Ferma il mondo, io scendo qui con Paola Iezzi

Paola è un patrimonio del nostro pop, dovremmo averne tutti cura, in attesa che si decida a tornare e magari con un album


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Fantastichiamo un po’.

Nel febbraio del 1985, le assi dell’Ariston, come pomposamente si diceva allora e credo si dica ancora oggi volendo indicare il palcoscenico che da decine di anni è location del Festival della Canzone Italiana di Sanremo, o che almeno lo è stato fino a febbraio scorso, vai a capire quando mai il Festival tornerà a esistere, comunque, nel febbraio del 1985, le assi dell’Ariston ospitarono un cantautore pugliese di cui, nel tempo, si sarebbero perse le tracce, Marco Armani. La canzone che presentava quell’anno, non che la cosa sia così rilevante in questo frangente, si intitolava Tu Dimmi Un Cuore Ce L’hai.

Così, senza punto di domanda finale, seppur la canzone e il titolo stesso richiamasse a gran voce quel segno di interpunzione atto a creare la suspance di una domanda, nello specifico una domanda retorica, quel dire che in realtà un cuore, lei, non ce l’ha, perché non ricambia con lo stesso impeto il suo amore. Ma non è dell’amore di Marco Armani che voglio parlarvi, non c’entra con la pandemia, non c’entra con lock down che qui provo a raccontare a partire dalla musica, e probabilmente non c’entra neanche con me.

Il fatto è che uno dei versi di quella canzone, così lontana nel tempo, probabilmente oggi dimenticata dai più, è assai calzante per quanto voglio dire, e questa piccola premessa è un po’ come certe intro e certe code così incredibilmente lunghe cui ci eravamo abituati un tempo lontano, oggi che le canzoni durano poco più di due minuti concedersi il lusso di oltre quaranta, cinquanta secondi di introduzione e di quasi due minuti di coda è qualcosa di quasi arrogante, sicuramente eroico, comunque piuttosto raro se non introvabile.

Torniamo allora a Tu Dimmi Un Cuore Ce L’hai, a quel Sanremo di giacche con le spalline e capelli cotonati.

Superato il primo ritornello, reiterato più e più volte, come usava allora, arriva la terza strofa, nella quale Armani cerca di rassicurare la sua amata su quanto in fondo sia facile lasciarsi andare. Nel farlo lancia sul tavolo da gioco una immagine piuttosto usurata che però, potere della musica, o magari della musica ascoltata con le orecchie di un ragazzino, ai tempi avevo sedici anni, funziona al punto da essermi tornata in mente oggi, a distanza di trentacinque anni suonati, nel bel mezzo dell’Apocalisse.

“Ho voglia di restare, tu ferma il mondo io, io scendo qui.”

Qui, nello specifico davanti al mio pc, in tuta da ginnastica alla Suburra e ciabatte, ci sono io, adesso, e ci sono per provare a raccontarvi di un’artista che, in effetti, ha fermato il mondo e è scesa.

Ho deciso di scriverne, lo faccio con una cadenza temporale non serratissima, ma abbastanza spesso, almeno una volta l’anno, a prescindere dalle sue uscite, perché credo meriti di essere comunque costantemente al centro dell’attenzione, ho deciso di scriverne perché su Instagram mi è capitato di vedere in queste ultime ore le copertine di suoi vecchi lavori, e non ho potuto che notare, ancora una volta come sia decisamente di un altro pianeta, rispetto al piattume che ci circonda. Lei che, come Armani, è scesa qui.

Lo ha fatto da tempo, in realtà, di scendere qui, ma negli ultimi anni questo suo essere scesa dal mondo è chiaro a tutti, certificato, cristallizzato, è Cassazione.

Lo ha fatto da tempo ma negli ultimi anni ha invece deciso di percorrere una strada diversa, solitaria e estremamente libera.

