L’abito non fa il monaco, figuriamoci se fa il punk

Oggi l’attenzione che prestiamo all’estetica è davvero tanta, e finché ci ostineremo ad andare in giro vestiti, saranno gli abiti a farla da padroni


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Terzo giorno di lock down, proviamo a pensare altro. Come se fosse facile.

Oggi è domenica, fossimo in altri tempi c’è chi penserebbe di vestirsi bene, lo cantava anche Vasco nel suo capolavoro Fegato fegato spappolato, raccontando di sua madre che gli corre dietro con il vestito buono.

Non rientro tra questi, anche se è evidente che fingere di non dar peso al vestito, anche per chi come me vestirsi non è esattamente un pensiero dominante, sarebbe dar da mangiare all’ipocrisia, un troll che non mi fa nessuna simpatia.

Parliamo però di abiti, perché l’occhio nella musica a volte conta quanto se non più dell’orecchio, e non solo nel pop, checché se ne pensi.

Credo sia tutta una questione di codici.

O meglio, credo sia tutta una questione di voler o meno aderire a determinati codici.

O meglio ancora, poi mi fermo, credo sia tutta una questione di voler o meno aderire ai codici e veder accettata la propria scelta di aderire a detti codici dal mondo circostante, quel mondo che quei codici ha partorito e, immagino, anche deciso di continuare a adottare.

Vado nello specifico, che così son stato ben più che vago.

Ho cinquantuno anni, sono un uomo bianco, borghese e sovrappeso, porto i capelli lunghi, capelli ricci che negli ultimi anni si sono pesantemente ingrigiti, non vesto mai indossando camice e giacche, tendenzialmente jeans e t-shirt più felpa, quasi tutte tendenti al nero, sono la mia divisa di ordinanza. Se uno non mi conoscesse, così, di primo acchito, potrebbe pensare che io sia un metallaro. Oddio, siamo nel 2020, non so se dicendo metallaro accendo ancora un qualche lumino di lucidità in voi. Metallari. Heavy Metal. Iron Maiden, Metallica, Slayer, AC/DC? Ricordate? Metallari, appunto. Io potrei sembrare un metallaro. Sembro uno che ascolta rock, un fricchettone, uno che si ammazza di canne, uno che non ne vuole sapere di crescere, dedito alla birra (la pancia di cui sopra), e alla musica da ascoltare debitamente a altissimo volume.

Niente di vero. Non bevo birra, se non in rare occasioni in cui non berla mi fa passare per più asociale di quanto non sia e di quanto il mio lavoro non abbia portato gli altri a credere. Non ne berrò per mesi, quindi, tappato in casa come ormai vivo. Non sono astemio, per capirsi, e reggo anche piuttosto bene, credo per una mera faccenda genetica, ma non mi piace bere alcolici, birra compresa. Ho la pancia, che era scesa ma che col lock down è tornata e ora sta riprendendo a scendere, perché con gli anni ho iniziato a muovermi molto meno e a mangiare di più. Un anno e mezzo di dieta avevano portato a un calo di oltre dieci chili, ma stare fermo in casa per due mesi e passa non mi ha certo aiutato in questa cavalcata verso il mio peso forma.

Non mi sono mai fatto una canna, non saprei dire se per qualcosa che ha a che vedere con l’educazione che mi hanno impartito i miei genitori, probabile, ma perché sinceramente faccio già una certa fatica a tenere a bada i miei pensieri senza bisogno di interventi esterni, non ho mai avuto la fascinazione di nessun tipo di sballo, blando o estremo che fosse. Capace che se continua così comincerò a fare uso di droghe pesanti, tanto della mia lucidità fra un po’ potrei non farmene nulla. Papà, mamma, sto scherzando, ovviamente, mi piace provocare, ben lo sapete.

