Lilith Primavera, Unbreakable e la scrittura come modo per scoprire il mondo

Il mondo è bello perchè è vario e Lilith Primavera è una grande artista trans che usa canzoni electropop per raccontarci la sua visione del mondo


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C’è un film di diversi anni fa, parliamo del 2000, di M. Night Shyamalan, che si intitola Unbreakable. È una storia piuttosto cupa e contorta, nel tipico stile del regista del Sesto senso, che vede l’incontro non casuale tra due personaggi che in qualche modo si dimostrano complementari. Uno, Elajah Price, interpretato da Samuel L. Jackson, è un uomo che soffre di una rarissima patologia che ha reso le sue ossa fragilissime, costringendolo sin da piccolo alla sedia a rotelle e a continue operazioni ortopediche, l’altro, David Dunn, interpretato dall’attore feticcio del nostro, Bruce Willis, praticamente indistruttibile, mai stato malato un giorno nella sua vita, addirittura immortale. Non è della trama di questo film che voglio parlarvi, ma c’è un momento nel quale Elijah spiega a David, lui che sin da piccolo è stato chiamato L’uomo di cristallo, e che è stato in qualche modo salvato dalla disperazione di doversene stare spesso in casa a causa delle continue fratture dall’arrivo nella sua vita dei fumetti, regalatigli dalla mamma, passione che da adulto lo porterà a aprire una galleria d’arte tutta dedicata alla tavola dei fumettisti, c’è un momento nel quale Elijah spiega a David di come sin dagli albori della civiltà l’uomo si sia abituato a esprimersi attraverso le immagini, dalle iscrizioni rupestri agli affreschi dentro le chiese, motivo per il quale lui, Elijah, ritiene che i fumetti siano in qualche modo i destinatari contemporanei di quel potere comunicativo e ancestrale, al punto da essere in grado di trasmettere saperi che neanche siamo più in grado di decifrare, come una lingua capace di conoscere segreti fondamentali per l’umanità però destinata a rimanere sconosciuta ai più.

I fumetti, quindi, come portatori di una verità che ci è sconosciuta, almeno per ora. Un modo per arrivare a questa verità che passa da storie apparentemente fuori dall’ordinario, spesso erroneamente confuse per un linguaggio più adatto ai bambini.

Non è un caso, credo, che personaggi come Alan Moore, insieme a Frank Miller e pochi altri titolare di una rivoluzione che ha portato il mondo dei baloon a un grado di letterarietà in altri tempi impensabile, abbia recentemente abbandonato le graphic novel per passare ai romanzi tout-court e soprattutto per dedicarsi alla sua carriera di mago.

Mentre M. Night Shyamalan stava girando il suo film, nel 1999, ho pubblicato con Mondadori un romanzo che si intitola Aironfric. Il titolo è anche il nome del protagonista, una italianizzazione del nome IronFreak. È un romanzo sperimentale, onestamente molto ingenuo e giovanilistico, nel quale narro con un linguaggio figlio della lezione del Nanni Balestrini di Vogliamo tutto e Gli invisibili, quindi qualcosa che è una via di mezzo tra prosa e poesia, le avventure di Paride Trotti, trans obeso anconetano che, durante un intervento di bendaggio gastrico, operazione atta a restringere la capienza dello stomaco al fine di impedire al paziente di mangiare troppo, metabolizza il carbonio, materiale con il quale si procede al bendaggio, diventando un mutante. Sul perché il carbonio sia poi diventato acciaio nel titolo del romanzo non saprei ben dare una spiegazione, è evidente l’omaggio a IronMan, direi. Ma non è neanche di questo che voglio parlarvi, tranquilli. Il fatto è che, per poter arrivare dove voglio arrivare, so che sembro Totò e Peppino a piazza Duomo, tocca fare un giro anche più largo del solito.

Seguitemi, quindi.

Aironfric era un trans. Lo è ancora, a ben vedere, perché i supereroi sono immortali, non fidatevi delle cazzate che recentemente ci propinano DC Comics e Marvel.

