settimane, in alcuni casi mesi. Non solo, chi oggi finisse in quarantena fiduciaria, almeno in buona parte del paese, diciamo quella parte più affollata e congestionata, io vivo a Milano, l’ATS specifica sin da subito che nessuno farà i tamponi intorno al decimo giorno per liberare prima i quarantenati fiduciari, se uno proprio vuole se li deve fare privatamente, con un costo che varia tra gli ottanta e i centocinquanta euro, a trovarlo chi ti viene a casa a fare il tampone, per altro. Altrimenti ci sono i famosi drive in, quelli con le code di ore e ore, dove se non sei stato convocato dall’ATS finisci in fondo alla fila, un po’ come succede in Pronto Soccorso quando ti danno il codice verde, sei l’ultimo, ma se quando arriva il tuo turno arrivano tre codici gialli o rossi, ti passano giustamente davanti.

Traduco, puoi portare tuo figlio di sei anni a fare il tampone, se è in quarantena fiduciaria, se hai la macchina in macchina, se no a piedi, ma potresti passarci anche qualche ora, in alcuni casi si è parlato di undici ore. Quindi quasi nessuno lo fa e si pappa i quattordici giorni più o meno isolato in casa.

Ma se uno decide di farlo, e poi, fatto il tampone, dopo dieci giorni di quarantena fiduciaria, gli capitasse di risultare positivo, scatta la quarantena vera e propria, che per una famiglia significa isolamento totale, tutti chiusi in casa, con il positivo isolato isolato, gli altri isolati rispetto al positivo e rispetto al resto del mondo, due micromondi che convivono nello stesso luogo. Il tutto in attesa di fare i tamponi con l’ATS, e che Dio ve la mandi buona e non vi faccia aspettare settimane.

Dico questo perché, nel caso aveste un familiare in quarantena fiduciaria, l’idea di finire poi in isolamento è lì, presente per tutti i quattordici giorni della medesima, pronti a misurare febbre, a capire se uno è andato in bagno troppe volte, insomma in costante allarme. Perché se ci si isola per la quarantena vera e propria, parlo di chi ha un grado minimo di senso del dovere e di responsabilità, non certo di chi si fa i cazzi suoi, poi non si può neanche uscire a fare la spesa, per capirsi, e oggi come oggi a Milano ricorrere alla spesa online significa aspettare almeno una decina di giorni, quindi o si hanno vicini e amici particolarmente disponibili e non a loro volta in quarantene o isolamenti, o ci si attacca proverbialmente al cazzo.

Dico questo, e torno a parlare di routine, perché agli occhi di molti quel che ho descritto risulterà magari uno scenario post-apocalittico, non troppo distante dalle immagini degli intubati o roba del genere, perché io ho quattro figli, che frequentano tre scuole diverse, e quattro classi diverse. Una fa il quinto superiore in una scuola di Sesto San Giovanni, uno fa il secondo liceo vicino casa, due fanno la quarta elementare, nello stesso istituto, ma in due classi diverse. Al momento, quindi, due sarebbero in DAD, qui in Lombardia Fontana la ha messa obbligatoria circa un mese fa, un paio di settimane prima che lo facesse anche Conte, gli altri invece continuano, o continuerebbero, in presenza. Bene, a due mesi e poco più dall’inizio della scuola, e con due figli su quattro in Didattica A Distanza, tre dei miei figli si sono fatti la quarantena fiduciaria, con tutto quel che ho su descritto. Tre su quattro in due mesi, saremo stati sfigati noi, ma da quel che sento non mi sembra proprio, mi sembra una percentuale altissima, come dire, se va avanti così, di qui alla fine dell’anno scolastico, ipotizzando che dopo le vacanze natalizie riaprano anche le superiori alla presenza, ognuno di loro si farà almeno tre, quattro quarantene fiduciarie a casa, sperando che restino tali.

Questo, lo dico pur sottolineando ancora una volta la mia più totale disistima e disprezzo nel confronto del Ministro Azzolina, insieme alla De Micheli una vera scappata di casa che ci è capitata nel periodo peggiore di sempre, roba che al confronto Toninelli poteva quasi sembrare una persona quasi normale, nonostante la scuola non sia in sé un luogo dove ci si infetta particolarmente. Mi spiego, a scuola si finisce spesso in quarantena fiduciaria, ma non è poi detto che la quarantena fiduciaria si tramuti in positività, almeno non in positività acclarata, ai miei tre figli è successo così. Certo, il fatto che ATS non faccia i tamponi a chi è in quarantena fiduciaria non aiuta, perché magari i miei figli erano positivi ma non lo abbiamo saputo né lo sapremo. Ma nei fatti non è nella scuola che si diffonde il contagio.

