La follia è un tratto distintivo di una delle migliori artiste del momento, St. Vincent

L’arte non serve solo ad alleggerire gli animi, ma anche a sublimare il dolore e il male raccolto e messo lì


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Durante il primo lock down giravano tutorial di tutti i tipi. Da quelli che ci spiegavano come lavarci la mani, il più spassoso, quello serissimo, di Barbara D’Urso, a quelli che ci insegnavano a come fare il lievito madre con quel che avevamo in casa, una mela, dell’aceto e un po’ di farina. Poi c’erano i tanti che ci dicevano, non esattamente con rigore scientifico, come fare l’Amuchina, la prima a mancare sugli scaffali di supermercati e farmacie.

Ora, durante il secondo lock down, girano tutorial sempre di stampo pseudofarmaceutico che ci indicano come creare una nostra versione casalinga di ansiolitici come lo Xanax. Lo spirito dei tempi, verrebbe da chiosare, non prima di avervi raccomandati di non andarli a cercare e soprattutto di non provare a fare psicofarmaci in casa.

Il fatto è che la follia sembra stia dilagando al pari del Covid19, forse anche di più.

Parlo di follia, quindi, oggi. E lo faccio affrontando un argomento musicale, tanto per non deragliare del tutto, la musica è il mio campo di giochi.

Questa la notizia, sempre che serva una notizia per parlare di musica, o per parlare di altro attraverso la musica: St.Vincent, al secolo Annie Clark, una delle più interessanti cantautrici americane, ha inciso una cover dei Nine Inch Nails, Piggy.

Il 2020 potrebbe non essere tutto da dimenticare, quindi.

L’ha fatta perché i Nine Inch Nails di Trent Reznor sono entrati nella Rock ‘n’ Roll Hall of Fame, andavano giustamente omaggiati. A farlo anche Jehnny Beth, che ha inciso Closer.

Per la cronaca, alla Rock ‘n’ Roll Hall of Fame sono entrati anche i Depeche Mode, il che attesta come in effetti un uso intelligente dell’elettronica sia assolutamente assimilabile al rock, ma stiamo parlando di Dave Gahan e soci e di Trent Reznor e Atticus Ross, non esattamente di gente ordinaria.

Comunque non è di questa meritatissima celebrazione che voglio parlarvi oggi nel mio diario della pandemia, giunto al sesto capitolo.

Non voglio neanche parlarvi di St. Vincent che incide Piggy dei Nine Inch Nails, a dire il vero, seppure lei sia una delle migliori artiste in circolazione, da seguire con religiosa attenzione, la follia un tratto distintivo della sua poetica, repentini cambi di atmosfera, di registro, nelle sue canzoni, anche di mondi sonori tra album e album, per non dire dell’ estetica, dai capelli bianchi dell’album omonimo al culo esibito in colori fluo e leopardati in quella di Masseduction, estetica che poi diventa sensualità appannata e nuda nella versione pianistica dello stesso, nel mezzo di tutto, complice un talento multiforme e accelerato, ma non è di St.Vincent che incide Piggy dei Nine Inch Nails che voglio parlarvi, nonostante la sua sia una versione strepitosa, nella quale la sensualità malata e psicotica di Reznor, è stata in assoluto la prima intervista della mia vita, fidatevi, è un pazzo furioso, dotato di un grandissimo talento, non c’è bisogno che ve lo spieghi, ma di quelli che non esiterebbero a ucciderti infilandoti una penna bic in un occhio per poi seppellirti in giardino, un vero pazzo, e lei, St. Vincent ha inciso una versione di Piggy dei Nine Inch ails nella quale la sensualità malata e psicotica di Trent Reznor è diventata una sensualità psicotica e altrettanto malata, ma non di una psicosi spaventosa, piuttosto di quelle ossessive, che finisci per perdertici dentro, lasciandola in loop nell’aria, a dare il ritmo al nostro respiro.

A me non succedeva da una vita, per altro, di lasciarmi andare a un loop, il tasto repeat a evitare di dover stare a spingere sul triangolino del Play ogni pochi minuti. Mi era successo spesso, da giovane, e credo di aver passato anche un intero fine settimana, non ero ancora sposato e Marina era tornata in Ancona, lasciandomi solo a Milano, ascoltando solo e ripetutamente Push It dei Garbage, sempre e costantemente quella canzone.