Io avevo una conoscenza del transgenderismo piuttosto relativa. Praticamente nulla. Ne vedevo lungo la statale 16, quando capitava di andare in un locale a nord di Ancona, la sera, e capivi che erano trans più che altro per i seni eccessivi e per le gambe tozze, da calciatore. Ma altro non sapevo. O meglio, sapevo qualcosina. Da ragazzo, nel gruppo che per qualche tempo ho frequentato nella mia città natale, Ancona, ci sono stati due ragazzi che hanno iniziato la transizione, termine all’epoca a tutti noi ignoto, loro compresi, procedendo faticosamente a tentoni. Lo hanno fatto approfittando, non fraintendete il mio utilizzo di questo verbo, ma stiamo parlando di provincia, ovvio che ci fosse una coltre di pregiudizi da abbattere, anche da parte di chi in apparenza non aveva ragione di averne, lo hanno quindi fatto approfittando del loro essere parte di un contesto che prevedeva una estetica sessualmente ambigua, il gruppo era infatti frequentato da dark, punk, metallari, stranamente riuniti in un medesimo luogo nonostante gusti musicali evidentemente differenti. Hanno quindi cominciato col farsi crescere i capelli, sono poi passati a vestirsi con abiti bisex, truccandosi, come del resto facevano i dark, per poi manifestare il loro essere chi erano vestendosi da donne, iniziando a truccarsi e passando a farsi cure di ormoni. Per noi, parlo di noi ragazzi cresciuti negli anni Ottanta e Novanta nella periferia dell’impero, essere trans equivaleva a essere gay, e essere gay equivaleva a essere travestiti. All’epoca non si parlava apertamente di omosessualità, non in casa, figuriamoci, ma neanche a scuola. Sapevo, per dire, che c’era un conoscente dei miei che faceva l’arbitro che era gay, e che era stato allontanato da quel contesto perché ne avrebbe potuto approfittare con i bambini che si trovava a arbitrare, il che tradiva un pregiudizio agghiacciante nei confronti dell’omosessualità, fatta coincidere con la pedofilia, ma credo fosse più che altro una questione di ignoranza, dovuta anche alla totale assenza di informazioni a riguardo. Per dire, un mio lontano parente era dichiaratamente gay, anche se nessuno lo diceva così, chiaramente, e col nome d’arte di Donna Carla leggeva le carte a pagamento, questo sicuramente non contribuiva a fare chiarezza sulle differenze tra omosessualità, gendrismo, travestitismo. So che sembra un racconto naif, ma parlo di quel che succedeva in Ancona in quel periodo, sto contestualizzando. Avevo sentito come tutti certe interviste a Jimmy Sommerville, nelle quali spiegava il senso di Smallatown Boy, ma quelle erano canzoni. La vita era altra faccenda, nessuno ci diceva nulla. Mitia e Benito, questi i nostri due amici poi divenuti trans, Benito sembrava quasi una sorta di vendetta del karma, qualcosa di molto vicina alla nemesi studiata al ginnasio, converrete, hanno iniziato il loro percorso procedendo a tentoni, sono finiti a battere, sono passati per le droghe pesanti, hanno vissuto le loro vite ai margini, tra prostituzione e dipendenze e sono entrambi morti molto giovani. Con gli anni ci siamo persi di vista, per quanto sia possibile farlo in una città di provincia. Poi sono andato via e delle loro morti ho saputo da amici comuni.

Quando quindi ho deciso di scrivere Aironfric mi sono trovato a dover scrivere di argomenti che non conoscevo. Spesso chi scrive conosce la vita scrivendone, questo l’ho capito qualche anno dopo, quando la scrittura è diventata per me altro. Fossi uno di quelli che guarda alla scrittura col romanticismo di quello spot televisivo che presentava lo scrittore come il tipo che di note, dentro un Faro, scriveva sorseggiando caffè liofilizzato direi che è qualcosa di molto simile a una seduta di psicanalisi. Ma non sono così, mi limito a dire che a volte mi capita di scrivere cose che poi, rileggendole, mi dicono cose che non avevo capito, mi aiutano a decifrare la mia vita e anche il mondo che la circonda.

