L’ironia pensosa di Kylie Minogue in Disco, tra menzogne e interpretazioni

L'artista britannica si conferma popstar capace di raccontarci storie e utilizzare ironia nel senso letterale del termine


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Mi sono chiesto a lungo se iniziare o meno questo diario del lock down, del secondo lock down. Me lo sono chiesto molto perché, non certo per pessimismo cosmico, ero abbastanza convinto che sarebbe arrivato, le curve esponenziali lo dicevano chiaramente, l’impreparazione del governo anche, e pure il comportamento non tanto dei negazionisti, quattro coglioni di poco conto, quanto piuttosto di una folla assai più ampia di gente che semplicemente sembra non aver ancora focalizzato il problema, quella che ancora oggi vive come prima, convinta che il problema esista, sì, ma sia come spesso capita il problema di un altro. Ma me lo sono chiesto anche perché nel precedente lock down ho scritto due milioni e mezzo di battute, oltre cento capitoli, qualcosa che, raccolto in libro, sarebbe un libro di milleduecento pagine, e mi sono chiesto se sarei stato in grado di trovare altre parole, altre idee, perché questo è sì un diario ma è anche un racconto che parte da lontano, e spazia altrove, non solo per distrarre, ma per cercare risposte. Me lo sono chiesto e evidentemente mi sono risposto di sì, state leggendo il sesto capitolo del mio diario del contagio, non credo sia necessario starvelo a specificare.

Raccontare storie è il mio mestiere. Quello che mi sono scelto, quello che credo di aver imparato a fare, nel tempo, immagino partendo da un talento.

Raccontare storie quando la Storia, quella che si svolge fuori dalla mia testa, è impegnata in una sceneggiatura importante, di quella che finirà scritta anche nei libri che si studieranno a scuola, quindi, mi è sembrata una sfida da non perdere.

Si tratta solo di capire cosa raccontare, certo che comunque non sarà la cronaca a imboccarmi, quanto piuttosto la vita che taglia la strada alla cronaca, o che con la cronaca a volte decide di avere un frontale.

Del resto chi racconta storie finge, trucca le carte senza però avere intenzione di portarti via i soldi, anzi, con quel distrarti mentre muove le mani è pronto a farti comparire davanti un tesoro prezioso.

Chi scrive racconti, poesie, e visto che mi occupo di musica, chi scrive canzoni, è uno zingaro, un baro. Non lo fa per sofisticare la realtà, tutt’altro, lo fa perché non mentisse non potrebbe che darne una rappresentazione bidimensionale, e quindi monca, e soprattutto ne replicherebbe una copia carbone, senza fornire spunti o interpretazioni utili a decifrarla o metabolizzarla.

Chi racconta storie finge perché, nel momento in cui decide da che punto di vista raccontare, le parole adatte per farlo, sta operando una scelta sul punto di vista, suo e di conseguenza di chi guarderà, sul tono, sullo stile, tutte scelte che non possono che sfociare in una finzione, fosse anche un fatto di cronaca, o un passo della sua vita personale.

Nella finzione, quindi, c’è la verità.

Non ci sono i fatti esattamente per come sono successi, quelli non servono, li lasciamo alla cronaca, c’è l’essenza, la vita, la verità, appunto. Essere oggettivi è impossibile, ma del resto chi vorrebbe mai una mera successione di fatti, lo spiattellamento esangue di accadimenti nel preciso ordine cronologico, qualcosa che potrebbe fare chiunque, senza un graffio, uno spunto, una lettura personale? Credo sia la stessa differenza che corre tra un libro capace di raccontare una vita e il mero succedersi degli eventi salienti che si possono trovare su Wikipedia. Tutto lì.

Raccontiamo storie, con l’intento di farci ascoltare, quindi.

A permettere il passo in avanti è la fiducia che si instaura tra voce e orecchio, penna e occhio.

Sospendiamo l’obiettività, e crediamo a tutto quel che ci viene raccontato, perché crediamo ciecamente che quel che ci verrà raccontato, seppur non attinente ai fatti, è vero. Questo sfocia in uno strano limbo nel quale artisti particolarmente credibili vengono costantemente confusi per una sorta di diaristi, sempre lì a raccontare qualcosa che deve essergli capitato per filo e per segno. Come se un artista non potesse guardarsi intorno, o semplicemente prendere spunto dalla realtà per inventarsi storie.

Solo che le storie che questi artisti si inventano sono tutte vere, credibili, è semmai incredibile il modo in cui decidono di farlo, la capacità che hanno di farlo, di essere sinceri pur nella finzione.

Per questo, credo, anzi ne sono sicuro, poi è così facile identificarsi nelle parole che ha scritto qualcun altro che, con buona probabilità, non conosceremo mai, se non dall’altra parte di uno schermo o sopra un palco. Ci riconosciamo perché quel modo di manipolare le parole, anche le note nel caso di un cantautore, è una piccola magia che consente a noi, a chiunque di noi, di rivederci in una sorta di specchio riflesso.