Nella scuola si diffonde il pericolo di essere contagiati, e per questo ogni due per tre, nel mio caso ogni tre per quattro, scatta una quarantena fiduciaria, con tutto quel che comporta, mascherine dei figli in quarantena nel momento in cui escono dalla loro stanza, nel caso di Francesco, nove anni, praticamente sempre, mangiare isolati in camera, perché in quel momento si è senza mascherina, utilizzo di asciugamani differenti, perché in casa siamo troppi per usare in sei un unico bagno.

Più cautele del solito, ma non abbastanza, sia chiaro, per tenerci distanti da un ipotetico pericolo.

Del resto è così che gira la vita in questo periodo, e la DAD, quella che per i più grandi è diventata una costante, loro vivono isolati, senza uscire, perché la scuola è chiusa e la paura un po’ li fotte, nel caso di Tommaso, o li tiene distanti da chi solitamente frequentano, nel caso di Lucia, che va a scuola in un altro comune e ha le amicizie in quel comune, per Francesco, nove anni, sempre quelli, si tramuta nella solita vecchia rottura di coglioni che già vi ho a lungo raccontato in primavera.

Certo, ci sono più ore di allora, ma l’idea che siccome c’è stato tempo per prepararsi, mesi per prepararsi, equivalga a poter fare lezione a distanza è in parte saltato, visto che una delle due maestre è positiva, quindi giustamente in malattia, col risultato che ci è stato detto che si sarebbero usati sistemi che non richiedessero la nostra presenza, Webex, come sistema per le videoconferenze, e Padlet, come luogo dove mettere materiali e compiti, ma nei fatti a parte il dover usare i nostri device, è evidente che per accedere a Webex e al Padlet serviamo noi, ormai ostaggi di questa cazzo di DAD manco fossimo stati rapiti da un qualche criminale.

Per altro, temo, anzi, son sicuro, questa clausura forzata, l’andare solo a scuola per quel che riguarda i più piccoli, e il non andare neanche a scuola per i più grandi, la pagheremo davvero cara, e la pagheranno soprattutto cara loro, privati di una socialità che mai come nel periodo in cui si cresce è fondamentale. E non mi si venga a dire che volendo potrebbero uscire per fare movimento e attività fisica, quindi anche andare al parco, che in effetti, almeno quello davanti alle elementari è sempre pieno, o a fare passeggiate, perché poi sareste sempre voi a cagare il cazzo parlando di movida e assembramenti, fate pace col vostro cervello.

Del resto, questa routine ritrovata, è fatta anche di media che ormai trasmettono 24 ore su 24, non sola la tv, anche il web, le radio, tutti, una sorta di costante bollettino del Covid, sempre e solo questo, con variazioni sul tema come la recente e agghiacciante: cosa faremo a Natale?

Sì, perché ovviamente avvicinandosi le feste è scattata l’ennesima divisione in squadre, imbeccata e imboccata da programmi tv, giornali e qualche uscita fuori luogo di Conte e qualche ministro, fortunatamente non tutti: chi è per una sorta di isolazionismo radicale, ognuno a casa sua, nella città nella quale vive, dentro la casa nella quale vive, coi conviventi, quindi, senza regali, i negozi devono rimanere chiusi, senza fronzoli e orpelli, chi invece è per il liberi tutti, almeno fino a dopo le feste, via a spostamenti da una parte all’altra dello stivale, via a shopping compulsivo, per salvare economia e commercianti, via a ristoranti e bar aperti, sai se no tutti quei panettoni ordinati, via anche alla stagione sciistica, non sia mai a un Natale senza fiaccolata sulla neve. Come dire, o si è con Galli del Sacco, lì a dirci che dobbiamo farci gli auguri su Skype e ordinare solo su Amazon, o si è come Sgarbi, a urlare, “io se voglio a Natale scopo con chi mi pare!”.

A me, personalmente, che in caso di restrizioni passerei il Natale per la prima volta in vita mia a Milano, cioè lontano dai miei genitori ultraottantenni e ai miei fratelli, ma anche lontano dai miei amici di vecchia data, quelli che ancora frequento appunto quando scendo nelle Marche, nella mia Ancona, di parlare di cosa farò a Natale adesso non viene proprio. Non perché io sia il Grinch, un insensibile che non vuole sentir parlare di feste, figuriamoci, ho ancora in casa due bambini che giustamente credono a Babbo Natale, e che ogni anno lo vedono, santi amici e parenti che negli anni li hanno impersonati, lì a correre giù per le scale per non farsi riconoscere dopo aver lasciato i doni davanti alla porta di casa, ma solo perché onestamente ci stiamo ormai tarando su una andatura da crociera tarata sulla quotidianità, non sapendo cosa ci attende domani pensiamo all’oggi, pensare a cosa succederà tra un mese mi risulta davvero difficile.