Di fronte a casa mia, all’epoca in cui ho scritto Aironfric, in quella che un tempo era stata casa di Vittorio Sereni, così mi avevano assicurato alcuni vicini che, come me, lavoravano per la Mondadori, portando anche una poesia che aveva per titolo il nome di quella via, Via Scarlatti, come prova, abitava un gruppo di trans brasiliani che, presumo, si guadagnasse il pane battendo dalle parti di viale Gioia, zona di Milano considerato il fulcro della prostituzione trans e stranamente del tutto sprovvista di alberi. I nostri rispettivi appartamenti erano al quarto piano di due palazzi che condividevano un grande cortile separato da muri divisori, atti a separare i condomini, quindi io e i trans non ci siamo mai incrociati di persona, ma avevamo instaurato un sereno rapporto di convivenza tra buoni vicini, rapporto che consisteva nel fatto che, quando io tenevo lo stereo a palla loro non lo accendevano, e viceversa. Va detto che a mia differenza loro erano piuttosto monocordi, sempre e solo la colonna sonora di Evita, il film di Alan Parker con Madonna come protagonista. A volte mi capitava vedere una di loro, una tipa piuttosto tozza, bassetta e con una folta capigliatura nero corvino, farsi la barba nel bagno la cui finestra si affacciava sul ballatoio. Si faceva la barba con un rasoio usa e getta, riempiendosi la faccia di schiuma da barba, lo dico perché io non ho mai usato il rasoio di quel tipo, portando prevalentemente la barba lunga e ricorrendo saltuariamente a quello elettrico, tipo tosa pecore. Una volta, ricordo, anni dopo l’uscita di Aironfric, si è fatta la barba in topless, e nel suo essere tozza non ho specificato che aveva una quinta abbondante, fatto che ha indotto mia figlia Lucia, all’epoca immagino intorno ai tre anni, a chiedersi e quindi chiedermi perché mai la signora dall’altra parte del cortile si stesse facendo la barba. Dico questo non per far scivolare il discorso sul crinale del paradossale, o, peggio, nel ridicolo, ma per dimostrare, se è possibile, che la naivete di cui parlavo prima è in effetti tale. Al punto da avermi indotto a scriverci su un romanzo, Aironfric, certo con intenti parascientifici, più che altro incuriosito di conoscere un modo che mi era assolutamente oscuro.

Aironfric era un supereroe, torno a Unbreakable, un dropout che aveva usato la propria emarginazione per provare a risolvere le storture del mondo, facendo di una propria fragilità, nello specifico l’obesità ma anche una forma poderosa di priapismo, la leva con la quale sollevare l’universo, come un Garrincha capace di scartare i difensori per quella gamba troppo corta dovuta alla poliomelite. Un personaggio surreale, certamente, fumettoso, che però affrontava una tematica importante, adulta, il transgenderismo. Per poterlo affrontare, per poterlo raccontare, mi sono affidato a alcuni testi accademici, di sessuologia, non avendo modo di intraprendere una di quelle esperienze dirette, di interviste, frequentazioni, che fa tanto scrittore americano. Certo, avrei potuto superare l’angolo che congiunge via Tadino, la strada dove abitavo allora, con via Scarlatti, quella della casa che fu di Vittorio Sereni, e citofonare ai trans fan di Evita, ma la cosa all’epoca mi sembrava improponibile, ero ancora da troppo poco tempo lontano da quella provincia che mi aveva partorito e forgiato. Ho quindi studiato dei testi, quali Essere uomo, essere donna, di John Money e Patricia Tucker, ho letto il Manifesto Cyborg di Donna Haraway, insomma, ho fatto del mio meglio, poi ho presumibilmente buttato tutto nel cesso scrivendo un romanzo che, credo, non abbia superato benissimo l’incedere del tempo. Quel romanzo così volutamente difficile, le frasi scritte senza ricorrere alla punteggiatura, in lasse che seguivano una metrica interna, alcuni escamotage atti a ricreare le percussioni della ritmica, il CHE col quale aprivo quasi tutte le strofe, alcune parole ricorrenti, mi ha però permesso di entrare a conoscenza con tutta una serie di opere e artisti che altrimenti non avrei avuto modo di incontrare, immagino, sul mio cammino. Leggendo infatti quel mio libro, il secondo romanzo da me pubblicato, terza opera dopo la raccolta di racconti che era stato il mio esordio, forse anche per quella strepitosa copertina che Roberto De Angelis, ai tempi copertinista del bonelliano Nathan Never aveva fatto per me, oggi quella tavola campeggia nel mio bagno, arrivarono paragoni, certo troppo lusinghieri con opere che non avevo ancora letto, da Il ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller a Myra Breckinridge di Gore Vidal, permettendomi quindi di andare a conocerle, e per quella strana pratica psicogeografica di muoversi a tentoni, usando mappe di altre città, procedendo per link anche quando la parola link nulla voleva dire.