Al punto da provare emozioni, penso all’amore dentro le canzoni che ascoltavamo da adolescenti, che ancora non avevamo vissuto, un amore così vero da farci appassionare, da invogliarci, poi a cercarlo, desiderosi di viverlo. Ci riconosciamo in sentimenti raccontati da qualcuno che magari quel sentimento non lo ha mai vissuto, almeno non così come ce lo racconta, non quell’amore lì, ma ci crediamo ciecamente. Vogliamo emularlo.

Figuriamoci, quindi, cosa succede se la storia che l’artista ha deciso di raccontarci è vera, per filo e per segno, magari non comprensibile, a prima vista, come le macchie di Rorschach, sembrano macchie ma sono altro, decisamente altro.

Le canzoni, quindi, ci dicono la verità. La nostra verità, anche se per farlo l’artista finge, pratica la finzione.

Perché le canzoni, esattamente come succede con i libri, chiunque le può leggere come meglio crede, dando significati al testo, alla melodia, che magari è assai distante dalle intenzioni di chi quelle canzoni ha scritto e chi quelle canzoni ha interpretato. Già il fatto che si dica interpretare una canzone per intendere che un cantante fa propria la canzone scritta e precedentemente cantata da qualcun altro la dice lunga.

Le canzoni si possono interpretare, far proprie, dare loro un significato personale, diverso da quello originale, anche se spesso chi si addentra in questa strada corre il rischio di travisare, allontanarsi troppo dal percorso, perdersi. Di più, le canzoni si devono interpretare, le interpreta anche chi le ha scritte, nel momento in cui le esegue, anche se eseguire è un brutto verbo da associare a un momento così intimo, sottintende una sorta di comando che, nei fatti, nell’arte non c’è.

Resta che le canzoni, esattamente come succede con i libri, possono essere lette da chiunque come meglio crede. Anche per questo, lo confesso, il lavoro di critico musicale è così osteggiato dai fan dei cantanti, spesso ritenuto inutile. Perché chi di lavoro è chiamato a analizzare le canzoni, a contestualizzarle e darne una lettura più tecnica che emotiva, spesso finisce nel pantano del personale, va cioè a dire a qualcuno che guarda il mondo, una canzone nello specifico, con il filtro rosa dell’amore, che in realtà l’oggetto dei propri sospiri è una poco di buono, è tutta rifatta o più in generale è assai diversa da come l’ha sempre vista. Il fatto è che anche chi ascolta una canzone con il cuore, quante volte mi sono sentito rivolgere l’accusa di non essere capace di farlo, accusa cui ho sempre risposto che tendo a ascoltarla con le orecchie, povero scemo che sono, in realtà sta interpretando una canzone, discostandosi dall’originale tanto quanto potrebbe fare chiunque intenda dar vita a una cover.

Se, cioè, ascoltiamo una determinata canzone in un momento in cui siamo particolarmente felici, un nuovo amore che è appena nato, e di conseguenza tendiamo a dare a quella canzone la potenza emotiva del momento che stiamo vivendo, addirittura ne travisiamo il testo, dando a certe determinate parole un significato che, anche volendo, non hanno, stiamo praticando una forzatura, non diversa da quella di chi prova a fare una analisi fredda, priva cioè di ogni connotazione sentimentale.

Unica differenza, magari, è che chi legge una canzone da un freddo punto di vista tecnico, parlando di suoni, di produzione, di originalità, di personalità, lo fa ben sapendo che poi quella medesima canzone finirà da tutt’altra parte nei cuori di chi la andrà a ascoltare, quasi mai succede il contrario, prova ne sono i milioni di insulti che a ogni stroncatura arrivano addosso al povero recensore.

Coi libri, in teoria, è diverso, perché lì viene proprio chiesto al lettore uno sforzo intellettivo atto a creare il contorno alle parole e alle frasi che l’autore ha scritto, andando a colorare con la propria fantasia tutti quegli spazi vuoti lasciati opportunamente o meno alla fantasia del lettore. I libri richiedono un patto di mutuo soccorso tra autore e lettore che spesso nelle canzoni viene lasciato al buon cuore di chi ascolta, anzi, spesso chi scrive e interpreta è quasi infastidito dall’invadenza di chi ascolta, pensate a cosa artisti quali Bob Dylan, o per venire a noi De Gregori o Baglioni, hanno fatto ai loro grandi classici, modificati al limite dell’irriconoscibilità, tumefatti, camuffati, se non addirittura abbandonati e disconosciuti.

Esiste un patto non detto tra ogni artista e il suo pubblico.

Parlo di artisti in generale, si tratti di cantanti, scrittori, registi, attori, pittori. Quel che è.