Anni fa, quando Spotify ha già iniziato la sua rivoluzione onnivora, dando il colpo di grazia, alla nuca, alla discografia di un tempo, quella che per contrapposizione alla musica liquida o vaporizzata di oggi andrebbe chiamata, immagino, solida. I cd diventano come i Panda, roba buona da finire su un logo per amanti della natura, anche le stesse radio hanno iniziato a rincorrere lo streaming, andando a infarcire le loro airplay di quegli stessi impronunciabili nomi che infestano le playlist della app svedese capitanata da Daniel Ek. Abituati a un tipo di connessione (e per osmosi di rapporti, anche interpersonali) sempre più veloce e frammentaria, vaporizzata appunto, le canzoni hanno cominciato a essere sempre più piccoline, poca durata, poche idee, spesso una linea melodica esilissima su cui si appoggia un testo con una sola frase forte, a mo di slogan, i pochi secondi necessari a valere uno stream, volendo anche a diventare colonna sonora di un video su Tik Tok, all’epoca dei fatti ancora lì da venire ma già abbastanza definito nel suo fratello maggiore Musical.ly. Del resto l’uso dello smartphone ha fatto ben altro, ha tolto le frequenze alte e basse, schiacciato i suoni, ucciso la dinamica, inducendo molti, quasi tutti, a omologarsi ai nuovi standard, a omogeneizzare le proprie canzoni, farsi parte di un tutto che assomiglia incredibilmente a uno degli abitanti del paesino del white trash in cui si svolge il film L’invasione degli ultracorpi, sguardo perso, espressione ebete sul viso, lineamenti e espressioni che sembrano fatte con lo stampino, perché mai ci si dovrebbe sforzare di fare qualcosa di composito, andare cioè a pescare in tutta la tavolozza di colori a disposizione?

Ecco, anche questa sarebbe una domanda retorica, di quelle che, fossi io Marco Armani, porrei come titolo di una canzone senza neanche metterci il punto di domanda alla fine.

Solo che, esattamente come nel caso della canzone di cui sopra, nonostante la domanda retorica anche stavolta c’è un lieto fino, ci sarebbe un lieto fine, perché in uno scenario apocalittico, gli zombie che si muovono claudicanti, facendo versi gutturali con la bocca ridotta ormai a una mascella con i soli denti, niente gengive e niente carne intorno, ecco che arriva un Negan armato di un pianoforte chiamato Lucille (no, quella era la chitarra di B.B.King, ma insomma, va bene lo stesso), pronto a difendere il bene a costo di rischiare la pelle.

Negan che, nello specifico, ha però la faccia decisamente più rassicurante di Paola Iezzi, è di lei che sto parlando, seppur io non la abbia ancora citata.

Devio, ancora una volta.

La virtù sta nel mezzo.

Non sempre, ma spesso.

Lo abbiamo sentito dire chissà quante volte in vita nostra, dai nostri genitori, dai nostri insegnanti, da chiunque volesse sottolineare, ce ne fosse bisogno, che gli eccessi, si tratti di parsimoniare o di essere prodighi, è sempre sbagliato. Una visione forse borghese della vita, una ricerca di modestia che, a volte, fa coincidere il modesto con ciò che è di scarsa qualità, un ristorante che venga indicato come tale su TripAdvisor non avrebbe certo molti pallini a suo favore, niente di invitante, più che con il non arrogante, l’umile. Per questo, in genere, anche in musica, i mid-tempo sono rischiosi. Non sono i brani che, in virtù di un numero di BPM, Battiti Per Minuto, considerato il minimo indispensabile dai direttori artistici delle radio, ha buone possibilità di diventare una hit, i BPM come metro di giudizio del valore artistico di un’opera, seppur di un’opera leggera, e non sono le ballad, i brani che in virtù spesso di giri in minore fanno leva sui sentimenti, i lenti. Sono appunto una via di mezzo, il termine mid-tempo questo dice, con un ritmo andante ma non importante, il piede batte ma la testa non si dimena, con una melodia adeguata, certo, ma niente lucciconi o mani che stringono i fianchi. Se una ballad ha meno chanche di un pezzo veloce di passare per radio, di trovare spazio nelle playlist, ecco, un mid-tempo è qualcosa ancora meno papabile per il ruolo di hit, un numero quattro che ambisca a trovare posto nella lista dei marcatori.

La virtù non sta nel mezzo, quindi.

Ci sono ovviamente debite eccezioni. Brani che, come il famoso aforisma einsteniano del calabrone, non sanno di non essere destinati a rimanere nel tempo, il calabrone stando alla vulgata non saprebbe di avere una struttura inadatta al volo, e per questo diventano tra i brani più amati di un repertorio già di suo piuttosto amato.

Ora, fatta la tara al dettaglio che il calabrone in realtà anche stando alla fisica può volare eccome, infatti sta lì a rompere le palle sul calare del giorno ogni qualvolta si decida di mangiare all’aperto in campagna, maledetti calabroni, e che Einstein non se ne è mai occupato, impegnato in altre faccende più focali, e dichiarato anche pubblicamente che, fosse anche vero che il calabrone volasse solo in virtù del suo essere un insetto stupido, poco pratico di fisica, questo ricorre a esempi tratti dalla natura sono in buona parte stucchevoli, quasi sempre adottati da chi fa un uso della retorica forzato quanto melenso, retorica che trova spazio su un social, mica viene proclamato a gran voce in mezzo a un bosco, focalizzerei l’attenzione sul fatto che le canzoni sottostanno alla regola aurea di qualsiasi opera d’arte, un po’ come nel Fight Club di Tyler Durden, non esistono regole. Così non fosse ci sarebbero i famosi tavolini sui quali gli autori si siederebbero giornalmente a scrivere successi sicuri, invece che tormentarsi per provare a veicolare i propri sentimenti attraverso lo stretto antro del proprio talento.