I capelli, invece, sono così da che ho avuto modo di decidere in prima persona, da che, cioè, ho smesso di andarmeli a tagliare quando lo imponevano i miei genitori. Parliamo degli anni Ottanta. Li ho avuti anche molto più lunghi di così, fin quasi al sedere, quando ancora erano neri, per una mera faccenda di anagrafe. Ma non sono mai stato un metallaro, neanche quando i metallari esistevano e, nella mia città natale, Ancona, si ritrovavano sotto la Galleria Dorico, lungo corso Garibaldi. Di loro apprezzavo quelle immagini così mostruose che attaccavano ai loro giubbotti di jeans, roba tipo le copertine dei dischi degli Iron Maiden, per intendersi, ma quella musica all’epoca mi risultava abbastanza inascoltabile, troppo veloce, troppo strillata, troppo tutto. Se avessi dovuto scegliere, ma nessuno me lo ha chiesto e men che meno me lo sono chiesto io, avrei più optato per i dark, che invece si ritrovavano coi punk in piazza Cavour, ma anche lì, avere i capelli lunghi e basta non sarebbe servito, perché loro si truccavano pesantemente la faccia, con matita, mascara e cerone bianco, e perché il loro vestirsi di nero era molto più radicale e categorico. Non ero del resto neanche un dark, né un punk. Quelli si vestivano, all’epoca, in maniera decisamente disinvolta, vestiti strappati, magliette stinte con la candeggina, collari e orecchini vari su facce incorniciate da pettinature architettonicamente assai spericolate.

Non ero uno di loro, io. Non mi identificavano come loro. Avevo i capelli lunghi, che mi rendeva diverso dai tanti ragazzi “normali” che si aggiravano per la mia città di provincia, ma non ero parte di quella specifica tribù, i punk, nonostante io ascoltassi molta musica di quel genere, con una particolare attenzione verso l’hardcore americano. Non ero punk, come non ero dark, non ero metallaro, e non ero manco normale. Credo che la prima volta che ho messo piede a casa di quella che all’epoca era la mia ragazza, Marina, oggi mia moglie, parliamo di circa trentatré anni fa, quella che oggi è mia suocera debba aver avuto una pessima impressione di me, un capellone magro come un chiodo. E dire che lei era coetanea di David Bowie, fatto che tutt’oggi non manco di farle notare ogni qual volta che si barrica dietro quel suo essere una signora anziana per propagandare, parlo di quel minimo grado di propaganda che si può fare in casa, idee non esattamente libertarie e progressiste.

Frequentavo i centri sociali, certo, ma non ero uno di loro. Mi presentavo con un imbarazzante impermeabile appartenuto a mio fratello maggiore, Marco, otto anni più di me, un finto Burberry, a volte anche con una giacca spinata sotto la quale portavo categoricamente una t-shirt bianca senza maniche, non sia mai che indossassi una camicia, e anche lì, lo facevo, credo, per dire anche a coloro che in qualche modo sentivo come più affini a me che io non ero come loro, a loro volta diversi dalla massa. Una mentalità del cazzo, la mia, credo, che mi ha sempre portato a ballare da solo, come Liv Tyler (anche Steven Tyler degli Aerosmith, per altro, padre di Liv Tyler, è coetaneo di mia suocera, guarda un po’ tu).

Poi sono arrivati altri stili, che mi hanno visto anche un pochino più maturo, penso al grunge, al rap, arrivati da noi, in provincia, in quei primi anni Novanta. Mentre col grunge mi sarei potuto anche trovare a mio agio, lì i capelli lunghi erano più che benvisti e anche un vestirsi un po’ a cazzo, casual, e potevo anche vantare una notevole somiglianza con Kim Thayil dei Soundgarden, questo ben prima che la gente cominciasse a dirmi che assomigliavo a Stefano Bollani, il mondo del rap mi ha sempre guardato con ostilità, parlo del microcosmo che intorno a quella musica si muoveva dalle mie parti, ripeto. Non vestivo con canzoni larghi o tute da ginnastica, non portavo imbarazzanti cappellini da baseball rovesciati all’indietro, non indossavo t-shirt oversize di quadre di basket o football americano. Però ero un grandissimo appassionato di rap, e lo ero diventato, guarda a volte come il caso sa essere ironico, grazie al mio amico Massi Di Prenda, grande batterista appassionato di southern rock, sempre lì torniamo, in questo diario, e di metal. Lui mi aveva presentato un suo vicino di casa che si era intrippato nel rap dei Boogie Down Production e della Zulu Nation, e da lì era partita anche la mia passione. Così, ricordo, un giorno che al Panettone, così era chiamato un centro culturale nella periferia sud di Ancona, c’era stato un megaraduno di rapper, dai Colle der Fomento a non ricordo più chi, mi presentai con grande entusiasmo, credo indossando proprio l’impermeabile beige di mio fratello Marco.

