Ricomincia il lockdown, anche se nessuno ha avuto il coraggio di chiamarlo lock down, e ricomincia anche il mio Diario

Proverò a parlare ancora di musica altra, cercando se non di tenere alto il morale, impresa impossibile, almeno a ipotizzare alternative all’Apocalisse


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Ci siamo di nuovo. Vivo a Milano, la città che non si ferma. E come è già successo a marzo, da oggi, Milano si ferma. Inizia un lock down che nessuno ha avuto il coraggio di chiamare lock down, ma che un lock down rimane. Da oggi chiude tutto. O quasi. Chiudono bar, ristoranti negozi, centri commerciali,  musei, i pochi impianti sportivi ancora attivi all’aperto, il resto era già chiuso, cinema, teatri, palestre, scuole superiori. Restano aperte fabbriche e quegli uffici che non pratichino lo smart working. Chiudono i comuni, oltre la regione, non ci si può spostare, se non per lavoro, questioni sanitarie o urgenti. C’è anche il coprifuoco, come nel resto d’Italia. Un lock down, ripeto, solo con un altro nome.

Quindi eccomi di nuovo qui, a scrivere le mie pagine di diario della clausura. Piuttosto che scriverlo avrei preferito farmi una vacanza con Dondoni, Giordano e Laffranchi, immagino a spese della Pausini, non fosse altro che per ricordare l’anniversario della nascita dei Pool Guys, ma il destino ha deciso diversamente.

L’altra volta ho iniziato pensando al Decamerone. Dieci capitoli, avevo in mente. Alla fine ne ho scritti centodue. Stavolta guardo al 3 gennaio, l’umore decisamente meno alto, già in partenza. Proverò a parlare ancora di musica altra, cercando se non di tenere alto il morale, impresa impossibile, almeno a ipotizzare alternative all’Apocalisse.

E a proposito di Apocalisse, negli ultimi mesi penso spesso a Branko e Paolo Fox. Penso a tutti loro, i due nomi fatti sono emblema di un mondo che, confesso, poco frequento, perché è evidente che ci deve essere stato un problema mica da ridere nel momento in cui, leggendo le stelle, leggendo le carte o quel che si fa per ipotizzare il futuro imminente è sfuggito a tutti loro che questo 2020 non sarebbe stato un anno di grandi successi sul lavoro, amore e fatto di tanti viaggi, quanto piuttosto la perfetta cristallizzazione del concetto di apocalisse.

Immagino l’ansia che almeno i primi debbano provare ora, nel momento in cui devono scrivere gli oroscopi per l’anno prossimo.

Penso spesso anche ai tanti miei colleghi che, quando io provavo a indicare una imminente implosione del sistema musica dicevano che facevo quello “cattivo” perché fare quello “cattivo” paga, è noto che da che mondo è mondo il sistema sia più interessato a pascere che dice che il re è nudo piuttosto che accarezzare cortigiani e cortigiani proni a quattro zampe, pronti a mangiare le crocchette che il padrone ha messo lì, nella ciotola.

Non che mi preoccupi del loro futuro, sia chiaro, li penso più per umana pietà che per apprensione, non contavano un cazzo prima, contano ancora meno ora, perché aggirarsi per le macerie camminando su due piedi è già difficile, figuriamoci se si sta come i cani, ci si taglia quantomeno le mani.

Ma siccome l’Apocalisse in effetti c’è stata, tutto è crollato, il silenzio assordante di quegli artisti che un tempo eran sempre lì a parlare, cantare, più parlare che cantare ora è come il suono della tromba mentre interpreta il Silenzio, la bandiera ammainata, credo che sia il caso di provare a pensare a come riorganizzare la vita, almeno quella della microsocietà nella quale mi trovo a muovermi.

Avete visto tutti una qualche serie su Netflix che parla di pandemie, no?, che so, l’ultima è Between, sapete che la prima cosa da fare è decidere chi è il capo, come organizzare le ronde contro gli sciacalli, chi fa cosa. Ecco, in tutto questo, le serie tv servono appunto a indicarci la strada, è evidente che una delle prime cose che qualsiasi sopravvissuto tende a fare è rimuovere il passato prossimo, elaborare velocemente il lutto, so che è metafora poco adatta a questi tempi, e me ne scuso, ma di lutti professionali ne stiamo contando tanti tutti i giorni, inutile fingere non sia così o provare a sminuirli dietro lo slogan “finché c’è vita c’è speranza”, provare a guardare avanti.