Una canzone malata, Piggy dei Nine Inch Nails.

Una canzone malata, Piggy di St. Vincent.

Un ascoltatore malato, io, temo.

Musica e follia sono spesso andate a braccetto insieme, più o meno esplicitamente. Non credo serva citare il caso di Syd Barrett, probabilmente l’esempio più eclatante in tal senso. Anzi, vi consiglio di leggervi Rosso Floyd di Michele Mari per saperne di più, e anche se non necessariamente quel che Mari scrive è vero, lo scrive così bene che vale la pena leggerlo, a prescindere. Come vale la pena andare a recuperare la puntata de Il falco e il gabbiano, il bel programma che Enrico Ruggeri teneva su Radio24, dedicata a Robert Schumann, compositore di grande talento la cui sensibilità finirà per diventare patologia, o per patologia essere confusa, al punto che lui stesso preferì farsi internare nel manicomio nel quale troverà la morte a soli quarantasei anni. Una triste parabola, molto iconica, di come la follia sia decisamente limitrofa alla creatività, e di come la cura della follia non necessariamente sia un bene, sicuramente non dal punto di vista artistico, perché Schumann senza musica finirà per morire, certo non guarirà, e perché se avessero curato sin da subito la follia o presunta tale di Schumann, di Barrett, non avremmo avuto la loro musica.

Non meno iconica in questo frangente è la storia di Brian Wilson, una delle stelle polari cui fare riferimento per chiunque ancora oggi voglia confrontarsi con il mondo del rock e nello specifico nell’utilizzo delle voce e dei cori, quindi per la costruzione delle melodie e il dipanarsi delle armonie.

Le canzoni dei Beach Boys, quindi.

Chiunque le abbia ascoltate dovrebbe essersene accorto. Sono il corrispettivo in musica di certe architetture apparentemente semplici, naturali, ma in realtà tenute in piedi su equilibri complicatissimi, come in effetti solo i grandi talenti sanno fare. Vedi le volte delle chiese e solo se ci pensi capisci che non stanno lì solo per abbellimento, ma per reggere il soffitto, ecco, Brian Wilson e le sue canzoni. Grande talento che è a lungo stato dall’altra parte della strada, in quella dove la follia la fa da padrona.

Se infatti le complesse trame armoniche sono state la cifra caratterizzante della scrittura di Brian Wilson, o almeno la più riconoscibile anche a orecchio poco allenato e raffinato, la follia è stata invece il leit motiv della sua esistenza.

Un’ossessione, quella che Brian Wilson ha incontrato dentro il suo studio, cercando un suono, una atmosfera, una canzone. Anzi, quel suono, quell’atmosfera, la canzone definitiva. Lo studio costruito nella sua villa di Los Angeles e dentro il quale si ritirerà nel momento apicale del successo della band che aveva messo su coi suoi fratelli e cugini, quando nella metà degli anni Sessanta deciderà che Smile, il loro atteso prossimo album, avrebbe dovuto essere capace di surclassare per valore artistico il Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, ossessione nell’ossessione.

Abbandonati i concerti Brian comincerà a perdersi, irrecuperabilmente, dentro quello studio e quella ricerca spasmodica, e con lui si perderà la sua arte, si perderanno le sue canzoni. Smile diventerà un album mitologico, una leggenda, come un Chupacabras, uno Yeti, qualcosa di cui si vocifera ma nessun sa se esiste davvero, al punto da finire di diritto nel romanzo Visioni rock di Lewis Shiner. Una storia fantascientifica nella quale il protagonista, Roy Shacklefond, riesce a tornare indietro nel tempo e portare a termine i grandi album incompiuti, da una versione differente di The Long and Winding Road dei Beatles, affidata al solo George Martin, si fotta Phil Spector, a First Ray of the New Rising Sun di un Jimi Hendrix sul punto di morire ma ancora vivo e vegeto, con un passaggio nel Jim Morrison in zona King Lizard e un incontro a bordo piscina con Brian Wilson, appunto, ancora lì a limare e rivedere il suo album più atteso, album che vedrà la luce davvero solo nei primi anni del nuovo millennio.