A occhio credo che Natale lo passeremo in casa, e per casa intendo casa nostra, a Milano, non in Ancona, noi sette, io, mia moglie, i nostri quattro figli e mia suocera, e se anche qualcuno potrebbe dire, eh, facile, parli così proprio perché siete in sette, magari anche a ragione, è pur vero che noi sette stiamo insieme tutti i giorni, Natale per noi sarebbe tale in compagnia degli altri parenti che non vediamo ormai da mesi, è evidente. I miei genitori, in primis, che non abbraccio esattamente dal 5 gennaio scorso, giorno in cui li ho salutati prima di tornare a Milano dalle ultime vacanze di Natale, non sapendo che durante l’estate ci saremmo visti, pochissime volte, sempre a distanza, maledetto Covid.

Vivo alla giornata, e come me il resto della mia famiglia, senza fare progetti a lunga gittata, con i suoi contro che sovrastano ovviamente i pro, ma tant’è.

Ho cominciato parlando di routine, e la routine di questo 2020, di questa fine di 2020 tanto più, è una routine che ci vede sprovvisti di aspettative a lunga gittata, che ci vede vivere alla giornata, come in uno di quei romanzi on the road, una di quelle storie nelle quali i nostri eroi, spesso scapestrati, idealisti, al limite della legge, tendo a tirare a campare, sorseggiando l’esistenza senza neanche prendere fiato, se vita deve essere che vita sia.

Del resto, non sono certo io il primo a dirlo, neanche sarò l’ultimo, si può viaggiare anche da fermi, non a caso uno dei più bei libri della Beat Generation, forse quello più di tutti gli altri capace di traghettare quella generazione di squinternati intellettuali alla deriva verso la cultura hippie, Abbey Hoffman a prendere il testimone che fu proprio di Jack Kerouac, il Neal Cassady compagno di viaggi di On the Road a guidare lo scuolabus a tinte fluo chiamato Furthur con su Ken Kesey e quelli che diventeranno i Grateful Dead a bordo, uno dei più bei libri di viaggio di tutti i tempi è Big Sur, romanzo di Kerouac ambientato nell’omonima località della California, un libro di viaggio da fermo appunto.

E se di viaggi di fermo finisco per occuparmi oggi, io che per anni ho girato il mondo per lavoro, reporter in un’epoca lontana, oggi impossibilitati a viaggiare per i decreti legge, certo, ma anche per quella forma di stanchezza psicologica che ormai ci tiene in ostaggio, certo, ma comunque intenzionati a non rimanercene immobilizzati qui, la mente pronta a spiccare il volo, quella stessa vita ridotta in manetta da prendere a morsi, è bene trovare la colonna sonora ideale, una di quelle che, in altri tempi, avremmo sparato dalla nostra autoradio tagliando le praterie raccontate da Willian Heat Moon e da Jonathan Raban, o nel mio caso attraversando i tanti campi di girasole delle mie Marche, non così lontane ma comunque per me non a portata di mano.

Ecco, dovendo pensare a che musica, oggi, mi spinge con la mente altrove, in quell’altrove lì, non posso che pensare a Monsters of Folk, album eponimo dell’omonima superband composta da Jim James, Conor Oberst e Mike Mogis e M.Ward uscito nel 2009. Un vero e proprio gioiello di quella musica che così tanto contraddistingue l’immaginario USA o almeno l’immaginario USA di chi pensa che gli USA siano uno posto ancora di frontiera, si tratti di andare a Ovest come di spingersi in quel sud infestato di zanzare e alligatori, non a caso patria del bluegrass, del rockabilly, del country e di tutte quelle musiche ascrivibili alla tradizione statuinitense.

Un album di una bellezza cristallina, si sarebbe detto in altri tempi, quando le parole per descrivere i lavori discografici si pescavano con cura dentro un vocabolario meno spiccio e sciatto.

Un lavoro che non ha ahinoi trovato un seguito, seppur i componenti abbiano tanto prodotto con le rispettive band da allora fino a questi tormentati mesi.

Superband, dicevo, una sorta di All Star del rock folk americano, tanto quanto, per dire, gli Oysterhead, usciti con il lavoro omonimo, chissà perché le superband non si alambiccano mai a cercare i titoli per i loro lavori, nel 2000, e la cui line-up era composta da Trey Anastasio dei Phiph, Les Claypool dei Primus e Stewart Coupland dei Police. In quel caso un gruppo che arrivava da generi decisamente differenti, il jam-rock dei Phish, quello di metal alternativo dei Primus, quello tra reggae e pop dei Police, mentre nel caso dei Monsters of Folk, i nomi non si scelgono mica per caso, è appunto un rock che prende le mosse della tradizione, chiamiamolo appunto folk, il terreno comune dei membri del gruppo.

