I cent’anni di Alberto Sordi, storia di un antitaliano

Il 15 giugno del 1920 nasceva l’attore che meglio di tutti ha raccontato il carattere nazionale. I suoi personaggi hanno descritto gli italiani senza sconti: immaturi, vigliacchi, cattivi. Sordi non è mai indulgente o autoindulgente. In questo, di italiano ha poco o nulla

Alberto Sordi

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Per definire il personaggio Alberto Sordi e quello che ha rappresentato nella storia del cinema italiano basterebbe citare la recensione di Giuseppe Marotta de La Grande Guerra: “L’Oreste di Sordi è il genuino ritratto, spregevole o ammirevole che appaia, dell’istinto di conservazione. Il fatto è che Alberto dimentica di volersi bene, quando recita”. Sordi non si vuole, e non ci vuole, bene. Come si potrebbe definirlo un campione di quella italianità la cui malattia nazionale è l’autoindulgenza assolutoria?

Alberto Sordi non ha nulla dell’italiano tipico, un carattere che si è perennemente impegnato a smontare, denigrando gli altri attraverso sé stesso. Sordi, prima di ogni altra cosa, tra tanti italiani brava gente, è cattivo. Il più cattivo di tutti, che soprattutto nelle situazioni estreme mostra senza sconti il peggio di sé (e di noi).

Dobbiamo ricordare questo, oggi che festeggiamo il centenario della nascita di quello che resta, insieme a Totò, il più importante attore italiano del Novecento, nato nella capitale a via San Cosimato, nelle romanissima Trastevere, il 15 giugno del 1920. Rammentare che sotto quell’immagine di bonarietà con cui tendiamo a rappresentarcelo, che lui stesso negli ultimi decenni della sua vita ha contribuito a veicolare, alberga un cuore d’artista durissimo nella rappresentazione contropelo di quello che siamo.

Alberto Sordi, il più cattivo di tutti

Prendiamo Il Giudizio Universale (1961), di Vittorio De Sica del 1961 sceneggiato da Zavattini. Nel bel mezzo dell’annunciata imminente fine del mondo, Sordi continua imperterrito a svolgere il suo lavoro, trafficando nel suo commercio di bambini poveri da vendere a facoltosi americani. Senza un rimorso. “Che sordido, viscido ragioniere dell’abiezione è qui Alberto” (ancora Marotta), che il personaggio se lo cucì addosso, rivendicandone la paternità e lo stile. “Fu un personaggio – dichiarò – da cui tirai fuori tutto quello che ci poteva essere di più cattivo e di perfido al mondo”. Un personaggio irredimibile, “cattivo fino alla fine del mondo” (Amelio).

Il Giudizio Universale: cattivo “fino alla fine del mondo”

Una fine se non del mondo almeno dell’Italia è la metafora de L’Ingorgo (1979) di Luigi Comencini, che racconta un paese terminale, definitivamente bloccato come le macchine in un traffico inamovibile. E che fa Sordi lì in mezzo, in questo viaggio da fermi al termine dell’Italia? Ancora una volta è il più spregevole di tutti, un avvocato De Benedetti sordido industriale che pensa di passarla liscia solo perché ha i soldi, ed esprime il peggio di sé seducendo e godendo a suo piacimento. C’è solo da immaginare che cosa ne avrebbe tratto fuori da un’altra situazione estrema come la recente pandemia, che gli ha pure rovinato i festeggiamenti, costringendo a posticipare l’attesissima mostra con apertura della sua casa museo a Caracalla, prevista a marzo e rimandata al 16 settembre. Ma non si sarebbe crucciato, ne avrebbe riso appunto trasformandola, la pandemia e il resto, in un’ennesima occasione per parlar male di noi attraverso sé stesso.

Un campione di italianità?