È stato così che sono arrivato a studiare più seriamente il mondo delle graphic novel, io che ero stato un modesto lettore di fumetti (seppur il mio primo quasi lavoro a Milano, nel senso che era stato un tentativo che poi non era andato a buon fine, era stato di sceneggiatore proprio per la Bonelli, nello specifico per Legs Weaver, spin-off di Natharn Never, opportunità che mi era stata procurata da un amico della mia amica psicologa che mi aveva prestato Essere Uomo, essere donna, per altro), fatto che mi avrebbe portato a Alan Moore e quindi proprio alla psicogeografia e a Iain Sinclair, ma sto davvero divagando troppo.

Myra Beckinridge, romanzo datato 1968 di Gore Vidal, nei fatti, poco ha a che fare col mio Aironfirc, se non per la questione centrale del cambiamento di sesso, per altro nel mio romanzo solo evocata, essendo il Paride Trotti divenuto Aironfric in transizione, ma non ancora operato. Certo, potrei vantarmi di una certa corrosiva ironia, nel mio caso rivolta contro la becera provincia italiana, quella marchigiana nello specifico, nel caso di Vidal rivolta tutta contro Hollywood, ma pascolerei nel campo del patetico. Nei fatti Myron Beckinridge, volato in Europa per operarsi e tornato in America come Myra è un personaggio decisamente più articolato del mio Paride Trotti, per altro a sua volta italianizzazione del Paris Trout di Pete Dexter (Il cuore nero di Paris Trout è un noir che parla di provincia, di pregiudizi che diventano ossessioni, di incapacità a superarli). Non a caso cinque anni dopo, sarebbero stati meno non fosse intervenuta la censura americana, Vidal ci tornerà su pubblicando Myron, romanzo ancora più delirante del precedente, carico di trovate allucinate e suggestive. Nel mezzo un film hollywoodiano diretto da Michael Sarne, qualcosa di molto vicino a doppio salto mortale, con Rachel Welsh nei panni dell’eroina trans.

Il fatto che da più parti, parlo di critica, fosse stato tirato fuori un azzardatissimo paragone tra Aironfric e Myra tradisce non tanto una totale mancanza di fantasia da parte della nostrana critica letteraria, per altro Paride Trotti, obeso e effeminato nelle movenze (fermi tutti, so che dire effeminato di un trans è cosa abominevole, ma sto parlando del Paride Trotti pre-Aironfric, non del supereroe protagonista del mio libro) era palesemente ispirato proprio da uno di queste figure, facile capire chi, quanto piuttosto la totale assenza di trans nel nostro panorama ottico, almeno in quello di venti anni fa, quando Aironfric uscì. Al punto che mi capitò, durante un’intervista radiofonica, di sentirmi dire se il mio romanzo non fosse in realtà opera autobiografica, fatto piuttosto suggestivo trattandosi della storia di un obeso trans che decide di sottoporsi a una operazione di bendaggio gastrico e che, durante l’operazione, metabolizza il carbonio dell’anello gastrico diventando un mutante.

Dico questo perché negli anni mi sono ritrovato sempre più spesso a usare la mia scrittura per provare a conoscere, a conoscere, non a far conoscere, anche se è evidente che si scriva per essere letti, non solo per scrivere, aspetti dell’esistenza che mi erano sconosciuti. Nel mio caso un fumetto, perché Aironfric seppur totalmente scritto e privo di disegni era a tutti gli effetti un fumetto, mi aveva indicato una realtà che altrimenti mi sarebbe rimasta ignota, proprio come diceva Elijah Price. Solo che io ne ero autore.