La follia, nome romantico per chiamare qualcosa di assai poco romantico, ha attraversato come un filo rosso la grande storia della musica, non solo leggera. Da Miles Davis che gira armato a Prince che vive di notte come un vampiro, da Michael Jackson eterno Peter Pan al già citato Syd Barrett, perso dietro i suoi fantasmi, gli esempi sono talmente tanti da lasciare davvero l’imbarazzo della scelta.

L’arte, sembra, a volte richiede una sorta di pegno, un sacrificio votivo di quelli che un tempo si facevano alle divinità scannando animali o persone su un qualche altare profumato da incenso. Qualcosa che suona affascinante solo nei racconti del Vecchio Testamento, ma che invece è come guardare dentro un pozzo dal quale escono odori mefitici.

È però evidente che chi si immerge in quel pozzo a volte, se dotato di un determinato talento, può tirare fuori opere altrimenti inconcepibili.

Non solo in musica.

Esiste un libro che in qualche modo giustifica il fatto che io oggi sia qui in veste di scrittore.

Si intitola Il Canto Della Neve Silenziosa, è uscito oltre cinquanta anni fa in America, poi tradotto in italiano, e il suo autore è uno dei massimi scrittori statunitensi del Novecento, Hubert Selby jr. Più noto per il suo romanzo Ultima Fermata Brooklyn, poi divenuto anche un disturbatissimo film del regista Uli Edel, e più recentemente per l’altrettanto disturbante Requiem per un sogno, diretto da Darren Aronofsky, regista che sull’essere disturbante ha costruito la sua poetica, Selby jr ha pubblicato in vita pochi libri, una manciata di romanzi e questa sola raccolta di racconti.

Lo scritto che regala il titolo all’opera è autobiografico, e racconta di una passeggiata fatta sotto una copiosa nevicata, nel momento in cui un barlume di lucidità e voglia di vivere, la malattia con la quale Selby ha dovuto fare i conti per buona parte della sua esistenza è stata la depressione, è tornata a affacciarsi nella sua vita ferita e logorata, il tutto mentre la neve candida e silenziosa ricopre una New York altrimenti violenta e opprimente. La sua scrittura solitamente acuminata e impietosa, il suo primo traduttore, Attilio Veraldi, per rendere quel suo slang fatto di suoni onomatopeici e di parole prese direttamente dal vocabolario della gente di strada, dovette ricorrere a una sorta di neolingua che si rifaceva al dialetto napoletano, sua città di nascita, sperimentando in prima persona la difficoltà di rendere sulla pagina una musicalità e una vividezza assenti nella nostra lingua nazionale, di colpo si fa pacificata, circolare, quasi rassicurante. Il camminare, anche nel suo caso, è diventato un abbraccio sicuro, quando tutto sembra sul punto di crollare.

Si intravedono le crepe, certo, le cicatrici che quella neve bianca e silenziosa tende a coprire, come le strade di New York e le auto parcheggiate lungo i marciapiedi, ma sono come coperte dall’affastellarsi dei fiocchi che si poggiano sui fiocchi caduti in precedenza. Per Hubert Selby jr quel racconto di lui che cammina e cammina e cammina sotto la neve bianca è stato al tempo stesso la certificazione di un ritrovato equilibrio, ma anche l’esemplificazione di come quell’equilibrio sia stato ritrovato, una via d’uscita che porta su la scritta Via d’uscita, avesse potuto trovarla un qualsiasi Patrick Bateman.

Pareti insonorizzate e abbaglianti. Nei film, in genere, è così che vengono rappresentate le stanze dentro le quali si finisce quando la lotta con quei mostri dai denti affilati ci vedono perdere, quando cioè capitoliamo di fronte a quel che succede dentro la nostra testa. Esattamente il contrario di come, per citare un film che sul crinale scosceso della follia si muove, iconograficamente, ci è sempre stato mostrato il mondo di Batman.