Il patto in questione prevede che nel momento in cui una persona, lettore, ascoltatore, spettatore, decide di entrare dentro un’opera, o anche semplicemente di confrontarcisi, pure superficialmente, lascia da parte tutti i propri preconcetti e le proprie sovrastrutture. Una cosa più semplice di quanto non sembri. Così, si spoglia nudo o nuda, lascia anche le ciabatte fuori dalla porta e entra, l’asciugamano serve per una questione di igiene, per appoggiarlo nelle assi di legno della sauna, conscio che all’interno anche tutti gli altri saranno nudi, e nessuno starà lì a prestare troppa attenzione ai dettagli che altrimenti avrebbero indotto chiunque alla vergogna, si tratti di piselli non esattamente prestanti o tette che cadono.

Sto parafrasando.

Come fossimo alle terme in un paese del nord Europa, in Italia credo valga solo per Merano, lo dico perché ci sono capitato e, distratto, quel patto non detto l’ho scoperto una volta entrato, adeguandomene senza possibilità di scelta. Entrati nudi dentro l’opera, a quel punto, non possiamo che rilassarci, lasciando che sia l’artista a decidere cosa sottoporci, come trattarci, che storia raccontarci, se c’è una storia, o che suggestione suggerirci. Le regole le detta lui, noi non abbiamo che da seguirle, fidarci, appunto.

Potremmo provare a nasconderci con l’asciugamano, alzare la voce indignati per tutta quell’intimità violata, ma staremmo semplicemente coprendoci non tanto di stoffa umida per il vapore, quanto di ridicolo, perché una volta che si entra lì, alle terme, è nudi che si deve stare.

Questo prevede il patto, nel caso delle terme, ben specificato da cartelli posti all’ingresso, stupido io che non li ho letti.

Questo prevede il patto tra l’artista e il suo pubblico.

È da sempre così.

Se uno scrittore di libri fantasy dice che di colpo in una stanza compare un drago viola, per dire, nessuno più metterlo in dubbio, alzare il ditino e dire che i draghi non esistono. Non funziona così. I draghi esistono, e quelli viola sono particolarmente pericolosi, è cosa che qualsiasi bambino potrebbe spiegarvi in pochi secondi. Del resto non è obbligatorio entrare nell’opera di un determinato artista. Se non ci piace quel che propone, il menu del giorno, o se ci mette a disagio e noi non vogliamo essere messi a disagio, per dire, perché alcune opere d’arte hanno anche questo scopo, urticare, provocare, disturbare, possiamo rivolgerci altrove. Andare in un Acqua Park per famiglie dove nessuno ci chiederà mai di gironzolare nudi bevendo una tisana da un bicchierino biodegradabile smangiucchiando un sedano.

Una delle regole che quindi un autore, anche un autore di canzoni, può imporre all’ingresso, come il dress code a un party, è di usare l’ironia. O quantomeno di interpretare l’ironia, se presente.

Va detto che l’ironia, per qualche anno, se l’è passata male. Se la passa male pure adesso, probabilmente, per motivi che però esulano una scelta intellettualistica di evitarla in quanto rea di averci in qualche modo permesso di guardare al mondo sprovvisti di difese, insomma, il peggio sembra essere passato, almeno per ora.

Dopo essere stata adottata a pieno titolo come unica maniera per affrontare il quotidiano, persi i valori che erano stati le fondamenta dell’esistenza dei nostri genitori, preso atto che tutto quello che la modernità aveva rappresentato per loro e per i nostri nonni era crollato sotto i colpi della globalizzazione, vedi alla voce fallimento, non ci restava che quella, l’ironia, per provare a decifrare il reale e soprattutto a farcelo andare giù senza rimanerci strozzati nel mentre, di colpo è passata di moda. Peggio, è diventata quasi impresentabile, come in quella puntata di Black Mirror nella quale la Tizia che ambisce a piacere a tutti, alla costante ricerca di Like facili e poco impegnativi di colpo precipita in un pozzo di disperazione, reietta e esclusa non solo da chi conta, ma anche dal resto del panorama.

Se il postmodernismo, cioè il raccontare il reale privo non solo di quei valori, rilevatisi incapaci di confrontarsi con l’attuale, ma anche di ogni forma di speranza nel futuro prossimo, quello che avrebbe riguardato noi in prima persona, perché il capitalismo che in qualche modo aveva portato il benessere proprio ai nostri genitori si è dimostrato nel tempo fragile, se il postmordernismo, andando a mischiare alto e basso, scombinando il tutto, appunto, con l’ironia, di colpo si è piantato contro un albero, ecco che a sostituirlo è arrivata una forma velocizzata a dismisura dei suoi principi base, l’ipermodernismo. Quindi ecco una nuova ricetta divenuta di colpo immancabile a ogni tavola, come le pennette alla vodka negli anni in cui Paride è nato, con una necessità quasi spasmodica di far ricorso al reale, all’essenziale, ma in una narrazione talmente frammentata e frammentaria da non lasciare spazio per altro che non sia l’adesso. L’ipermoderno, questa realtà fatta di connettività estrema, di accelerazioni continue, di frammentazione continua, ha preso tutto ciò che formava i pilastri della modernità e li ha sparati a razzo nell’universo, con noi al seguito. L’ironia, ovviamente, in questo quadretto è la Laika affacciata all’oblò dello Sputnik, in attesa che qualcuno la riporti a casa.