Altro che campione di italianità, come Sordi vorrebbe far credere in quel monumento a sé stesso che è la serie tv Storia Di Un Italiano, in cui racconta la storia d’Italia attraverso i suoi film, riadattando e rileggendo in chiave autocelebrativa la sua funzione di controcanto morale della storia del paese. Finendo, nel collage di spezzoni, come scrive Aldo Grasso, “con il soffocare irrimediabilmente la grazia e l’efficacia dei tanti ritratti dell’italiano medio che l’attore ha proposto sul grande schermo”. Perché la sua natura, sin dall’inizio delle sue prove nell’avanspettacolo, nella rivista e alla radio, è all’insegna di una ferocia un po’ folle, in cui ha disegnato, dice ancora Amelio, “un antitaliano, una figura anomala, un marziano antipatico che se la godeva a scompigliare le carte del quieto vivere”.

Lo ribadisce lo stesso Sordi, ricordando le reazioni del pubblico ai suoi primi personaggi: “Sempre si parlava di questo ragazzo matto che chissà che diamine voleva”. Era “mezzo matto” ribadisce il cervello di Alberto Sordi, Rodolfo Sonego, sceneggiatore di fiducia insieme a cui costruì la sua galleria di personaggi. Tutto tranne che un italiano tipico. Che infatti all’inizio si faticava a capire e digerire, per quella comicità aggressiva e dai tratti bambineschi che negli anni Quaranta faceva alla radio. Il balbuziente, importuno Signor Dice, il sadico e arrivista Mario Pio, l’insopportabile, petulante compagnuccio della parrocchietta, che fu anche l’occasione per il suo primo ruolo da protagonista al cinema, nel 1951, per un film prodotto dall’attore con De Sica, che fu un fiasco assoluto.

Il compagnuccio della parrocchietta

Il cinema, appunto, all’inizio non lo voleva in nessun modo. Fellini per riuscire a farlo recitare ne I Vitelloni (1953) dovette assicurare ai produttori che il suo nome non sarebbe comparso sui manifesti. Fu un successo clamoroso. Ma non del tutto capito, se l’anno dopo girando Un Giorno In Pretura, tra i vari episodi i produttori Ponti e De Laurentiis pensarono di tagliare proprio lo sketch di Nando Mericoni l’americano! Segno che c’era qualcosa di difficilmente comprensibile nella sua comicità.

Il primo Sordi, il bambino mal cresciuto

La sua comicità all’inizio puntava su questa immagine del bambino mal cresciuto: l’insopportabile ragazzino di Mammia Mia, Che Impressione!, il fratellone finto disinibito, invece mammone e moralista de I Vitelloni (in cui Fellini aggiunge al suo personaggio romano l’indolenza da italiano di provincia), il pavido spaventato da tutto di Un Eroe Dei Nostri Tempi (1955), in cui per prudenza “non è né di destra né di sinistra, e neanche di centro”. È un ragazzone “viziato in famiglia da nonne mamme e zie che s’intuiscono premurose e ricattatrici, senza mai una figura paterna col quale misurarsi” (ancora Amelio).

I Vitelloni, Sordi e gli italiani di provincia

Altro che gallo italiano, ne emerge un finto seduttore (altro suo titolo del decennio) che in mancanza d’una immagine maschile con la quale identificarsi, s’illude di dominare la donna ma ne è completamente succubo. Si pensi al bellimbusto da fotoromanzo de Lo Sceicco Bianco (1952) di Fellini, completamente succubo d’una manesca virago. O peggio, il “cretinetti” de Il Vedovo (1959) di Dino Risi, in cui è un complessato aspirante industriale romano alla mercé della donna ricca milanese interpretata da Franca Valeri (che in quasi tutti i film lo tiene a bacchetta). Oppure il mitomane Nando Mericoni di Un Americano A Roma (1954), che dice di venire da Kansas City, buono a nulla che si giustifica infantilmente dicendo che “c’ha avuto ’a malattia”.