Ecco, se proprio dovessi provare a guardare avanti, oggi, in uno scenario che già vi ho descritto, i grandi tour, quelli che avevano fatto guardare al 2020 come all’anno d’oro dei concerti negli stadi, un milione e mezzo di biglietti venduti, tutti sul punto di essere annullati o spostati al 2022, tutti sappiamo che è inipotizzabile oggi che tra qualche mesi si torni esattamente alla vita di prima, il Festival di Sanremo, quello che Amadeus teneramente si ostina a chiamare il Festival della rinascita, sul punto di saltare, o comunque sicuramente non all’altezza dei precedenti, senza orchestra, senza calche per le strade di Sanremo, senza alberghi e ristoranti pieni in ogni ordine di posti, senza, torno agli amici a quattro zampe, la Sala Stampa che sembra la curva del Maracanà, i dischi dei BIG che scompaiono dalle uscite imminenti, tanto poi non potrebbero lanciare la prevendita di tour che non ci saranno, quelli di altri BIG a uscire in fretta e furia per sopperire alle mancanze dei tour già saltati, insomma, se proprio dovessi guardare avanti è attraverso gli occhiali rosa della bellezza che credo si possa provare a pensare al futuro, in tutte le serie di cui sopra, è altrettanto evidente, nonostante gli zombie, i morti frequenti come i DPCM di Conte, la devastazione e la violenza che regna sovrana tutti continuano a innamorarsi, a provare desiderio, a guardare avanti (o quantomeno alla tipa che sta lì di fianco).

Così mi ritrovo oggi a segnalarvi alcuni album per me molto ma molto belli, album che, in un altro periodo, probabilmente avrebbero meritato un intero articolo, ma in questo momento lo spirito è quel che è, parlo del mio, provate a esercitare un minimo di fiducia in me e ascoltateli come se gli avessi dedicato decine di migliaia di battute.

Inizio con Il dono dell’ubiquità di Carolina Bubbico. Dovendo racchiudere in una sola parola l’essenza di Carolina Bubbico mi troverei in difficoltà. Cantautrice, direttrice d’orchestra, polistrumentista, jazzista, faticherei davvero. E siccome la vita è già abbastanza dura di suo, perché sforzarsi a esercitare la sintesi, il che detto da me, converrete, fa già ridere di suo. Ecco, Carolina Bubbico è una artista capace di spaziare nella forma canzone con l’imprevedibilità del genio, la famosa parola abusata che non si dovrebbe usare troppo, infatti la uso poco e sempre a ragione. Ha una capacità di comporre brani che spaziano dal pop al soul, scivolando nell’etnico e in quell’ambito jazzato che la vede in compagnia di una Serena Brancale, per citare un nome per altro presente in questo lavoro. Quindici canzoni una più bella dell’altra, anche se i due skit sono più promesse per il futuro che canzoni vere e proprie, con dei picchi incredibili a partire dal singolo Bimba fino a quel capolavoro che risponde al nome di Italianità, un brano in bilico tra l’ironico e l’orgoglioso, dove lei insieme alla già citata Brancale, a Speaker Cenzu, a Shorty e ai Sud Sound System costruisce un gioiello di musica black in salsa meridionale, giocando tutto sui singoli dialetti degli artisti intervenuti. Un album importante, Beverly Hills, il cui testo è della sua conterranea Cristiana Verardo e che la vede in compagnia di Michael Mayo, come la semiconclusiva Voyage, in compagnia di Baba Sissoko e Rachele Andrioli, perla di world music che meriterebbe di essere usata come colonna sonora di un servizio del National Geographic sul sud del mondo, rappresentano solo due esempi presi a caso dalla tracklist. Una artista che in un mondo normale suonerebbe il sabato sera in prima serata su Rai1, e che invece va ricercata in questa immensa prateria che ci si para davanti ora, nel Far West della pandemia, sempre stando attenti a che non ci assaltino la diligenza, è ovvio, ma pur sempre con gli occhi puntati verso un orizzonte lontano.

Ok, l’ultima frase faceva abbastanza cagare. Era retorica, quasi trumpiana. Me ne pentirei, non fosse che era scritta bene e che comunque mi ha aiutato a chiudere quel primo paragrafo per passare al successivo. E il successivo è dedicato a un cantautore esordiente, o semiesordiente, di nome Matteo Carmignani. Cinquant’anni da poco compiuti, con Le curve del buio Matteo Carmignani ci regala un album cantautorale di una bellezza quasi accecante, come di chi prova a guardare a lungo il sole, alla faccia del buio evocato nel titolo. Dopo alcune esperienze in band di ambito new-wave negli anni Novanta, e un lavoro solista uscito durante un suo soggiorno americano, Matteo ha deciso di cimentarsi sulla lunga prova con undici canzoni che risentono, sia letto come un complimento, col suo essere un architetto. Tutte solide nella costruzione armonico-melodica, con una cura per le liriche che rasenta l’ossessivo, le canzoni, ascoltatevi con attenzione, per dire, l’iniziale Il tempo che ho o una perla come Le parole che ti ho detto, per non dire del vertice dell’intero album, Quel che rimane, tutte con una matrice che proprio agli anni Novanta è targata e che è sostenuta da una voce emozionante e molto curata, tra le migliori al momento in circolazione. Il plauso, oltre che a Carmignani, va anche al produttore artistico, Fabrizio Simoncioni, capace di intessere una trama sonora degna di canzoni importanti, destinate a un ascolto attento, cosa che di questi tempi è già in sé rara, se non unica.