La virtù sta nel mezzo, quindi, ma a volte ci si accorge di ciò con calma, negli anni.

Mon Amour, al momento ultimo singolo di Paola Iezzi, uscito questa estate, e da me imperdonabilmente non coperto, il lock down ha lasciato segni che ho faticato a cancellare, è un mid-tempo, con chiare inflessioni alla musica che gira intorno oggi, un flow molto contemporaneo, un sound molto internazionale. Una canzone che guarda al presente, quindi, ma che affonda le radici nella poetica tipica della Paola di Paola e Chaira, quel continuo confrontarsi con l’attualità attraverso il filtro personale di una visione molto precisa, una malinconia di fondo che non ha mai abbandonato la nostra neanche nei brani più veloci. Perché Paola Iezzi è a tutti gli effetti una cantautrice, non me ne vogliano quanti e quante hanno un’idea di cantautorato decisamente più polverosa, la sola in Italia ancora oggi a giocarsela con nomi quali Tove Lo e Halsey, anche a livello di estetica e immaginario.

Mon Amour, giunto a distanza di qualche mese da LTM, che la vedeva al fianco di Myss Keta, in qualche modo sua sorella minore, e a diversi mesi da Gli Occhi Del Perdono, e ancora più indietro da Ridi, ci indica come la strada di indipendenza intrapresa da Paola non sia stata solo una necessità, il mondo delle major sembra oggi troppo interessato a altro, che si tratti della trap o dell’indie, e le piccole etichette non sono in grado di tenere il passo di chi ha un respiro troppo ampio e lo sguardo rivolto troppo verso l’alto, quanto una scelta di libertà assai precisa, di chi, dimostrato quel che c’era da dimostrare in tempi non sospetti, popstar riconosciuta in patria e all’estero, milioni di dischi venduti quando i dischi si vendevano davvero, non quei numeri effimeri cui sembrano tutti dare un grande credito oggi, lo streaming, bleah, tirata in mezzo dalla censura per aver osato, in compagnia di sua sorella, di abbattere stereotipi ideati da uomini, parlando di sesso e parlandone al femminile, ipotizzando un concetto elementare come il diritto al godimento anche per la donna, Paola ha intrapreso nel tempo un suo cammino personale, unico, faticoso, certo, perché ballare da soli è sempre un rischio, è una impresa nel senso letterale della parola, ma poi si diventa come Liv Tyler, icone talmente potenti da finire direttamente nella storia del cinema. Un calabrone che sa di poter volare e vola.

Faccio un testacoda.

Quindici anni dopo l’epifania di Marco Armani dentro la mia televisione, e prima dell’uscita di , nel 2000, mentre Paola Iezzi imperversava in compagnia di sua sorella in quegli stessi palchi, un Ivano Fossati piuttosto ispirato ha così descritto a imperitura memoria il lavoro del cantautore, il suo nello specifico, ma chiaramente non solo il suo, nella canzone La disciplina della terra, “a me pagano il giusto in questa vita mi pare, anche per vedere bene, per inseguire, per ascoltare”, andando così a sottolineare, dietro quella patina di arroganza che oggi, forse, sarebbe impresentabile, gli artisti, come gli intellettuali, non sono più da guardare con stima e ammirazione, quanto piuttosto con biasimo e disprezzo, essere pagati il giusto per fare arte, come in effetti l’artista, cioè una persona solitamente riconosciuta come capace di esprimere attraverso le proprie opere, siano canzoni, romanzi, quadri, film, sia in verità prevalentemente un flaneur incuriosito alla ricerca di non si sa bene che, ma comunque alla ricerca.
Non credo che la faccenda funzioni ancora così, ma quel che magari non funziona in termini economici, su questo ho pochi dubbi, credo arrivi in termini di seguito, di amore da parte dei fan, di riconoscibilità e credibilità da parte di chi la musica la fa, l’esempio di Myss Keta non era lì a caso.