Nella sua insipienza ciò che non manca mai è la cattiveria, che non si ferma davanti a nulla. In Piccola Posta (1955) è il sedicente barone Rodolfo Vanzino Castelfusano d’Arezzo, direttore d’un ospizio-lager per ricche vegliarde cui estorce il denaro. In Arrivano I Dollari (1957), è il conte squattrinato Alfonso Pasti, sadico senza freni che incatena il povero Turi Pandolfini intimandogli di “mangiare il pappone” dalla ciotola, a quattro zampe. Un esempio di crudeltà surreale, fuori dai canoni di qualunque normalità: è ancora Sordi il matto.

Arrivano I Dollari, il sadismo di Alberto Sordi

Che intanto con Sonego precisa la sua galleria di ritratti antitaliani: ed è Il Seduttore, Il Marito, Il Moralista (inflessibile di giorno e capo di un’organizzazione di night club la notte, che ricatta chiunque). Esercizi di quel “genere demolitore”, come lo chiama lui stesso, così caparbiamente cercato. Che però non ha nessuna finalità positiva da “castigat ridendo mores”. Come scrive Vittorio Spinazzola nel fondamentale Cinema E Pubblico: “Mai nel cinema italiano la critica di costume aveva attinto l’esplicita violenza che è in queste figure. La ragione principale della perplessità con cui furono accolte sta proprio nella coerenza del loro egocentrismo, che non trasmette alcun messaggio positivo, né si distende mai a una speraza di riscatto”. Alberto Sordi è il maestro della galleria dei mostri – infatti il film che così si chiamò, I Mostri, di Dino Risi, prima di giungere ai protagonisti Gassman e Tognazzi era stato pensato per lui.

Il trittico “positivo”: Alberto Sordi e la storia

Gli unici personaggi in qualche modo positivi son quelli del trittico che lo conduce a un’affermazione definitiva, nel simbolico momento di passaggio tra Cinquanta e Sessanta. Il pavido soldatino di La Grande Guerra (1959) di Monicelli; l’ufficiale di Tutti A Casa (1960) di Comencini il quale, nel passaggio dell’8 settembre, e per conto di tutti gli italiani, fa il passaggio verso la presa di coscienza su quel che è necessario fare una volta finito il fascismo; l’eccezionale Una Vita Difficile (1961) di Risi, in cui per una volta è di sinistra (lui democristiano), ex partigiano e giornalista che cerca di barcamenarsi nella molto deludente Italia del dopoguerra. Un film in cui è straordinario per come si sottrae al ritratto eroico monumentale, invece pieno di incertezze, pigrizie e insipienze connaturate alla sua eterna immaturità, con però alla fine uno scatto di moralità autentica.

Una Vita Difficile: un riscatto immaginario?

In questi tre film, i primi due scritti da Age e Scarpelli, il terzo da Sonego (che ci mette tanto di autobiografico), Sordi salda il suo personaggio eterodosso alla storia patria. Qui, forse, comincia a diventare nella percezione del pubblico uno specchio in cui ritrovarsi. Anche se resta difficile capire perché poi gli spettatori amino riconoscersi (ma probabilmente non si riconoscono fino in fondo) nei ritratti sordiani. Come ha scritto Goffredo Fofi nella sua inaggirabile biografia dell’attore: “È davvero un mistero che il Sordi più feroce, più efferato nella sua ‘italianità diversa’ abbia potuto essere l’italiano più tale per gli italiani, concentrando in sé i nostri antropologici umori negativi, tutti i nostri limiti, persino le nostre abiezioni”.

Sordi diventa adulto: l’Italia del Boom

Nei primi anni Sessanta, dopo il trittico “positivo” Sordi ricomincia a macinare orrori, aggiornando la sua maschera. Che, intercettando la febbre del Boom, cresce, e da bambinone viziato diventa un adulto che sogna il benessere. Ma è sempre Sordi: quindi è un megalomane che vuole fare l’industriale ma non possiede i necessari mezzi, tempra, talento. Come un romano che vuole trasformarsi in un milanese (e già nel Vedovo la milanese Valeri gli aveva fatto capire come stanno le cose). Per cui ne Il Boom (1963) di De Sica, pur di restare a galla cerca di vendersi un occhio, mentre un vero industriale gli spiega che per fare i soldi bisogna faticare e il successo non si ottiene in un attimo.