La delusione che provai quando non mi fecero entrare, convinti che fossi lì per provocare mi brucia ancora oggi, a distanza di quasi trent’anni. Non ero uno di loro, Lou X, che conobbi solo pochi anni dopo quell’episodio, avrebbe rappato in quel suo caratteristico accento pescarese “tu non sei un b-boy come noi” e Frankie Hi NRG MC, che avrebbe firmato la bandella del mio secondo romanzo, il primo per la Mondadori, mi avrebbe invece indicato di fare la mia cosa nella casa. Questa mia passione, per altro, e essere al contempo uno dei pochi, anzi l’unico tra i collaboratori di Tutto Musica a conoscere il genere, nonostante io fossi entrato in organico perché Luca Valtorta, all’epoca coordinatore della redazione si fosse appassionato al mio essere l’ex chitarrista degli Epicentro, che gli avevo raccontato essere nati col nome di Dead Kossigas, in chiaro omaggio a Jello Biafra e ai suoi Dead Kennedys, questa mia passione, dicevo, unita alla mia conoscenza della materia mi avrebbe aperto le porte a una veloce carriera tra le fila proprio di quel giornale storico, complice l’esplosione del rap a livello nazionale, figlia dell’esplosione a livello mondiale di Eminem. Non a caso la Mondadori mi avrebbe anche chiesto di tradurre il libro coi suoi tanto discussi testi, fatto che oggi farebbe inorridire i tanti bimbiminkia fan di questo o quel trapper che arrivano costantemente a insultarmi accusandomi di parlare di argomenti che non so capire e non conosco. Fratellini, quando io ascoltavo rap voi eravate ancora negli epididimi dei vostri padri, fatevene una ragione.

Nei fatti ho sempre faticato a riconoscermi nelle tribù, tanto quanto le tribù hanno faticato a riconoscere me come loro affine. A nulla valevano i generi misti, da Mike Patton a Les Claypool, passando per i Rage Against the Machine, io ero sempre da un’altra parte. Ero dedito anima e corpo a Grant Hart, Perry Farrell e Ian Brown, non ne facevo segreto anche coi miei amici che ascoltavano solo le canzoni che ascoltavano in radio, ma al tempo stesso sapevo a memoria tutte le canzoni di Running on empty di Jackson Brown, lascito di mio fratello, come quelle di La vita è adesso di Baglioni, queste gentilmente offerte da Raffaella, la ragazza mia coetanea che abitava al piano sotto al mio e che passava i pomeriggi a ascoltarlo in loop a un volume talmente alto da farmi distinguere non solo tutte le parole, ma anche gli arpeggi di Paolo Gianolio alla chitarra. Anche di questo non facevo segreto, coi ragazzi della mia band, gli Epicentro, come con quelli coi quali capitava di passare le serate al Centro Sociale Occupato del Cardeto, alla Polveriera, ottenendo sempre le medesime facce tra lo stupito e lo sgomento.

Figuratevi che ancora oggi, cinquantuno anni suonati, sono un outsider durante le conferenze stampa, la mia felpa della Svezia, esibita per altro improvvidamente proprio l’indomani che la nazionale scandinava aveva eliminato l’Italia dalla corsa ai mondiali, alla conferenza stampa del disco di Mina e Celentano, ancora è ricordato con livore, quello che ostenta atteggiamenti punk pur non essendolo, perché poi io di punk non scrivo praticamente mai, per evidente scelta, quello che vuole distinguersi, vuole fare il personaggio, operazione per altro perfettamente riuscita, in caso. Sono un outsider, per fortuna, perché non provo mai a compiacere gli altri, o a assecondare l’idea che gli altri hanno di come dovrei essere. O almeno così è stato finché il mio essere un outsider non è diventato a sua volta una figurina dell’album del mondo dello spettacolo, ma non abbastanza figurina da spingermi a vestire panni che, fondamentalmente, mi starebbero scomodi e non sentirei come miei. Perché quello è il punto, mi piace apparire come mi trovo comodo, come mi sento a mio agio, chi se ne frega se non è inquadrabile nei canoni e nei codici. Per questo, immagino, se dico che sono punk e lo dico a una conferenza di Mina e Celentano posso anche essere credibile senza bisogno di fare questi distinguo. In quel contesto lo sono davvero.