Consapevole che la scelta, ora, di parlare di un album di una cantautrice, e che poi chiuderò con quello di un cantautore potrebbe indurre qualcuno a pensare al famoso pezzo verdoniano “un ‘omo ‘na donna, un ‘omo, ‘na donna”, passo ora a parlarvi di un album che eleva il nostro folk ai livelli di quella che generalmente consideriamo la migliore world music. Perché, diciamocelo, salvo rari casi, penso a un Enzo Avitabile, raramente ci capita di guardare a chi da noi decide di affrontare con rigore filologico e estro artistico miscelato a uno sguardo contemporaneo, con la stessa ammirazione e benevolenza con cui si guarda a chi cammina nello stesso territorio in altre parti del mondo. Come se si elogiasse negli altri quel che da noi si ritiene naif, o peggio, minore. Flo è una artista di chiaro valore e talento, una cantautrice con una solidità di scrittura e una capacità interpretativa di levatura internazionale, una cantautrice che mescola le sue radici a quelle di altri sud del nostro affannato pianeta, e lo fa scrivendo canzoni che affrontano temi attuali, contemporanei, odierni. 31Salvitutti, titolo ostile per un album che va giù tutto di un fiato come certi vini di alta gradazione, di quelli che macchiano anche i bicchieri, è una raccolta di canzoni che mescolando il nostro meridione a quello spagnolo, passando per i suoni in odor maghrebino delle periferie parigine a quelle, ovviamente, napoletane, la chitarra a farla costantemente da padrona, l’energia del live riprodotto in studio a farla da padrona. A produrre il tutto Sebastien Martel, nome grande nell’ambito della world music europea, ambito nel quale la stessa Flo possiede una credibilità che forse in patria non le è stata ancora riconosciuta. Brani come L’uomo normale, singoli incaricato di anticipare il tutto, come la conclusiva Miracola anarchica, ma anche l’eponima 31salvitutti, grido col quale, giocando a nascondino, da piccoli per la prima volta ci si lancia in una battaglia dai fini nobili, liberare tutti correndo il rischio di essere eliminati, sono solo tre esempi sugli undici a disposizione, tante le canzoni nella tracklist, di quanto e come Flo sia stata in grado di interpretare in chiave odierna e cosmopolita una tradizione, quella napoletana ma più in generale quella del nostro sud, che come certi codici primordiali ci permette di essere capiti chiaramente in ogni parte del mondo.

Andiamo quasi a chiudere questi cinque passi nella bellezza, le macerie dell’avvenuta distruzione sotto le suole dei nostri anfibi, parlando dell’album di un cantautore che, inizialmente, si è fatto largo nel nostro panorama musicale come autore conto terzi, salvo poi cominciare a rivendicare a ragione un proprio spazio anche come artista in prima persona. Parlo di Giuseppe Anastasi e del suo Schopenhauer e altre storie.

Ora, che Anastasi sappia scrivere canzoni è fuor di dubbio, chiunque abbia presente i gioielli che ha intessuto per Arisa, da La Notte alla stessa Sincerità, passando per la vincitrice al Festival di Sanremo Controvento, oltre che quelle scritte per tanti altri, da Noemi alla Tatangelo, passando per Michele Bravi e Mauro Ermanno Giovanardi, lo ha ben presente, quel che l’ascolto delle dodici tracce di questo nuovo album ci dimostrano è come Anastasi sia anche un ottimo interprete, empatico, dotato di una voce all’altezza delle sue canzoni, cosa non così scontata. Anticipato dai singoli Berlino e Bla bla, va detto che tutte le canzoni che compongono questo secondo lavoro sono di un livello siderale. Solo in apparenza discontinue, perché Anastasi da gran mestierante riesce a mettere sulla tavolozza tutti i colori che ha in dotazione, sia di autore che di interprete. Dal mid-tempo iniziale di Ancora rose, alla ballata, penso a Luna o alla già citata Berlino, insieme a Schopenhauer, in questo davvero brani meritevoli di diventare classici, ai brani più ritmati come l’electropop di Polistirolo, la spagnoleggiante Bingo, o il brano in levare Bla bla, con picchi cantautoriali come Boia, o brani che mettono in mostra sentimenti familiari, dal brano dedicato al figlio Vittorio, Ti porto via con me, a quello dedicato alla nonna, sempre senza cadere nella facile retorica. Insomma, avevo detto che non avrei citato canzoni e le ho citate quasi tutte. Ma non so se si è capito, questo lavoro, come i tre che lo hanno preceduto in questo mio pezzo, mi è molto piaciuto, ancora di salvezza nella tempesta, spiraglio di luce nel buio, mazza da baseball con la quale far saltare la testa degli zombie.