Nel frattempo, a testimoniare come ora il suo racconto abbracci l’Italia nel suo complesso, diventa per Elio Petri Il Maestro Di Vigevano (1963), professorino del Nord col sogno della fabbrichetta (istigato dalla moglie, manco a dirlo), in quella città fotografata per sempre in un celebre reportage di Giorgio Bocca che iniziava così: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”. In Mafioso (1962) di Alberto Lattuada, è invece un siciliano emigrato a Milano che s’è fatto da sé, diventato più milanese dei milanesi. Eppure richiamato all’appartenenza antropologica alla sua stirpe, s’inchina alla Cupola compiendo un delitto senza castigo, tornando più incattivito di prima al suo ruolo.

Mafioso, le due Italie

Un antitaliano a disagio con la modernità

La cifra che resta sempre costante è quella della cattiveria, dell’attitudine al racconto contropelo e autolesionista. Petri sottolinea come “Sordi è maniacalmente negativo, un personaggio tutto nero, un nichilista”. C’è un filo rosso che collega il bambinone dei film degli anni Cinquanta e l’adulto illividito e arrivista dei Sessanta, come ci spiega Pasolini, quando dice che il suo personaggio è “un uomo il cui infantilismo anziché produrre ingenuità, candore, bontà, disponibilità, ha prodotto egoismo, vigliaccheria, opportunismo, crudeltà. È una deviazione dell’infantilismo”. Alberto Sordi, insomma, resta legato alla cattiveria, espressione del suo essere inadatto e irresoluto. Un bambino dispettoso e poi un adulto integrato nei desideri del miracolo economico, di cui però non riesce mai a godere i frutti. Allora reagisce, male, contro gli altri, con tutta la crudeltà che possiede.

In fondo Sordi racconta un antitaliano che non è mai riuscito ad adattarsi alla modernità. Nella sua maturità questo disallineamento coi tempi si esprime in due modi. Da un lato, con i toni del moralista che rimpiange i bei vecchi tempi (evidentemente non così belli, a vedere le prove più alte della sua filmografia). A questo filone appartengono quasi tutti i suoi film da regista. Nel migliore dei casi bonari (i ritrattini popolareschi con Rossana Di Lorenzo), spesso qualunquisti (i film con Monica Vitti), misogini (Io E Caterina), ma con qualche zampata (il venditore di armi di Finché C’È Guerra C’È Speranza, che poteva essere un grande film).

Un Borghese Piccolo Piccolo

Dall’altro lato, guidato da altri registi, ci sono gli ultimi personaggi veramente atroci: Il Medico Della Mutua (1968) di Luigi Zampa, che dominato da una madre che gli programma l’esistenza, diventa il medico con più mutuati d’Italia, fin quasi a morirne (noi spettatori lo guardiamo e ci divertiamo solidarizzando, quasi fosse un presagio dei futuri bastardi simpatici da cinepanettone). Poi c’è L’ingorgo già citato, e ovviamente Un Borghese Piccolo Piccolo (1977) di Monicelli, in cui una volta che gli uccidono il figlio e i piccoli sogni si trasforma in un mostro.

Persino quasi alla fine della sua carriera ormai molto calante, nel suo penultimo film diretto però da un autore come Ettore Scola, nel 1995, Alberto Sordi ne Il Romanzo Di Un Giovane Povero riusciva a incarnare un personaggio ambiguo e sgradevole. Segno che resta questa la sua cifra, in mezzo a molte cose non essenziali, di italiano alla rovescia. Nel paese dell’ipocrisia e della dissimulazione da lui così bene raccontate, non riusciamo ad ammettere che Sordi ci piaccia non perché ci mette alla berlina e ci spinge a riflettere e correggere i nostri limiti. Ma perché ci racconta brutti per come siamo. E per come vorremmo, liberatoriamente, poterci manifestare.