Solo che, dovendo scegliere tra una realtà fatta di rapporti schizzati, velocissimi e superficiali, e una che prova a usare l’ironia come filtro, direi che la partita neanche dovrebbe cominciare, due a zero a tavolino per quest’ultima.

Resta solo da farlo capire a quanti, nel mentre, hanno alzato piccoli altari alla Dea verità, lasciando fuori tutto quello che possa in qualche modo lasciar adito a una interpretazione fuori dai canoni, vedi alla voce politicamente scorretto. Tutto deve essere facilmente comprensibile, dentro i binari, non dare scandalo, non disturbare, rassicurare sempre e comunque. Anche quando non c’è nulla di rassicurante da mettere in tavola.

Sto girando a vuoto.

No, non sto girando a vuoto, credo di aver messo sul tavolo un sacco di cose da mangiare. Ma ancora non ho detto qual è il piatto del giorno.

Eccolo.

È uscito il nuovo album di Kylie Minogue, e si intitola Disco.

Kylie Minogue, rileggetevi quanto scritto qui sopra, è in questo uno strano fenomeno.

Un’artista pop, non avant-pop né pop-art, pop e basta, ma capace di uno sguardo ironico sul reale che in qualche modo ci rassicura e ci turba.

Ci rassicura non perché quello sguardo ci indichi un posto rassicurante, per essere chiari, quanto piuttosto per il sapere che non siamo soli nell’universo, che, cioè, c’è qualcun altro oltre noi a continuare strenuamente a opporre resistenza a questa sorta di dittatura del pensiero unico dominante, e nel farlo pratica un pop anche plasticoso, volendo, ma con uno sguardo leggero, nella moda direbbero un portamento, che rende il tutto ironico, talmente serio da non essere preso sul serio.

Ci turba perché, a cinquantadue anni, rimane una donna di un fascino senza tempo, come se la avessero conservato in naftalina. L’idea di percorrere proprio quest’anno, anno nel quale per altro in molti si sono fermati, non potendo proporre le prevendite di tour mondiali (da noi anche solo tour nazionali), tour che sicuramente non si svolgeranno l’anno prossimo, lei torna e torna con un album che è una sorta di divertito omaggio al mondo della disco anni 70 e 80, gli Chic e lo studio 54 in mente e nell’orecchio. Come a voler rovesciare il noto slogan georgeclintoniano: muovi il culo e la mente andrà altrove. Per altro, ma questa è una notazione a margine, il culo di Kylie Minogue è leggendario, non sono certo io a scoprirlo.

Kylie Minogue è una popstar capace di raccontarci storie, questo è un fatto, credibile mentre balla sinuosa nel video di Can’t Get You Out of My Head, anno del signore 2001, hit mondiale che ha ispirato quel pazzo fuorioso di Paul Morley, uno che di pop se ne intende come pochi altri, ex marito di Claudia Brücken dei Propaganda, mente, insieme a Trevor Horn, dietro il successo degli Art of Noise, nello scrivere il libro Words and music: storia del pop sotto forma di città, uscito inizialmente da noi col titolo Metapop, un vero e proprio capolavoro di critica musicale e anche di letteratura.

Una popstar, Kylie Minogue, un personaggio pop degno di finire dentro un testo diventato caposaldo di un genere, quello della critica musicale che scivola nella sociologia e poi anche nella filosofia, genere che ha al momento in Simon Reynolds il suo Dio, ma che ha anche avuto Mark Fischer come suo nume tutelare.

Kylie Minogue, questo è il punto, ha da tempo deciso di percorrere un cammino che sia il suo, e suo soltanto, un cammino fatto di finzione che però ce la mostra credibile nei panni dell’artista dance come in quelle della country girl, Golden, penultimo lavoro di studio, transitava da quelle parti, a duettare con Nick Cave nei panni della vittima di un assassinio come a muoversi sinuosa cantando una canzone squisitamente pop.

Credo che mai come oggi abbiamo bisogno di leggerezza pensosa. Non vacua superficialità, quindi, ma una lettura del mondo capace di utilizzare ironia nel senso letterale del termine. Disco di Kylie Minogue è tutto questo. Anche di più.