Tanto il mondo di Gotham City, quello nel quale Batman è chiamato a difendere i suoi concittadini dal male, non spinto da amor di giustizia quanto più da spirito di vendetta, è oscura, la giusta cornice per le avventure di un uomo pipistrello, tanto la follia, chiamiamo le cose col nome giusto, viene spesso indicata come qualcosa di chiaro e silenzioso, di abbagliante e ovattato. Curioso che sia dipinta di bianco la faccia del suo nemico più folle, quel Joker che sul grande schermo avrà negli anni i volti stranianti i Jack Nicholson, di Heath Ledger, che proprio nell’interpretare il personaggio incontrerà la follia vera, follia che lo porterà la morte, e più recentemente Joaquin Phoenix. Tutto nel mondo dell’uomo pipistrello è confuso, scontornato, ambiguo.

Non è un caso che lo stesso regista che ha donato a Batman una nuova vita, Christopher Nolan, quello del Cavaliere oscuro portato sugli schermi con la faccia torva e grigia di Christian Bale, si fosse dedicato anni prima di quella gigantesca avventura a tratteggiare il declino dentro la follia del detective Will Dormer, protagonista del thriller psicologico Insomnia, in una accecante e bianchissima Alaska dove è sempre giorno e dove anche i suoni sono offuscati dall’assenza di sonno. La caduta nella disperazione del protagonista interpretato da un gigantesco Al Pacino, caduta dovuta non solo all’estate artica, la totale assenza di notte e quindi di buio, con la conseguente insonnia del titolo, quanto piuttosto dai divoranti sensi di colpa per aver ucciso involontariamente un collega durante un inseguimento.

Follia e senso di colpa, quindi, incapacità di trovare pace fino alla soluzione del caso, il tutto condito dalla solita folle meccanica dei film di Nolan, ancora non arrivato ai livelli di cripticità attuali, ma già sulla buona strada.

Eravamo partiti da St.Vincent che reinterpreta i Nine Inch Nails, con una cover di Piggy che per altro vede alla batteria Dave Grohl dei Foo Fighters, così, tanto per aggiungere un nuovo flag al foglio Excell di collaborazioni dell’ex batterista dei Nirvana, siamo poi passati a parlare di altri artisti che hanno pascolato su quel prato, da Schumann a Brian Wilson, abbiamo citato Lewis Shiner per arrivare a parlare di Hubert Selby Jr, citando un paio di film tratti dai suoi libri, per poi arrivare al mondo di Batman e scivolare nell’insonnia inquieta delle visioni di Christopher Nolan.

Direi che sono stato, sì, il plurale usato nel periodo precedente era un mio tentativo goffo di condividere con voi le mie scelte scellerate, piuttosto confuso, il che ben rende l’idea di come la logica stringente non sia necessariamente il solo sentiero percorribile dentro la fitta selva dello storytelling. E siccome ho parlato di follia e di musica, vorrei chiudere citandovi un film che ho visto durante il primo lock down, nella speranza che ancora Netlfix e Amazon Prime abbiano qualcosa che non ho ancora visto per questo secondo lock down, Vox Lux di Brady Corbet. È la storia allucinante, è il caso di dirlo, di una popstar di successo che scivola nel pozzo nero di cui sopra. La popstar in questione, magistralmente interpretata da quella Natalie Portman che sotto Aronofsky ci regalerà il gigantesco Cigno nero, uno dei film più inquietanti visti nel nuovo millennio, sembra una sorta di versione marcia di Lady Gaga, dipendenze, fragilità, sensi di colpa, sempre quelli, l’essere divenuta presto madre al pari dell’essere diventata popstar per essere sopravvissuta a uno di quei terribili casi di stragi nelle scuole a oscurare lo smalto del successo, tutto questo viene raccontato con efficacia, disturbando, perturbando lo spettatore.

Se sia o non sia il caso di passare un paio d’ore in un posto oscuro, di finzione, invece che affacciati a panorami rassicuranti, veri o virtuali, è scelta che ovviamente appartiene a ognuno di voi, per parte mia posso dire che l’arte non serve solo a alleggerire gli animi, pensate all’ironia pensosa di Kylie Minogue che provavo a raccontare ieri, ma anche a sublimare il dolore e il male, raccolto e messo lì, dentro uno schermo o tra le tracce di un disco.