Dopo aver vinto la Targa Tenco come migliore opera prima col suo esordio Canzoni ravvicinate del vecchio tipo, Anastasi ha deciso di proseguire, seppur inizialmente quello doveva essere un unicum, e di questo non possiamo, almeno per una volta, che essere grati a una delle manifestazioni altrimenti più inutili della storia della musica. Ecco, ci togliessimo dalle palle almeno questi orpelli a qualcosa tutta questa devastazione avrebbe contribuito.

Chiudo con una quinta artista, una donna, una cantautrice di famiglia. Dico di famiglia non perché mi venga parente, sia chiaro, ma perché è stata e in qualche modo ancora è parte di quel mondo immaginario e immaginifico che risponde al nome di Anatomia Femminile, ospite sia della prima edizione del Festivalino a Sanremo che di Femminile Plurale, prima edizione della kermesse organizzata da Tosca e me alle Officine Pasolini di Roma. Ora, uno potrebbe essere spinto a pensare che quel che scriverò sia partigiano, sia cioè figlio di un qualche mio nepotismo dovuto all’aver avuto Agnese Valle, e di lei e del suo Ristrutturazioni che vado a parlarvi, in quegli eventi. In realtà è vero esattamente l’opposto, ho fortemente voluto Agnese Valle al Festivalino di Anatomia Femminile, nelle versioni virtuali e fisiche e a Femminile Plurale proprio per quello che Agnese Valle è come artista, quindi per le sue canzoni. Canzoni che, va detto, trovano nel suo terzo album, Ristrutturazioni, appunto, il punto più alto fin qui raggiunto, e stiamo parlando di vette davvero altissime, perché già in precedenza Agnese Valle, cantante, clarinettista e pianista, ci aveva dimostrato il suo talento nel comporre canzoni complesse, ma non per questo complicate, classiche ma non per questo vecchie, profonde ma non per questo pesanti. Come già ci aveva anticipato con brani come Il tonno e La terra sbatte, assolutamente distanti tra loro per intenzioni e generi, ma assolutamente coerenti e ascrivibili al suo stile, l’uno giocato sulla giocosa ironia, l’altro emozionante e per certi versi tragico, Agnese Valle ha impiegato il tempo trascorso dall’uscita del suo album precedente, Allenamento al buonumore, quattro anni e passa, una eternità di questi tempi, per studiare, crescere, vivere, e tutto questo è confluito come solo a chi ha talento capita di poter e saper fare dentro le canzoni che compongono la tracklist, dodici, andando a comporre un quadro multiforme, articolato, con montagne, colline, prati, spiagge e scogli.

Un mondo, quello presente in Ristrutturazioni, come già la saldamente esile Palmo a palmo dimostra, un elettronica lieve, l’elettronica sarà poi presente in tutti i brani grazie alla felice intuizione della stessa cantautrice e di Pasquale Citera, coproduttore del disco, che permette alla Valle di mettere il canto, quindi la melodia e il testo, al centro della scena, come un attore che calchi solitario un palco in un monologo fondante. Inutile, anche in questo caso, sarebbe far titoli, si finirebbe per indicarli tutti o per far torto a un brano invece che all’altro, ma come non citare l’ansiogena e claustrofobica Corto Circuito, singolo di lancio del tutto, o, per rimanere su quei territori, Fame d’aria, le già citate Il tonno e La terra sbatte, entrambe dotate di una carica di originale davvero rara, se non unica, dalle nostre parti, o L’ultima lettera dell’astronauta, perfetta nel miscelare suoni caldi di strumenti suonati col tappeto sintetico in sottofondo, la voce di legno della Valle a scaldare l’ascoltatore. Poi, è chiaro, ci sono i picchi, e quelli li devi citare per forza, come Al banchetto dei potenti, con quel fischio morriconiano che si appoggia su un ritmo in levare, con la chitarra a incalzare, o quel gioiello che già conoscevamo, Come la punta del mio dito, in compagnia di quel genio totale di Pino Marino, del suo Tilt vi parlerò più diffusamente più avanti. Insomma, anche stavolta, come nei quattro casi precedenti, un album importante, sia per la carriera dell’artista che lo ha dato metaforicamente alle stampe, sia per la nostra povera patria musicale, da oggi decisamente meno povera.