Il fatto è che il punk è un movimento nato nei primi anni Settanta a New York e importato nel vecchio continente, a Londra nello specifico, da Malcolm McLaren a metà dello stesso decennio, un movimento che è nato come qualcosa che voleva rompere le righe e spezzare i binari ma che presto è diventato un capestro, ancora più canonico e categorico di quanto in passato aveva avuto l’ardire di attaccare e, diciamolo, anche di abbattere, figuriamoci se è a quel punk lì che faccio riferimento. Io credo di essere punk come attitude (che non è traducibile con attitudine, o forse non lo era fino a qualche settimana fa, vallo a capire), proprio per quel mio voler provare a andare contro un sistema calcificato, addirittura imbalsamato e putrescente, non voglio mica essere scambiato per un piccolo e fuori tempo massimo epigone di Richard Hell o Joe Strummer (da giovane, magro come ero, sembravo più Mick Jones, va detto). Per questo non ho problemi a interfacciarmi con chi il punk lo suona anche oggi, così come posso serenamente confrontarmi con Tosca che si esibisce con i suoi musicisti andando a intarsiare di suoni acustici canzoni prese dai repertori del sud del mondo o apprezzare i suoni sinteticamente rock di un talento mai abbastanza applaudito come quello di Simone Cicconi, non a caso scappato in Olanda, fuori proprio in queste settimane col suo nuovo lavoro dal titolo Cosa potrebbe mai andare storto?, dal titolo quantomeno sinistro in questi giorni qui.

A questo punto, immagino, qualcuno potrebbe pensare che io abbia tirato tutto questo pippotto qui per andare a unirmi al coro di critiche di chi ha fatto sue le parole di Renato Zero riguardo Achille Lauro, quel suo dire che non basta vestirsi di piume per fare la rivoluzione, il distinguere quello che nel suo caso era stata una rivoluzione pagata a caro prezzo con quello che è poco più di un passaggio in una campagna commerciale, ma chi mai andasse in questa direzione sarebbe clamorosamente fuoristrada. Non mi interessa sottolineare come Achille Lauro non sia Renato Zero, né come non sia e non sia mai stato neanche vagamente punk. Già viviamo in un’epoca oggettivamente di merda, non fatemi scrivere ancora di Achille Lauro, vi prego.

Anni fa, sempre ai tempi di Tutto Musica, proprio con Zero abbiamo fatto un bellissimo servizio nel quale lui passava i suoi abiti di scena del periodo Icaro e Zerolandia, abiti fatti di piume di struzzo e lustrini a Morgan, all’epoca da poco diventato artista solista, abiti che per altro gli calzavano a pennello, come non penso ci fosse un nesso tra i due direi che può tranquillamente non starci tra Zero e Lauro, seppur la distanza siderale che esiste tra Morgan e l’autore di Rolls Royce è qualcosa che credo non sia ancora stata codificata in natura, Renato Zero neanche lo voglio tirare in ballo, perché parliamo davvero di mondi che neanche possono essere inclusi nello stesso discorso. Si trattava allora di comunicazione, si tratta di comunicazione ancora oggi, sia da parte dell’uno che da parte dell’altro.

No, il mio è un discorso che voleva andare a parare altrove, e cioè in un contesto nel quale sia chiaro a tutti che l’abito fa ovviamente il monaco, perché, la recente (si fa per dire, qui le settimane ormai pesano come anni) copertina di Vanity Fair di Vanessa Incontrada ben lo ha dimostrato, se una semplice foto vagamente photoshoppata è in grado di monopolizzare l’attenzione di una intera nazione per più di ventiquattro ore è proprio vero che l’attenzione che prestiamo all’estetica è davvero tanta, e finché ci ostineremo a andare in giro vestiti saranno gli abiti a farla da padroni. Il trucco sta nel non farsi incastrare dietro logiche di appartenenza, cioè nel farsi di volta in volta monaci della religione che più ci aggrada, fottendocene del giudizio degli altri, proprio come Vanessa Incontrada.

Di più, se posso permetterci, perché senza neanche la necessità di ricorrere a photoshop per cancellare smagliature e cellulite, tanto eravamo tagliati fuori prima lo saremo anche dopo, sempre che un dopo ci sia.

Se non è spirito squisitamente punk questo…