Da quanto ho sin qui scritto si sarà quindi capito che per me il mondo trangender sia a lungo stato un luogo sconosciuto, visto a distanza, dalla finestra. Ma siccome vivo nel 2020 e ho deciso che avrei usato il mio mestiere per conoscere il mondo, si tratti di conoscerlo perché ne scrivo o di conoscerlo perché scrivendo ho modo di conoscere gente, di ascoltarla, la gente, di parlarci, posso dire, spero senza rischiare di cadere nel banale, di aver conosciuto una grande artista trans, una donna nata uomo, per dirla con parole sue, Lilith Primavera. L’ho conosciuta come si conoscono oggi le persone, prima sui social, contatto di non so quale mio contatto, poi andando a ascoltare quel che aveva fatto, in musica, seppur Lilith Primavera, romana, attivista LGBTQI+ non sia solo una cantante e musicista, ma anche un’ attrice, una performer, e poi di persona, prima per averla chiamata in compagnia della performer di burlesque Giuditta Sin a chiudere l’evento organizzato con Tosca all’Officina Pasolini di Roma dal titolo Femminile Plurale, parlo del giugno 2019, poi per averla invitata, sempre in compagnia di Giuditta Sin, a dar vita alla sigla di Attico Monina a Sanremo, nel febbraio di quest’anno, un paio di secoli fa, sembra. A tal proposito, le vanno le mie scuse, vanno a tutte le artiste chiamate a Attico Monina, ma a lei e Giuditta Sin in modo particolare, perché l’organizzazione di un programma come quello, lo avete potuto seguire qui su OptiMagazine e su OMTv.it, è stata assai faticosa e complicata, e Lilith Primavera ha potuto mostrare solo una piccola parte di quanto aveva preparato, le tre sue canzoni, senza poter esibire tutti i balletti, tutti i tanti costumi portati a Sanremo, senza poter prendere parte come avevamo pensato inizialmente a quel programma, mea culpa, ripeto.

Lilith Primavera è una cantante che ha deciso di usare canzoni che pascolano nel grande prato dell’electropop per raccontarci la sua visione del mondo, sicuramente glitterata, ma anche piuttosto ironica e open mind. Canzoni che la vedono collaborare con producer e altri artisti, penso a Impy, o a Matteo Gabbianelli dei Kutso, coi quali ha lavorato, per citarne uno, a Nuda, electropop di respiro europeo come dalle nostre parti se ne sentono pochi.

Proprio in occasione di Attico Monina Lilith Primavera ha presentato un altro singolo, Taboo, parte di una trilogia che la vede collaborare col producer Giovanni La Tosa, kraftwerkiano di antico cabotaggio, lei a tratteggiare coi suoi testi e il suo modo di cantarli un immaginario fluido, colorato, lui a costruire hit di respiro internazionale, non a caso è anche dietro il lavoro altrettanto pop e dotato di hype di un’altra cantante trans, quella H.E.R., cantante e violinista, vincitrice all’ultimo Premio Amnesty e ingiustamente penalizzata da una giuria anziana e decisamente poco coraggiosa all’ultimo Musicultura, in gara con Il mondo non cambia mai (in questo caso La Tosa ha lavorato alla pre produzione, poi è subentrato Gianni Testa).

Goodbye my Lover, Taboo e Molto, questi i tre singoli che compongono l’ulitmo EP di Lilith Primavera, singoli che abbiamo avuto l’onore di avere come sigle per Attico Monina, brani che si sono fatti largo nel mondo dell’underground ma che meriterebbero decisamente una platea più mainstream.  Perché Lilith Primavera è una popstar a tutti gli effetti, il suo essere performer oltre che cantante regala ai suoi show un tocco di glamour cui non siamo ahinoi più abituati. Il pop è per sua natura leggero, e i brani che Lilith Primavera canta e pubblica sono leggeri nella loro quintessenza, ma non per questo non sono in grado di veicolare messaggi importanti di inclusione, o più semplicemente di abbattimento di stereotipi. Ecco, sì, come una panoramica  a trecentosessanta gradi, nulla diventa indegno di essere raccontato, nuovi punti di vista dimostrano come i pregiudizi non fanno altro che tirare su muri quando in realtà, per dirla alla Duccio di Boris, è arrivato il momento di aprire tutto.

Andatevi a recuperare i tre video di questi tre singoli, video che compongono una sorta di corto. Andatevi a recuperare le sigle di Attico Monina, con la bellisima Giuditta Sin a performare al suo fianco.

Già che ci siete, recuperate anche i film cui Lilith ha lavorato, come Linfa e Io sono Sofia, o i cameo come quello nel quale interpreta Poppea per Piotta, nel video di Vengo dal Colosseo.

Il mondo è davvero un posto bello perché vario, coloriamolo noi, tanto più in giorni come questi che ci vorrebbero tutti cupi e depressi.