Proprio in quegli stessi anni, nel 2000, mentre le classifiche premiavano il talento di Paola e Chiara per brani come Festival o Vamos a bailar, dentro le nostre televisioni comincerà a girare uno spot a suo modo destinato a diventare centrale. Oggi si direbbe virale, ma siamo nel 2000, e internet si sta appena affacciando sul nostro pianeta, non ci siamo caduti dentro con le scarpe e tutto. Lo spot dura circa un minuto, e come un po’ tutto in questo capitolo tende a rovesciare quel che sembrerebbe scontato. Nello specifico è la pubblicità della Telecom, ma il messaggio che veicola è quello di stare lontano dalla comunicazione, seguendo lo slogan “la tecnologia è importante, ma anche tutto il resto”.

C’è un giovane e già di enorme successo Leonardo Di Caprio, la barbetta incolta a incorniciare un volto per altro ancora fanciullesco, quasi da putto rinascimentale, lo sguardo stanco, steso su un campo. In primo piano, di volta in volta, insetti che si appoggiano sui fiori, che lui può accarezzare con la mano. In sottofondo una musica bucolica, non potrebbe che essere così. A un certo punto gli arriva un messaggio su un cellulare, un prototipo di smatphone, forse un Blackberry, chi si ricorda più i Blackberry?, cavoli, uno smartphone ancora lì da venire.

Quando sei di ritorno?, chiede il messaggio, un emoticon stilizzato, un punto e virgola a fare l’occhiolino, una riga in mezzo a fare il naso, una parentesi chiusa a fare il sorriso, a accompagnare le poche parole.

Leonardo Di Caprio lo guarda, il sole è sul punto di tramontare, lo guarda e ripone il cellulare, dicendo, in italiano, Adesso no. Poi si stende nuovamente nel silenzio della natura, il futuro può attendere, volendo anche il presente.
Una star hollywoodiana che scappa dal successo, si potrebbe sintetizzare.
Un messaggio di recupero del contatto con la natura e la vita non virtuale in deciso anticipo sui tempi, se nel 2000 si sentiva la necessità di allontanarsi dalla tecnologia figuriamoci oggi che viviamo perennemente connessi e che i social hanno in parte sostituito i rapporti interpersonali de visu.

Un modo insolito di tirare il freno a mano in piena corsa, che nel mondo reale comporterebbe un testa coda, probabilmente anche un incidente mortale, ma che nei fatti è più un tentativo dichiarato di salvarsi la vita, di prendere le distanze da quel che viene percepito come allarmante, disumano, seppur ricoperto dallo sbriluccichio del successo, il libro del diavolo senza il quale la verità non sarebbe altrettanto potente cantato da Bono in God Part II.
Se Leonardo Di Caprio, fresco di Oscar per Titanic, assurto a star assoluta della settima arte, ha cercato la pace, metaforica, nello spot della Telecom, non esattamente qualcosa di meno virtuale del mondo dal quale teoricamente stava prendendo le distanze, Paola Iezzi, un successo incredibile incontrato da giovanissima, in qualche modo entrato nella nostra storia del pop, una strada di sperimentazione e artigianato, sempre nell’alveo glitterato del pop intrapreso negli anni, solitaria ma comunque avvolta dal calore del proprio pubblico, libera di fare le proprie scelte, senza dover dire troppi grazie, senza scendere a quei compromessi che ci stanno mostrando, oggi, tanti suoi colleghi chinare il capo di fronte a mode che non possono piacere loro, lei chiaramente a suo agio, loro goffi e a disagio, Paola Iezzi, dicevo, ha in qualche modo trovato il suo mood in questo suo giocare un campionato a sé, altrove.

Basta guardare le cover dell’album Alone, del 2009, o quelle del singolo Xcept You, del 2012, per capire come Paola balli da sola, quelle le immagini riviste su IG cui facevo riferimento tante parole fa.

O meglio, quelle immagini ci dicono che Paola balla da sola, sì, ma balla anche altrove, lontano dal rumore di fondo di chi si affanna a inseguire, lei che come cantava il Luca Carboni di Sexy, “Perché invece di partire per girare il mondo, per una volta potresti da fermo farlo girare tu”.

Paola Iezzi è un patrimonio del nostro pop, dovremmo averne tutti cura, preservarlo dall’usura, conservarlo con amorevolezza, in attesa che si decida a tornare, magari, si auspica, con un progetto sulla lunga distanza, finalmente un album.

Ne parlo oggi, partendo da delle immagini, indicandovi un singolo uscito mesi fa, senza un motivo specifico, se non una attenzione che mi spinge a farlo e che dovrebbe spingere voi a ascoltarla, sempre e comunque.

Sperando che a differenza del Di Caprio di quel vecchio spot, a domanda esplicita: “Quando sei di ritorno?”, non ci risponda: “Adesso no.”