Jim James è alla guida dei My Morning Jacket, di Louisville, nel Kentucky. Dall’esordio di The Tennessee Fire, anno 1999, fino al recente Waterfall II, uscito nel 2020 e seconda parte di un album omonimo, The Waterfall, uscito nel 2015, hanno sfornato una decina di lavori sempre solidi, un ottimo songwriting al servizio di un gruppo capace di proiettare in classifica qualcosa in apparenza assai lontana dalla contemporaneità, sempre che ci si ostini a non considerare contemporanei anche i fratelli Robinson dei Black Crowes, per dire, i Jayhawks o i meravigliosi Lambchop di Kurt Wagner, errore nel quale non vogliamo ovviamente incappare.

Con lui Conor Oberst, cantautore solista con il nome di Conor Oberst and the Mystic Valley Band, già alla guida dei Bright Eyes, band con base a Omaha, in Nebraska, insieme ai polistrumentisti Mike Mogis, anche lui con Oberst nei Monsters of Folk, e Nate Walcott, rispettivamente a suonare gli strumenti a corde, dalle chitarre al banjo, e quelli a tasti e a fiato, dalla fisarmonica al piano passando per la tromba e flicorno. I Bright Eyes hanno esordito nel 1998 con Letting On the Happiness, e il loro ultimo lavoro è di questo tormentato 2020, Down in the Weeds, Where the World Once Was.

Diciamo che se i Morning Jacket sono di matrice folk ma più orientati al rock, i Bright Eyes sono più orientati verso il folk, seppur grazie ai singoli Lua e Take it Easy (Love Nothing) li vedranno nel lontano 2004, dominare le classifiche, e non solo quelle dei college, dove in effetti sono tutt’ora delle vere e proprie divinità.

A chiudere la line-up del supergruppo M.Ward, cantautore californiano di lungo corso, nato a Ventura, anche lui ha esordito nel 1999 con Duet for Guitars #2, e il suo ultimo album è del 2020, Migration Stories, già attivo col duo She & Him, in compagnia dell’attrice e cantante Zooey Deschanel. Anche lui, come gli altri compari, è orientato verso un rock che prende le mosse dal folk, qualcosa che non avessimo dovuto fare i conti con roba come Calcutta e i TheGiornalisti potremmo definire indie, facendo ovviamente riferimento a quel mondo che ha avuto i R.E.M. o i Pixies, tanto per fare un paio di nomi.

A parlare di questo lavoro, assolutamente da recuperare, non posso che finire a citare anche un altro artista che sulla stessa scia si muove, con altrettanta capacità di essere a fuoco, chiamatelo pure talento, va.

Parlo di Jonathan Wilson, il cui Fanfare, anno del Signore 2013, potrebbe serenamente essere parte di questo progetto, come del resto i suoi altri quattro album solisti, lui figlio della Carolina del Nord, ultimo lavoro inciso, sempre quest’anno, mica sarà un caso, Dixie Blue.

Sono partito parlando di routine casalinga e sono finito a discettare di colonne sonore per on the road più o meno immaginari.

Ecco, vorrei chiudere consigliandovi la visione di un film che per un paio d’ore è stato capace di farmi evadere dalla capanna nella quale mi trovo, al secolo casa mia.

Peanut Butter Falcon, titolo italiano di In viaggio verso un sogno, film della coppia di registi Tyler Nilson e Michael Schwartz, è la storia di un ventiduenne con la sindrome di down, interpretato da un assai bravo Zack Gottsagen, che decide di inseguire il proprio sogno di diventare un wrestler e lungo il suo cammino, la sua fuga da una casa di riposo che in qualche modo è diventata la sua casa, incontra un dropout interpretato magistralmente da Shia LaBeouf, cui si unisce l’assistente sociale che lo aveva in carico presso l’ospizio, interpretata da Dakota Johnson.

Un on the road che per buona parte del film è un on the river, a bordo di una chiatta lungo i corsi d’acqua del sud degli Stati Uniti, come una moderna versione dei racconti di Mark Twain. Siccome proprio settimana scorsa mi sono ritrovato a parlare per oltre un’ora dello stato dell’arte del nostro mondo musicale con una radio inglese, London One Radio, un’intervista durante la quale la mia interlocutrice non ha mancato gentilmente di citare uno dei due libri che ho dedicato alla capitale britannica, Londra On the River, direi che Peanut Butter Falcon è la chiusa perfetta per questo mio excursus tra lo stare a casa e la voglia di evasione, nella speranza al più presto di pensare a casa dove il luogo ideale dove fare ritorno.